Il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar
Alzo la serranda.
Le luci che illuminano il poco che rimane della città sono artificiali.
Intorno a me il silenzio è interrotto dal rumore di qualche latta fatta cadere dai gatti randagi mentre rovistano i cassonetti in cerca di cibo. Sento un breve lontano vociare di ragazzi brilli in conclusione di nottata.
Dentro al bar, sul pavimento, trovo due lettere; una della compagnia telefonica, l’altra di un partito politico.
Le ha infilate il postino sotto la porta d’ingresso.
Raccolgo la corrispondenza e senza aprirla cestino quella del partito politico. Passo con rapide occhiate a verificare la cifra indicata nella fattura di quella telefonica.
Come ogni mattina la prima cosa da fare è accendere la macchina del caffè.
La routine prevede anche di far scattare quattro interruttori ed azionare il riscaldamento. Lo faccio.
La licenza del bar l’avevo acquisita nel 1996 da E un signore molto anziano che nonostante percepisse la pensione di vecchiaia passava le ore con gli amici seduto ai tavolini a bere, battere a carte e chiacchierare con i suoi clienti o amici che dir si voglia. Sua moglie stava al bar con lui, dietro al banco in realtà. Lui ordinava e lei eseguiva.
Assieme ai lavori di rinnovamento non tardarono ad arrivare le prime lamentele dai clienti che avevo ereditato dalla gestione precedente.
Dopo qualche settimana non entrò più nessuno di quelli, spiazzati dai cambiamenti che il locale aveva subito.
Furono rimpiazzati presto. Anche dai loro stessi familiari più giovani.
Ciò a cui puntavo, a differenza di chi mi aveva preceduto, erano le centinaia di studenti che necessitavano di colazioni golose e pranzi veloci ed economici.
C’ero riuscito. Ormai avevo un nome in città e mi ero creato il giro di clientela fissa.
Sono le 6:45 ed entra il primo cliente della giornata. Saluta, si scrolla il freddo da dosso con alcuni movimenti decisi. Togliendosi i guanti di lana mi ordina un caffè indicando la brioche che gli scalderò.
La radio è ancora spenta. C’è silenzio. Dovrò sentirla per tutto il giorno e decido di non darle parola per il momento. Come il fuochista alimenta la locomotiva anch’io armeggio la mia macchina del caffè tra sbuffi, fischi della leva del vapore e brevi rumorosi scatti della macina. Con lui condivido il compito di mettere in moto qualcosa. Al fuochista spetta muovere il treno, a me la giornata dei clienti.
Negli anni d’oro del bar e della città, la prima persona che varcava l’ingresso del locale era N, un ragazzo di ventisette anni che frequentava mediazione linguistica e culturale all’Università. Il suo sorriso era sempre puntualissimo. Me lo consegnava attraverso la porta della vetrina che si affaccia alla via alcuni minuti prima che aprissi. Con aria indaffarata attendeva girassi la chiave permettendogli di entrare. Non capivo come una persona potesse essere così positiva già di prima mattina. A livello fisiologico intendo.
Non sempre apprezzavo le sue raffiche di parole dalle quali però era molto difficile smarcarsi.
Raramente si sedeva. Appoggiava la sua borsa a tracolla di stoffa verde sul tavolino, sfogliava velocemente il giornale ma senza apparente trasporto. Preferiva commentare il suo vissuto quotidiano e ciò che lo circondava anziché perdersi dietro alle cronache altrui. Avevo inteso che i fine settimana li divideva tra un pub come barista ed una pizzeria come cameriere. Aveva molte conoscenze ma dava l’impressione di preferire starsene per le sue. Il suo modo di fare spigliato e l’aspetto fisico importante dovevano risultare particolarmente apprezzati dalle ragazze. Considerava le prime ore del mattino una tregua agli ininterrotti messaggi che riceveva durante il resto della giornata dalle spasimanti. Diceva.
