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Cap.1 Ti troverò a Manhattan

Qualcuno di voi ha mai fatto una pazzia, un gesto estremo,  pur di raggiungere un desiderio? Vi siete mai sentiti come dei moscerini attratti da accecanti ed inafferrabili bagliori di luce verso i quali lasciarsi trasportare? Un tronco spinto dalla corrente del fiume, coscienti che alla fine ad aspettarvi ci siano le ripide di una letale cascata o semplicemente una spiaggia paradisiaca. Forse l’avrete fatto motivati da un amore o più probabile innamoramento, magari un capriccio oppure meschina avidità… A me, fino ad allora, non era mai capitato nulla di tutto ciò. La mia vita era sempre stata pianificata, discreta, rassicurante. Arida di sentimenti. A memoria non posso ricordare nemmeno un rischio programmato. Probabilmente risultava parecchio noiosa, vista da fuori.

Eppure fin da ragazzino rimanevo affascinato dai libri che narravano avventure. Isole di pirati e tesori nascosti; storie di esploratori e di navi ed aerei che sfidavano tempeste, tuoni, fulmini e saette con i loro misteriosi carichi. Rischi che non sempre andavano a buon fine; disgrazie che segnavano l’inizio di nuove spedizioni ed entusiasmanti racconti. Leggendo avevo cominciato a farmi una cultura generale appassionandomi in particolar modo di uno scrittore. Di lui, F.C., si sapeva poco se non  il suo nome e qualche notizia scritta sulle monocromatiche copertine dei suoi libri. A pensare oggi a quei spessi cartoncini grigiastri o verdognoli mi chiedo quale attrazione m’abbiano trasmesso nel vederli la prima volta; come fece ad incuriosirmi il contenuto? La copertina di un libro è come il viso di una ragazza, fondamentalmente. Parafrasando, mi sarei innamorato di una donna dall’aspetto orribile, ma infinitamente interessante. Ricordo anche con esattezza quando presi la decisione di andare a New York: un pomeriggio di fine estate, quando l’influenza stava finendo di martoriarmi ed i documenti di lavoro che adocchiavo caddero  inavvertitamente ai piedi della libreria. Nel raccoglierli, intontito da qualche linea di febbre e dall’aria pesante di casa, urtai la schiena sulla scrivania che finì con lo sbattere su una scansia rovesciando sulla mia testa un libro impolverato. Dopo un’imprecazione lo raccolsi per riporlo al suo posto ma non prima di soffermarmi a guardare la sfuggente immagine del, già allora, non più giovanissimo scrittore. Il volto dipinto era misterioso, un po’ cupo. Sfuggente. Non feci mai caso che tutta la collezione di F.C., cui ero forse unico possessore al mondo, non presentava nessuna foto ritratto. In pratica quel uomo che aveva contribuito ad alimentare la mia fantasia e di chissà quanti altri lettori, non aveva una faccia, un’immagine definita.

Quel pomeriggio mi ero trasformato in un moscerino e l’accecante bagliore fu la curiosità di scoprire chi fosse veramente F.C.

Le mie prime ricerche cominciarono in quel istante su internet dove ero sicuro avrei trovato tutto ciò cui andavo cercando. Aneddoti, curiosità, fotografie, biografia dello scrittore e via dicendo. Ero certo che in qualche minuto avrei potuto rispondere alle domande che, chissà come mai, mi ero posto solo allora dopo decenni in cui avevo letto i libri; notai che era passato così tanto tempo che forse avrei dovuto sfiorarli anche con uno straccio oltre che con lo sguardo. Incredibilmente in rete non trovai praticamente nulla. Una menzione del nome e delle sue opere senza nessun collegamento esterno. In pratica il mondo di F.C. conosceva esattamente e solamente ciò che io stesso possedevo: un nome e cognome, qualche prefazione di circostanza, i titoli dei suoi romanzi e gli indirizzi di due case editrici di poco conto, probabilmente già fallite da tempo. Entrambe di New York e questo poteva far pensare in qualche modo che F.C. potesse almeno provenire da quello Stato, forse quella città. Trovai anche un forum dove un certo Kiko56 si poneva la mia stessa domanda: qualcuno ha notizie di questo scrittore? Il suo intervento risaliva a dieci anni prima cui non seguitavano risposte.

