Bilbao. L’inutilità dell’arte

Gridò all’amico con il fiato rimasto.
Con le mani ai fianchi e la schiena piegata implorò di fermarsi un attimo a respirare.
Il ragazzo davanti a lui lo accontentò rallentando la corsa e ritornando sui suoi passi.
“Ma come? Sei già stanco? Dai sediamoci un po’ qui” disse avvicinandosi ad una panchina. Si sedettero.
La giornata era umida ma ciò non impediva loro di godere del panorama lungo le rive del fiume Nerviòn.
Grazie alla riqualificazione urbana di Bilbao e la comparsa di una pista ciclabile molte persone si erano avvicinate all’attività sportiva.
Il ragazzo con il fiatone stava recuperando le sue forze.
“Stiamo andando troppo veloci per le mie possibilità. Oggi la salitella del Euskalduna mi ha sfiancato”
Si stava riferendo al ponte moderno che attraversava il fiume.
“Strano, di solito lo fai con le ridotte. A proposito di Euskalduna, ma M suona lì la prossima settimana?” divagò per un attimo il giovane meno provato dall’attività “Sì, sì” Rispose l’altro e continuò “E’ la prima volta che si esibisce in quel teatro… E’ molto emozionata”
“Beh c’è da capirla. Senti ma noi continuiamo invece? Che dici? Rientriamo per la passarella di Arrupe o vuoi attraversare il ponte di Zubizuri?”
Presero del tempo per pensarci un po’ su e decidere cos’era il meglio da fare.
“Di sicuro non mi metto a fare le scale del La Salve” Risero.
Una volta ristabilito il fiato ripresero la loro corsa. Questa volta mantennero un passo tale da consentire la chiacchiera.
“Ogni volta che passo davanti al Guggenhaim mi torna in mente New York; quando ricordo quella città è inevitabile un pensiero alla maratona. Chissà se un giorno la faremo”
A parlare era il ragazzo che aveva accusato meno fatica.
Rispose l’altro ansimante
“Ma va. Sei matto? Schiattiamo dopo 10K immagina a farne 42…”
“L’han fatta migliaia di persone non vedo perché noi non potremmo. Proprio bello questo palazzo”
divagò passando davanti al museo.
L’amico non mancò di esprimere la sua opinione “Bello quanto inutile. Fondamentalmente l’arte è inutile” Lasciò una pausa di spazio al suo respiro, poi disse “Impara l’arte e mettila da parte”
“Da una persona che vive su una città affacciata al mare non mi aspettavo un’affermazione così strampalata!”
“Perché? Io adoro la concretezza. L’arte cos’ha di concreto?”
“Quindi anche il mare è inutile”
Si fermarono nuovamente appoggiandosi al parapetto del ponte Zubizuri
“Ma che c’entra il mare con l’arte scusa?”
“Anche il mare non porta benefici. L’acqua salata non può dissetarci, gli animali che lo popolano non sono necessari a sfamarci, la sabbia non è un terreno fertile. Insomma, anche il mare non ci serve a niente”
L’esempio non venne colto “Ma cosa c’entra il mare con l’arte? Stai paragonando la natura con qualcosa di superfluo. L’arte è una creazione dell’uomo”
“L’arte, come il mare, è indispensabile a stimolare i sensi dell’uomo. E’ nella nostra natura. Ascoltare musica o il suono delle onde, ci fa star bene. Fissare l’orizzonte ed ammirare un tramonto oppure un dipinto di alto valore artistico, provocano le stesse sensazioni. Sono valvole di sfogo indispensabili”
L’amante del concreto ammorbidì la sua versione
“Beh quello che dici è ovvio. Io intendevo che parte dell’arte, come questa scala ad esempio, ha un’utilità relativa”
“Nel caso di Calatrava ti devo dar ragione” sorrisero “Un architetto pluri blasonato che progetta un pavimento sul quale bisogna applicare un tappeto antiscivolo brutto come questo è davvero da denuncia”
Ricominciarono a correre e salire le scale che portano alla Bizkidetasun Plaza.
“Tu che fai, prosegui ancora o rientri?”
“Farò ancora qualche chilometro.”
I due amici si salutarono lasciando alle spalle un’arcata del ponte Zubizuri.
Il più atleta ed artistico dei due si immise nella calle Ercilla Kalea e corse tra i caseggiati e negozi nel cuore della città fino ad arrivare a Plaza Moyua.