Il cliente che ho servito lascia i soldi sul banco, si rimette i guanti, saluta ed esce.
La porta non fa in tempo a chiudersi dietro a lui che entrano altri due signori. Chiedono un latte macchiato, un caffè ed anche loro mi indicano due brioches da scaldare. Sposto la tazzina usata sul banco, passo lo straccio, la poso nel lavabo, mi rimetto al lavoro.
Guardo distrattamente l’orologio.
Alla fine degli anni novanta questa era l’ora in cui si animava un siparietto tragicomico tra il dottor S, giovane medico del pronto soccorso e l’anziano cav. M accompagnato dalla sua badante.
Il cavaliere non perdeva occasione per esprimere chiaramente, nonostante l’età molto avanzata, la sua posizione netta non certo favorevole alla gestione del Paese. La vittima designata era il povero dottore che, sfruttando le sue origini meridionali, faceva orecchie da mercante sostenendo che questo era il sistema e non avrebbero potuto fare niente per cambiarlo. Nel mentre la badante assisteva disinteressata complici la provenienza straniera e l’impegno nel mangiare l’enorme croissant evitando di macchiarsi gli abiti di zucchero a velo o del ripieno di crema. La signora era un’entità astratta. Presente fisicamente, mai partecipe.
Ho finito di fare qualche altra colazione, il bar è vuoto ed il numero dell’ultimo scontrino emesso segna tredici.
Approfitto del tempo libero per pulire e riordinare. Nelle ore di lavoro non c’è mai tempo per stare fermi.
Vengo interrotto dall’ingresso di altri tre avventori mentre riordino l’ingresso. Saluto, faccio due passi dietro a loro e riprendo posizione al banco. Ormai è tarda mattinata ed anche gli ordini cominciano a variare. Il signore in giacca, un professionista, ordina un caffè, gli altri due, evidentemente manovali, una bottiglia d’acqua e qualche tartina. Parlano animatamente tra loro.
Questa era l’ora degli studenti. Il quaderno che tenevo vicino alla cassa era carico di pagherò. Non ho più verificato se qualcuno di loro ha lasciato debiti. Da quando hanno smesso di frequentare il mio bar non l’ho più sfogliato.
Lascio ai loro discorsi tecnici i tre uomini e riapro il libricino dei debiti che adesso giace in un cassetto. Aperta la terza pagina vengo travolto da nomi, numeri e cancellature che colpiscono la mia memoria. Le note di inchiostro blu fuoriescono come immagini contenute nei libri animati per bambini. Un turbinio di identità che avevo rimosso. Pagina dopo pagina perdo tempo nell’immedesimarmi nel periodo indicato dalle date. Riaffiorano i dialoghi. L’immaginario brusio delle voci dei ragazzi che si è ricreato in me è talmente forte che non mi accorgo che i tre clienti sono nel frattempo usciti. Arrivo all’ultima pagina stremato come avessi corso una maratona. In effetti c’è una voce che non è stata depennata. Corrisponde ad N, il ragazzo sorridente della mattina. Un cappuccino.
Prima o poi ripasserà. Il cappuccino glielo offrirò io volentieri. Parleremo della sua laurea e delle sue avventure. Chissà dove vive adesso?
L’approfondimento della memoria viene interrotto dallo schiudersi della porta. A varcarla è una avvenente signora accompagnata da un rinomato notaio della città ed un altro signore che non conosco. E’ molto giovanile e curata nell’aspetto. Da giovane sarà stata stupenda, penso. Indossa abiti e gioielli pregiati con disinvoltura e senza mascherare la propria maturità. Sorprende me e gli accompagnatori ordinando una Coca Cola. A disposizione del notaio lascio una tazza d’acqua bollente e delle bustine di tè, mentre l’altro signore ordina un macchiato.
Scambio alcune battute con i clienti. Sorridiamo. Noto che la signora ha un viso visibilmente teso.