Cinque giorni dopo mi trovai seduto in aeroporto ad aspettare la chiamata di imbarco per il mio volo. Di tanto in tanto verificavo sul monitor che non ci fossero cambiamenti di orario e che il gate d’uscita fosse effettivamente il numero B10. La stabile scritta azzurra New York JFK 9:00 era confortante agli occhi di chi come me, aveva volato pochissimo e non era pratico di aeroporti. Cercavo fiducia nelle persone sedute accanto a me e che sembravano sicuramente più a loro agio. Chi ascoltava musica, chi chiacchierava, chi leggeva un libro. Anch’io stavo leggendo. La storia di “Alice in Manhattan” la ricordavo abbastanza bene e questa volta la lettura consisteva nella ricerca di indizi o particolari che in qualche modo potessero portare il mio dito indice a premere il campanello giusto: quello della porta dell’autore del libro. Al lavoro mi credevano a casa con una forte influenza ed in pochi se ne sarebbero strappati le vesti; io attendevo un aereo che mi avrebbe portato a New York da lì a poco. Stavo incredibilmente vivendo la mia prima pazza avventura; la mia folle caccia al tesoro.

Durante il volo avevo proseguito nella lettura irrigidendomi e sudando freddo ad ogni vuoto d’aria, probabilmente provocando l’ilarità della mia imperturbabile obesa antipatica vicina di sedile con la quale avevo scambiato qualche occhiata e nessuna chiacchiera. Anche i controlli dell’immigrazione all’aeroporto JFK non mi avevano rubato troppo tempo così che in poco più di due ore dall’arrivo a New York mi trovai disteso sul letto nella stanza del mio albergo a pochi passi da Time Square. La stanchezza non aveva prevalso la mia voglia di uscire e curiosare la metropoli americana, fonte di ispirazione di migliaia di artisti tra cui lo scrittore cui andavo cercando. Non dovevo scordamelo, quello era il motivo per cui mi trovavo a New York. Cominciai ad addentrarmi nella nuova stravagante realtà composta da mille insegne esageratamente luminose, persone vestite da pupazzi e supereroi ed un interminabile affollamento creato da gente di ogni genere, razza, colore ed estrazione sociale. Era tutto in vendita ed i gadget strabordavano dai negozi e dalle bancarelle. Se nella vita avessi coltivato qualche rapporto sentimentalmente significativo in più, avrei dovuto acquistare un’ulteriore valigia solo per metterci i souvenir da regalare. Per fortuna non correvo questo pericolo. A Time Square scese la notte e la luminosità artificiale della piazza aumentò a dismisura. Mi sentì tramortito dalla folla e dall’incessante flash delle gigantesche insegne pubblicitarie tanto da svincolarmi ed entrare nella Broadway Avenue dove trovai un’atmosfera più nostalgica. L’avvicendarsi di insegne circondate da lampadine nel classico stile che contraddistingue Broadway e decine di colorate locandine reclamizzanti musical, mi avevano riportato a pensare agli anni 80.

Mi soffermai davanti la vetrina di un negozio di droni e dopo qualche minuto, ingolosito dal cibo esposto in vetrina,  entrai in un locale a mangiare qualcosa. Ordinai un semplice involtino con gli spinaci e, nel mentre la banconiera lo mise a scaldare, presi anche un’acqua ed una cheesecake. Pagai alla cassiera e tornai al banco a prendere il mio involtino. Provai a pescare un biglietto della mia personale lotteria chiedendo alla ragazza, che intanto mi stava porgendo il mio spuntino, se avesse mai sentito parlare dello scrittore F.C. o se si fosse mai visto da quelle parti. Ovviamente la sua risposta fu un no accompagnato da un sorriso che mal celava i suoi dubbi riguardanti la mia integrità psicologica.