Si fermò al centro della piazza ed ammirò i giardini in fiore.
Lo scroscio dell’acqua che zampillava dalla fontana trasmetteva un rassicurante senso di quotidianità.
L’arte si esprimeva attorno a lui circondandolo di sentimenti di ogni tipo.
Il colore dei fiori, gli ornamenti delle facciate dei palazzi, il brusio di qualche insetto.
Tutto faceva parte di un disegno divino. Meditò.
“Quando l’uomo rimane da solo e chiude gli occhi di fronte all’avvenire, e al sogno, gli si rivela l’abisso spaventoso dell’eternità.”
Miguel de Unamuno
La Mezza Maratona di Berlino

La mezza maratona di Berlino è la degna sorella minore della blasonata maratona, che assieme a Londra, Chicago, New York, Tokyo e Boston fa parte delle sei major; presenziarle tutte è obiettivo di molti maratoneti.
La mezza, del quale ci occupiamo, è altamente suggestiva. Dal punto di vista scenico è molto spettacolare in quanto il percorso cittadino attraversa i principali monumenti e luoghi d’interesse della metropoli. Partenza ed arrivo sono fissati ad un centinaio di metri dall’imponente Porta di Brandeburgo, uno dei simboli più importanti della città tedesca. La partecipazione alla gara è massiccia, con presenze che oscillano intorno ai 30.000 partecipanti con un tasso qualitativo di rilievo. Berlino presenta infatti un’ottima opportunità per migliorare il proprio personal best essendo praticamente del tutto in piano con anche lievi discese che favoriscono una corsa sempre in spinta. Per chi ha focalizzato i propri allenamenti sulla distanza breve con estenuanti tempi run e ripetute, le soddisfazioni non mancheranno sicuramente.
Il ritiro del bib e chip avviene presso l’aeroporto dismesso di Tempelhof, oggi giorno diventato parco e che chiaramente presenta spazi molto ampi ove poter allestire l’expo. Nel 1926, curiosità, proprio lì nasceva la compagnia aerea Lufthansa.
Oltre agli stand allestiti dai soliti brand alimentati dal gigante circus delle maratone, è possibile far partecipare i propri figli, nipoti o individui di età fanciullesca di vario legame parentale, a gare podistiche dedicate ai bambini e che avvengono il giorno prima della mezza maratona. Il circuito a loro dedicato è transennato nel mezzo della vecchia pista di atterraggio dove ancora oggi è parcheggiato un affascinante velivolo. I bambini, dai più grandi ai più piccoli, ce la mettono tutta e non sempre lasciano Tempelhof con un buon ricordo della corsa e dell’asfalto che in sporadici casi, in seguito a rovinose cadute, procura loro dolorose escoriazioni. Nessun problema per i pargoli teutonici e per i loro fieri genitori che, anzi, assistono orgogliosi all’eroico stoicismo degli eredi. Vedere orde di bambini correre all’impazzata verso il traguardo stimola anche la sete di chi assiste l’evento e che si disseta principalmente con la bevanda ultra nazional popolare. La birra, neanche dirlo.
La partecipazione è estesa anche alle scuole che indicono un concorso al miglior disegno con tema ovviamente la mezza maratona di Berlino.
Arriva il giorno della 21K e le temperature sembrano aver subito effettivamente l’incremento tanto monitorato e temuto dagli scienziati. Anche una città nordica e notoriamente fredda come Berlino presenta il conto: in una giornata soleggiata l’attesa che precede il colpo della scacciacani è meno rigida, ma durante la gara i gradi in più si soffrono eccome.
Poco ci sarebbe da dire sull’organizzazione tedesca, noiosamente infallibile.
I mezzi pubblici per raggiungere i punti di interesse sono facili da trovare e con una frequenza tale da coprire abbondantemente ogni orario utile. Le indicazioni per arrivare al proprio wave sono a prova di italiano e gli ingressi sono scorrevoli; prima di prenderne parte si può usufruire degli spazi del parco adiacente dove sgranchirsi un po’ le gambe per non partire a freddo.
Durante il percorso sono ben organizzati anche i punti di ristoro, il primo al 4K.
Purtroppo a differenza della maratona, nella mezza ci sono parecchie persone alle prime esperienze così che durante uno dei ristori è notevole il rischio di finire schiantati addosso a chi ci precede e che si fionda a prendere il primo bicchiere d’acqua come non ci fosse un domani.