Intuisco che hanno appena concluso una compravendita importante e preferisco spostarmi di qualche metro per non infrangere la loro privacy. Riprendo a sfogliare il quaderno cercando di non farmi coinvolgere troppo come in precedenza.
Il notaio, posizionato nel mezzo dei due, sorseggia il tè, il signore alla sua sinistra parla con aria soddisfatta delle sue proprietà alle quali si è aggiunta quest’ultima, la signora non pare coinvolta e, nel chiedere una salvietta, sofferma lo sguardo sul quaderno degli insoluti. Passano pochi secondi e sale in me un impetuoso bisogno di parlarle. Accennando un sorriso le dico che il bar, a suo tempo, era molto frequentato dagli studenti. Non sempre avevano contante in tasca così a volte capitava si facessero annotare alcune consumazioni. La signora accenna un sorriso e fa passare qualche minuto prima di dimostrarsi interessata ad intraprendere un breve scambio di parole con me. Anche suo figlio frequentava l’Università, dice.
Le spiego, osservato da fulminei sguardi profondi del notaio evidentemente provato dal logorroico signore accanto a lui, che prima del 6 aprile 2009 il mio bar era un luogo di ritrovo per i ragazzi, adesso ci sono solo tecnici ed addetti alla ricostruzione. Qualche minuto dopo le 3 e 32 di quella notte niente era rimasto come prima tranne la mia casa ed il mio bar. La serranda che fino ad allora facevo fatica ad alzare e richiudere si era rimessa in asse. Un paradosso. Ancora oggi devo capire se il Signore mi ha risparmiato oppure mi ha inflitto una pena maggiore distruggendo tutto ciò che mi circonda. Mi sento imprigionato nel limbo di mezzo tra la fortuna e la maledizione.
La signora ascolta in silenzio. Non tradisce emozioni.
Ritengo adeguato terminare il mio discorso. In fin dei conti le persone che vengono al bar hanno già i loro problemi e di certo non sono predisposte ad accollarsi pure quelli del barista.
Mi confida inaspettatamente che è costretta a presenziare in città per notificare la cessione di una palazzina. Suo marito, importante diplomatico che vive a Roma, l’aveva acquistata per il figlio che si era iscritto all’Università. Date le ingenti disponibilità familiari l’aveva ritenuta un buon investimento sia per sistemare l’erede che per affittarla ad altri studenti. In realtà suo figlio, confessa, non aveva ottimi rapporti con il padre e scelse di non abitare mai in quella casa. Aveva preferito trovare dei lavori qua e là per mantenersi e dormire in un piccolo appartamento condiviso. Dopo il terremoto la palazzina di loro proprietà era rimasta pressoché integra e nessuno studente aveva fortunatamente riportato ferite, mentre l’abitazione dove risiedeva il figlio era crollata senza lasciare via di scampo a lui ed alla coinquilina, anch’essa studente.
La donna si interrompe e disegna una smorfia con la bocca.
Intuisco di non essere l’unico a coltivare dubbi riguardo la bizzarra selezione divina.
L’emozione tradisce la madre dello studente ed una lacrima si fa spazio tra i segni del viso fino a dissolversi nella salvietta.
Suo figlio, continua, si chiamava N e frequentava la facoltà di mediazione linguistica e culturale all’Università de L’Aquila. Era un bravo ragazzo.
Il terremoto toglie tutto. Anche le forze di sconvolgersi o sorprendersi; non aggiungo nulla infatti e non faccio trapelare niente.
In questo momento sta parlando solo la radio di sottofondo.
Apro il quaderno, cerco la pagina dove è segnato il cappuccino rimasto in sospeso e lo depenno. Butto nel cestino sia il quaderno che la biro.
Il notaio cortesemente invita gli altri due a lasciare il bar dopo che il signore logorroico ha insistito per pagare il conto che ho garbatamente rifiutato di incassare.
Questo giro lo offro io.
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