Giusto il tempo di rientrare in albergo che ricevetti una chiamata dall’Italia.

Il numero era inequivocabilmente quello del mio superiore che lasciai squillare per qualche secondo nel mentre ipotizzavo il motivo di quella chiamata. Risposi senza che nessuna idea fosse pervenuta al cervello. Avevo finto una voce influenzata ma il capo chiese semplicemente chiarimenti su degli appunti che avevo lasciato in ufficio senza preoccuparsi troppo della mia salute. Prima di chiudere in effetti si interesso con distacco della mia condizione fisica. Poi esternò una battuta che mi fece sobbalzare dal letto. Sarai mica a New York, mi disse sarcastico, prima di suggerirmi di abbassare un po’ l’audio del film poliziesco che stavo, secondo lui, guardando. In realtà il sottofondo che sentiva non era quello di un film, ma l’originale colonna sonora che accompagna la Grande Mela giorno e notte. Non credo esistano città così caratterizzate dai suoni come New York.

Il giorno seguente mi recai subito alla ricerca della casa editrice che aveva distribuito gli ultimi sei libri dello scrittore che andavo cercando. Per farlo presi la metropolitana e raggiunsi la zona del Ground Zero. Quello che è stato costruito al posto delle Twin Towers si avvicina molto ad una nave spaziale. Perlomeno l’interno. Così come le enormi vasche commemorative con incisi i centinaia di nomi dei caduti evocano qualcosa di surreale. Incredibilmente anche quella tragedia è stata fonte di business come testimoniano i tanti gadget acquistabili nei paraggi. Non potevo fare a meno di visitare quel luogo che ha segnato una svolta epocale.

L’indirizzo della casa editrice corrispondeva ad una casa diroccata. Un inizio che odorava di fine.

Rimasi a guardare la casa con in mano il mio foglio con stampati i dati di riferimento. Impalato come un idiota che era ciò che in quel momento realmente sentivo di essere. Attorno a me grattacieli, camion dei vigili del fuoco e polizia, un incontro di reduci dalla guerra dell’Iraq, probabilmente. Ma come mi era saltato in mente di cercare uno scrittore di cui non conoscevo neppure il volto e di cui non sapevo nemmeno fosse vivo o morto, in una città dove vivono e transitano milioni e milioni di persone? Mi misi a camminare finché non arrivai al Battery Park da dove vidi la Statua della Libertà. Per un attimo l’emozione nel vederla mi fece dimenticare la sconfitta che stavo vivendo.

(continua)

Halong Bay Heritage Marathon. Correre in Vietnam.

L’Heritage Halong Bay Marathon è una manifestazione con pochi precedenti alle spalle e forse per questo offre il fascino della corsa dura e pura senza troppi fronzoli commerciali come avviene di consueto negli appuntamenti del Vecchio Continente, per non parlare degli Stati Uniti, regno incontrastato del marketing estremo. Al ritiro del bib si notano subito le differenze con New York, ad esempio, dove ad accoglierci non ci saranno centinaia di addetti, sicurezza e migliaia di gadget esposti negli stand dei grandi brand sportivi bensì quattro persone dietro ad un tavolo di un’enorme sala conferenze completamente fredda e spoglia.

La prima sfida è quella di assimilare il viaggio, piuttosto impegnativo, ed il fuso orario (+6) che dal punto di vista fisico non è troppo fastidioso.

Nell’immaginario di molti il Vietnam è un’apoteosi di verde, foreste, fiumi marroni, umidità ed insetti. Immagine che ci è stata inculcata in anni di film americani di guerra girati, tra l’altro, al di fuori del territorio vietnamita dove ancora oggi di queste pellicole propagandistiche ne è bandita la proiezione e la produzione. Incredibile pensare che i vietnamiti non hanno idea di chi sia Rambo, altro esempio.