Al di là di queste informazioni più o meno tecniche che possono interessare marginalmente chi vuole partecipare a questa manifestazione, c’è da sottolineare il coinvolgimento del pubblico che è davvero massiccio. Probabilmente perché coinvolto personalmente data la presenza di qualche parente e facilitato dal percorso che si snoda per vie centrali, come scritto in precedenza, si fa sentire praticamente ovunque. La parte più suggestiva è sicuramente quella che dalla Porta di Brandeburgo ti accompagna alla linea del traguardo.
Terminata la fatica e fissato il proprio tempo, parte l’interminabile cammino in cui sono presenti le solite bevande energetiche (dal colore inquietante simil caffellatte e dal sapore disgustoso), acqua e birra di ogni genere e tipo, dispensata ad ettolitri da uno dei main sponsor. Proseguendo con la vestizione del poncho per chi l’ha opzionato nella registrazione, la riconsegna del chip per chi l’ha noleggiato e finalmente il ricongiungimento con i parenti, familiari o amici per chi ne ha a seguito.
Terminerà così la vostra prima o ennesima esperienza da raccontare.
Doverosa nota di merito conclusiva alle imponenti misure di sicurezza che permettono il corretto svolgimento della manifestazione senza però soffocare l’ambiente.
Dio perdona, la maratona no

Ultimamente sempre più persone si stanno avvicinando alla corsa.
Il perché è facile da dirsi: è un gesto primordiale, apporta numerosi benefici al nostro metabolismo, stimola la mente, è pratico ed economico rispetto ad altri sport, professionisti ed amatori gareggiano contemporaneamente.
In passato questa disciplina era abbastanza snobbata dal marketing che di suo si limitava ad offrire agli atleti una canotta di cotone, un pantaloncino ed un paio di scarpe da ginnastica standard mentre oggi giorno assistiamo ad un vero e proprio boom commerciale legato al running. Il primo passo, come sempre, l’avevano fatto gli americani promuovendo la sfera benessere sotto forma di jogging. La fatica richiesta per questo tipo di attività era ed è abbastanza blanda rispetto al running e tale da non spingere utenze ed aziende alla ricerca di prodotti particolarmente performanti.
Partecipare a gare vere e proprie a fianco di atleti professionisti, implica sicuramente uno stimolo maggiore sia per i podisti amatoriali che per le case produttrici di articoli sportivi che infatti stanno cavalcando l’onda alla grande, sfornando un prodotto avveniristico dietro l’altro e rendendo la corsa, come detto, uno sport sempre più praticato.
Fatto sta che se qualche anno fa correre una maratona era vista come un’impresa biblica riservata a pochi eletti anche a causa della marginalità tecnica offerta, oggi siamo vicini al passo successivo, dove la vera sfida pare essere diventata l’Ultramaratona con la 42K declassata a gara di velocità anziché endurance. Per chi non lo sapesse, una qualsiasi maratona dista sempre la stessa distanza, ossia 42,195 Km, con il superamento di questa si definisce Ultramaratona che invece parte generalmente dai 50K, per arrivare ai 100 ed oltre.
Personalmente credo che la moda della corsa stia creando un po’ di fraintendimenti. L’idea che un’amatoriale, addirittura un dilettante, possa correre assieme ai professionisti è sicuramente affascinante, ma da lì a sentire che i primi citati ritengano la maratona un obiettivo troppo comune che li induca poi a partecipare ad un’Ultra è abbastanza discutibile.