Fatto sta che la Baia di Halong, almeno nel periodo in cui si corre la maratona, ossia in novembre, presenta un clima piuttosto favorevole alla corsa. Alle prime ore della mattina quando ci si presenta al via, la temperatura è addirittura gelida.

Non si scalda nemmeno al nastro di partenza, dove le poche presenze degli atleti, la scarsa affluenza di pubblico e le prime e poche luci dell’alba, rendono l’atmosfera dello start simile a quello delle ultra maratone o delle ultra trail piuttosto che alla 42K cui stiamo partecipando.

Ovviamente non ci sono wave colorate da seguire e poco male se si parte per ultimi come il sottoscritto dato che pensavo che il colpo di cannone (si fa per dire) sarebbe avvenuto mezz’ora dopo…

Sottointeso che sia necessaria una adeguata preparazione fisica per terminare decorosamente una maratona, nel caso specifico è indispensabile presentarsi all’appuntamento fisicamente e mentalmente al meglio solo per finirla (anche senza decorosamente) in quanto il percorso tecnicamente è piuttosto impegnativo. Le gambe vengono messe a dura prova nell’affrontare le due salite più ostiche (e di conseguenza le ripide discese) che ci fanno salire sul punto più alto del percorso che è lo spettacolare Bãi Cháy Bridge. Una all’andata, una al ritorno.

Mentre numerose energie vengono consumate in questo frangente, presto ci si ritroverà pressoché isolati a continuare il nostro percorso. Lì incomincia la parte più difficile dal punto di vista mentale; vuoi perché viene a mancare la componente più bella ed importante delle competizioni, ossia la spinta del pubblico che differenzia un giorno d’allenamento qualunque da quello della gara, vuoi per il mini stress nel cercare le indicazioni per il percorso giusto da seguire. Come non bastasse le strade non sono chiuse al traffico, pertanto la sensazione di correre come dei pazzi numerati tra le vie di Halong è piuttosto presente. I punti di ristoro sopperiscono alla grande alle necessità dei corridori.

Tra tratti di marciapiedi sgarrupati e cantieri aperti, aumenta la solidarietà tra i partecipanti che, arrivati al giro di boa della mezza, devono ripercorrere i loro passi incrociando così gli inseguitori. In totale mancanza di pubblico il farsi forza tra maratoneti diventa scambiarsi un cinque con i più forti o rispondendo al saluto di chi si incontra intorno al 25K (che sarebbe il loro 17mo) e che ti guardano come fossi un marziano.

Questo accade in manifestazioni poco frequentate perché i miei tempi sono ridicoli se paragonati anche a quelli di un buon amatoriale in gare più blasonate, senza scomodare i professionisti che li vedo con il binocolo.

Passo dopo passo ci si avvicina al fatidico arrivo dove nonostante gli aminoacidi gentilmente offerti da Aldo Rock in occasione della maratona di NY, ho accusato un crollo totale che mai mi era capitato prima. Al 40K la mia testa ha deciso che dovevo camminare. Questa sciagurata presa di posizione della mia coscienza che non sono riuscito a contrastare ha dimostrato quanto sia importante avere una persona amica o anche degli sconosciuti che ti incitano a spingere per qualche metro ancora. Ma di pubblico nemmeno l’ombra. Uniche pillole consolatrici l’assurdo doppiaggio dei partecipanti della mezza maratona, ma soprattutto quelli della 10K. Fortunatamente dopo qualche centinaio di metri ed essere stato superato da un giapponese che pensavo d’aver lasciato abbondantemente dietro, ho ripreso a correre e mettermi in scia del nipponico ma senza la necessaria forza per ripassarlo. Traguardo raggiunto ma decisamente spaccato.

Bella la medaglia che viene riconosciuta ai finalisti ed indispensabili i bicchieri di plastica contenenti i noodles al ragù. La fame era talmente insistente che ne ho finiti tre ricolmi utilizzando le bacchette (đũa) con le quali  generalmente faccio fatica anche a tirare su pezzi di cibo più solidi e consistenti.

A proposito del cibo, fattore da non trascurare assolutamente e che nel mio caso è stato uno degli elementi più penalizzanti in assoluto: la sera prima della corsa evitate di cercare fortuna tra i locali di Halong ma optate per una cena presso un albergo che offra cucina internazionale. Poco importa se la qualità non sarà eccellente ma carboidrati, proteine, grassi e zuccheri in qualche modo vanno ingeriti. Personalmente ho corso una maratona con in corpo una zuppa di pollo della sera precedente ed una fetta di cheese cake per colazione la mattina stessa e giuro che al 30K mi sentivo la faccia consumare dalla fame.

Anche quest’ultima parte con gli anni diventerà un simpatico aneddoto da raccontare, ma sicuramente è un errore da non ripetere.

Parafrasi di terremoto

biciA L’Aquila quasi tutti gli edifici sono coinvolti in opere di ricostruzioni. Alcuni ancora nascosti dalle reti di protezione, altri sostengono complesse impalcature, qualcuno è stato puntellato ed abbandonato a se stesso.

Sembra di camminare all’interno di un grande set cinematografico svuotato dagli attori protagonisti.

Sempre meno presenti, ma esistono ancora luoghi dove il tempo si è fermato pochi istanti dopo i crolli della notte del 6 aprile 2009. Si possono scorgere dei grossi monitor della saletta computer di un bar. La visione ci fa comprendere i passi da gigante che sta facendo la tecnologia, quasi voglia instaurare in rapidità un ampio e netto distacco dal tragico avvenimento.  Affacciandosi alle vetrine di alcuni negozi evacuati si nota la merce giacente disordinata tra scaffali incrinati e pavimenti impolverati.

Camminando tra le vie della città questo è quello che si vede.

impalcaturaLe martellate, le accelerate delle betoniere, lo stridere dei trapani, i richiami tra muratori è quello che invece si sente. Attorniati da un irreale cuscinetto di silenzio.

Il rischio è focalizzarsi su quanto sopra descritto e piangere la parziale dispersione culturale ed architettonica anziché la perdita umana e comunitaria.

L’eruzione del Vesuvio a Pompei provocò la distruzione dell’insediamento umano immobilizzando e cristallizzando nella storia centinaia di persone. Resti a tutt’oggi riconoscibili che ci ricordano gli attimi di sorpresa e sofferenza subiti dagli abitanti. A distanza di duemila anni il ritrovamento di oggetti e resti appartenenti al nostro genere ci ricordano i drammi e le storie vissute all’epoca. Il centro dell’attenzione è rivolta all’uomo.

L’Aquila, a differenza della cittadina campana, sarà ripulita e tirata a lucido pronta per ripresentarsi al mondo come una delle più belle città europee e non solo. Esiste così il rischio che venga celata traccia della sofferenza subita da ogni cittadino. Persona per persona.

Il pericolo più grande è che dopo il caloroso abbraccio umanitario ricevuto in varie forme dagli aquilani, nel caso specifico, le vittime vengano dimenticate o abbandonate per procurata scocciatura. Le richieste d’aiuto protratte nel tempo, pur logicamente legittime, diventano scomode al resto delle comunità integre che non amano protrarsi nelle emergenze. Anche se irrisolte.

internoNella storia il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar  quello che si cerca di far emergere è il fatto che le cose si possono ricostruire. A tutto c’è una soluzione, tranne che alla morte. Simbolicamente il riferimento a questo detto è la serranda del bar del protagonista del racconto, tornata in asse dopo il sisma. Qualcosa di materiale che in mezzo alla distruzione addirittura si ripara.

Per chi resta in vita non rimane altro che adattarsi ai cambiamenti e confrontarsi con la nuova realtà.

Guardando negli occhi di queste persone si dovrebbe pensare a quello che hanno perso, a ciò che hanno subito. Negli Stati Uniti dopo il crollo doloso delle Twin Towers hanno individuato un nemico contro cui scagliare la loro rabbia. Tutti i desideri di rivalsa all’accaduto li stiamo pagando ancora oggi con l’aggiunta di altre vittime; anche tra uomini dell’esercito riversati nei luoghi dove si radicalizza il male. A loro detta.

Nel caso nostrano non c’è un nemico da affrontare. Esiste chi punta il dito verso le autorità competenti che non hanno prevenuto niente di ciò che si è verificato, gli orfani delle Chiese semidistrutte che evocano punizioni divine, altri che si appellano alla fortuna o sfortuna.

Ciò che è stato è un evento naturale. Vedendolo da un punto di vista naif e fantasioso una scrollatina del globo terrestre forse annoiato nel sopportare milioni e milioni di puntini che lo modificano quotidianamente estraendo minerali, producendo scorie, lasciando residui ovunque e divorando tutto ciò che si muove tra terra, acqua ed aria.

Anche questa teoria però devia la traiettoria dell’intento della storia dell’uomo del bar che, se ancora non si fosse capita, vuole indirizzare l’attenzione alle persone toccate dall’evento e non alle cose.

Le cose sono fatte per essere usate.
Le persone sono fatte per essere amate.
Il mondo va storto perché si usano le persone e si amano le cose.

Steve McCurry a Monza: fotografo d’anime

Il fotografo artista Steve McCurry espone le sue immagini in una mostra di altissimo livello a Monza presso l’altrettanto spettacolare Villa Reale, dal 30 ottobre 2014 al 6 aprile 2015. 20141208_111107I primi scatti professionali di Steve McCurry avvengono all’età 19 anni in qualità di reporter in un piccolo giornale in Pennsylvania e che nessuno, lui compreso, avrebbe immaginato si sarebbero evoluti fino a tal punto. La fantastica parabola ascendente deriva dal fatto che il successo professionale è accompagnato passo dopo passo da quello umano, lato che in ogni sua foto è imprescindibile, in alcuni tratti commovente. L’umiltà e la voglia di mettersi in gioco davanti alle persone ed alle situazioni che ha immortalato scatto dopo scatto durante i suoi innumerevoli reportage, sono stati indispensabili per raggiungere l’eccellenza. IMG-20141208-WA0009Nell’epoca del digitale in cui siamo inflazionati da foto di ogni genere e tipo, tra tanta puerilità e mediocrità presente sui social, è davvero gratificante perdersi nel mondo del McCurry che ci porta per mano, anzi, per occhio, non solo tra i mondi considerati meno fortunati e martoriati da guerre o povertà, ma tra le persone che li popolano, vivono e caratterizzano, facendo notare con discrezione e palpabile garbo i sentimenti contrastanti che essi portano nel cuore e nell’anima. Nelle sale espositive di Palazzo Reale le foto sono esposte senza criterio geografico o temporale ed è davvero piacevole ritrovarsi dall’Afganistan all’India, dallo Yemen al Brasile piuttosto che Giappone, da New York a Roma nel giro di pochi passi. Spaziando nel tempo che i più attenti collocheranno con esattezza storica senza l’ausilio delle targhette identificative (ovviamente presenti) dato che è sufficiente guardare con attenzione la grana della pellicola per distinguere quali furono scattate in Kodachrome da quelle più recenti, digitali. Un abisso tecnologico facilmente riconoscibile. IMG-20141208-WA0007Tra i tanti volti sconosciuti e veri protagonisti della mostra spicca quello stranoto di Robert De Niro, scelto per simboleggiare la città di New York ed immortalato nell’ultima pellicola kodachrome allora disponibile; foto sviluppata e stampata nell’ultimo piccolo laboratorio esistente al mondo che ancora trattava pellicole prima dell’inevitabile estinzione. Un omaggio di Steve McCurry a questa fantastica pellicola prima di concedersi definitivamente alla tecnologia digitale. IMG-20141208-WA0008Per dimostrare che niente è per caso e che Steve è un predestinato, un fuoriclasse del reportage fotografico, rimaniamo proprio a NY, dove nel 2001 in occasione di uno dei più tragici eventi mai accaduti ossia il crollo delle Twin Towers, dove oltre al fatto curioso che possedesse un ufficio con vista sul World Trade Center si aggiunge quello che ci fosse tornato proprio un giorno prima da un lungo viaggio, il 10 settembre; come se l’appuntamento con la documentazione di fatti epocali fosse stato scritto sulla sua agenda vitale e come se il destino aspettasse ogni volta quest’uomo per farsi immortalare un’ultima volta prima di cambiare corso alla storia. Davvero incredibile. 20141208_120740 D’altronde per essere delle persone uniche e speciali, dei fuoriclasse, non basta il talento, la volontà o qualche colpo di fortuna ma un concatenarsi di astri favorevoli ed avvenimenti che attimo dopo attimo si intreccino con la vita del prescelto in un eterna e formidabile unione di azioni e conseguenze esclusive ed irripetibili. 20141208_122610Oltre all’utilità delle audioguide indispensabili in alcune foto per svelare retroscena, significati ed anche prospettive, che per Steve McCurry saranno anche naturali ma per il comune visitatore sarebbero ardue da focalizzare, l’ausilio di brevi resoconti filmati in cui l’autore racconta vari aneddoti e storie da lui vissute risultano essere molto piacevoli ed altrettanto efficaci nello scopo di integrarci completamente con lo spirito dell’interprete e diventare a nostra volta, con una semplicità disarmante, protagonisti delle storie e luoghi riprodotti dal fotografo. 20141208_121924La lezione che ne deriva, indipendentemente se rivolta ad aspiranti fotografi, professionisti o meno è che con l’umiltà, la passione ed il rispetto verso il prossimo, il mondo ramificherà sotto i nostri piedi infinite strade verso il successo che, come in questo caso, faranno apparire quasi come dettaglio ininfluente la Nikon che ha tecnicamente eseguito lo scatto ma che senza l’ausilio di un grande spirito ad indirizzarla nel cogliere il momento ideale, altro non sarebbe che un prezioso ed inutile oggetto. 20141208_114152 Mostra assolutamente da non perdere. Bellissima. “Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te“.  (Steve McCurry) Instagram: @McCurryStudios 20141208_120838  20141208_121128

Pronti a partire? Ecco la cura adatta.

Più o meno velocemente si avvicina l’estate e per qualcuno è tempo di cominciare a viaggiare, se non altro con la fantasia, alla ricerca della meta vacanziera ideale.

Mal di mare? Evitare le Maldive

Mal di mare? Evitare le Maldive

Pare che negli ultimi tempi gli italiani più che scegliere i luoghi considerando le proprie possibilità ed esigenze, partecipino ad una sorta di gara fashion con i conoscenti; hai fatto il week end a New York? Ed io ti sparo una settimana in Vietnam. Tutto documentato in facebook ovviamente, con paesaggi surrealistici e sorrisi alla stregua degli appariscenti cugini yankee.

In realtà dietro a queste scelte particolarmente glamour e sorrisi preconfezionati, si celano difficoltà croniche cui il turista si scontra inevitabilmente. Il primo ostacolo è la lingua. Non si è mai capito perché l’italiano pretenda di poter utilizzare il proprio idioma in qualsiasi parte del mondo. Generalmente ci si appiglia al fatto che la maggior parte dei visitatori siano di nazionalità italiana, quindi è lecito attendersi che anche i Masai siano capaci di parlare la nostra lingua, spesso dimenticando tra l’altro che l’italiano è appunto lingua e non dialetto bresciano, bergamasco o barese e napoletano. Fantastiche sono anche le scenette in cui si parla lentamente per cercare di farsi capire con l’interlocutore che rimane ad occhi sgranati e bocca aperta per cercare di carpire qualcosa di logico da un linguaggio sconosciuto. Dialogare nella propria lingua normalmente o lentamente ad uno che non associa nessun significato logico alle parole ha ben poca rilevanza. Vero è che l’italiano oltre alla dialettica utilizza moltissimo la mimica in cui, va riconosciuto, è campione mondiale incontrastato.

Approcci Masai

Approcci Masai

Paradossalmente anche fattori che avrebbero dovuto avvicinare popoli e culture hanno agito all’esatto contrario: la riduzione dei tempi di percorrenza da un luogo ad un altro e la crescita esponenziale di offerte ed agevolazioni hanno ridotto la reale percezione delle distanze. Da Bergamo, ad esempio, la durata del volo per il Cairo e più o meno la stessa di un viaggio in auto da Milano a Marsiglia. Il tempo di trasferimento spesso non è quindi adeguato a trasmettere la reale lontananza etica e geografica. In poche ore ci si trova catapultati in realtà completamente differenti.

Non c’é da stupirsi quindi che il segnale wifi (gratuito) sia balzato in testa alle priorità del turista ovunque esso sia e si trovi, facente parte del pacchetto di pretese in cui è la nazione ospitante a doversi adeguare alle esigenze dell’ospite e non viceversa. Una licenza di limbo turistico protettivo che consente al visitatore di poter fare più o meno ciò che vuole avvolto da un’aurea colonialistica che autorizza a catechizzare gli indigeni con suggerimenti professionali e filippiche sulla presunta superiorità culturale italiana.

Già, perché all’estero nei racconti dei turisti italiani tutte le incapacità manifeste dello stivale e che riempono intere giornate tra discorsi da bar, talk show e conversazioni varie, svaniscono e lasciano spazio ad un Paese, presumibilmente, ideale ed inesistente e che spesso fan sorgere la domanda non troppo scontata: se a casa tua funziona tutto perfettamente come dici, che ci fai qui?

Foto ricordo

Foto ricordo con classe

Così ai precoci nostalgici di caffè espresso, pizza, spaghetti e mandolino, non rimangono che dure settimane di serrato confronto con popoli sottosviluppati, retrogradi e non competitivi con l’accogliente ed iper assistenzialista Mamma Italia. E’ sempre più esigua la memoria delle microsim occupata dalle foto delle cose da vivere e vedere che offre il luogo visitato, a discapito delle dettagliate documentazioni sulle inosservanze dell’alloggio che serviranno a chiedere i famigerati rimborsi una volta tornati alla civiltà; un atteggiamento da proprietario di appartamento che documenta le pecche all’amministratore condominiale e che poco aiuta nel percorso di mini integrazione.

Perù e spaghetti

Perù e spaghetti

Delle pasticche di buonsenso, uno sciroppo di logica e siringate di consapevolezza sono le medicine migliori per sconfiggere il male del secolo, il turista italicus, che oltre ad essere virale è pure contagioso.

Italians? No.

Italians? No.

Si riuscirà così a debellare il male dalle contagiate famiglie triestine che nei prati attigui ai bungolows kenioti inseguono armati di spray insetticidi animaletti volanti o napoletani alterati con commessi della pizzeria all’interno degli Universal Studios di Orlando rei di non capire il dialetto napoletano pur vendendo la pizza. Chissà, magari succede anche con qualche cittadino stelle e strisce a Napoli, incazzato perché il venditore di jeans non parla lo slang americano oppure che qualche autista di tram a Milano non comprenda il greco facendo così infuriare qualche turista di Salonicco.

In fondo tutto il mondo è paese.

Turisti tedeschi

Turisti tedeschi

(Tranne la foto delle Maldive le altre sono state prese dalla rete senza nessuno scopo offensivo o commerciale. Se fossero coperte da copyright o urtassero la sensibilità dei soggetti ripresi saranno rimosse immediatamente)