A mio avviso infatti non si possono ignorare i tempi di gara. Guardando parte della classifica della mia maratona di New York, ad esempio, ho notato che sono stato preceduto da sessantenni che, con tutto il mio infinito rispetto per loro che saranno stati vecchie glorie o persone particolarmente allenate, mi hanno fatto particolarmente incazzare. Chiaramente non per la loro performance, ma per la mia. Qualcuno penserà che l’importante è partecipare; dispiace ma non la penso così. Perché avere la possibilità di correre una maratona è impegnarsi a raggiungere i propri limiti e, quando questo non succede o non ci vai nemmeno vicino, ti girano. Non è una questione di podio o di medaglia, è una sfida personale. Di mezzo ci sono allenamenti sotto il sole e la pioggia, al caldo e al freddo, con il vento e con la neve, mattina, pomeriggio e sera. Non per arrivare primo, ma per arrivare al meglio delle proprie possibilità. Quando ciò non accade per diversi motivi, spesso per un infortunio ed una serie di allenamenti sbagliati o trascurati, ecco che si verificano casi e persone le quali si rifugiano in qualcosa di ancora più impegnativo. Per poter magari dire al sessantenne cazzuto che ti ha preceduto alla maratona, sì però io ho corso l’Ultra, tu no. Cazzata assoluta, perché anche aumentando il grado di difficoltà che riduce il numero di partecipanti si andrebbe incontro ad un’ulteriore insoddisfazione personale senza il raggiungimento di un risultato decoroso. Mi spiego meglio: se il primo classificato termina un’Ultramaratona di 100K in 7 ore arrivare con 11 ore di ritardo ha davvero un senso più logico che non si limiti al finisher stampato sulla t-shirt celebrativa? Massimo rispetto per tutti, ma qui ci si pone davanti ad una distinzione piuttosto netta tra atleti adeguatamente preparati e martiri semi incoscienti alla ricerca di sé stessi. Lo stesso vale anche nelle maratone: ha senso finirne una in 8 ore camminando per la maggior parte della gara? Naturalmente mi riferisco a persone potenzialmente in grado di sostenere un carico di lavoro che possa poi permetterti di completare le competizioni correndo al massimo delle proprie possibilità (o quasi) dall’inizio alla fine.
Non esistono scorciatoie per raggiungere i propri obiettivi. Le gambe vanno istruite a macinare chilometri, giorno dopo giorno, il cuore deve rafforzarsi e pompare il sangue necessario, lo stomaco va alimentato in modo corretto, la testa deve sostenere con pensieri positivi tutte le operazioni precedenti. Ogni allenamento saltato a causa di piccoli o grandi infortuni, svogliatezza o pigrizia, è una simbolica manciata di sassi che mettiamo nelle nostre tasche e che il giorno della gara sentiremo zavorrarci chilometro dopo chilometro fino allo sfinimento. Più alziamo l’asticella e più aumenta il grado di difficoltà in fase di preparazione. Non ci sono vie d’uscita. Lavoro, lavoro, lavoro.
Questo discorso sì che realmente accomuna tutti senza discriminante: dai professionisti agli amatori, dai più giovani ai più anziani, dalle donne agli uomini: per raggiungere il proprio massimo bisogna abituarsi a dare sempre il massimo.
Perché Dio perdona, la maratona no.
Nella corsa gli ultimi non sono certo meno degni dei primi. Anzi, per certi aspetti lo sono anche di più. Arrivano fino in fondo correndo molte ore in più di quelli che sono in testa. Arrivano fino in fondo anche se sanno fin dall’inizio che non avranno mai una medaglia al collo
Marco Olmo
La Maratona di New York (vista da dentro)

Anche la melodia della sveglia pare diversa questa mattina.
Le luci esagerate a Time Square non hanno lasciato spazio al buio della notte così come incessanti suonano tra le mie orecchie le sirene dei mezzi di soccorso che transitano tra le vie di New York.
Sulla sedia della scrivania davanti al mio letto ho disposto tutti gli indumenti che dovrò indossare. Un gesto che non si limita alla praticità; è un rito spirituale che serve a riordinare le idee e che i maratoneti conoscono bene. Sistemare con cura pantaloncini, calze, integratori… Spillare il numero sulla canotta e poi osservarlo pensieroso per qualche minuto.
Mi lavo i denti guardandomi allo specchio e stamattina quel banale gesto assume una forma di solennità.
Finiti i preparativi esco dalla camera dell’albergo.
Già la colazione svela un’infinità di differenze tra coloro che prenderanno il via alla 60ma edizione della New York City Marathon.
Non riesco a fare a meno di sbirciare nei piatti delle persone. Siamo quello che mangiamo, diceva qualcuno; nello specifico penso che mangiamo come corriamo.
Fuori la temperatura è fresca, ma non gelida. Non si intravedono nuvole e si prospetta una bella giornata a differenza dell’anno precedente.
L’organizzazione ha già cominciato a sistemare le transenne sotto gli occhi vigili della polizia. Le sirene delle volanti ruotano ad intermittenza illuminando con fasci luminosi blu la base dei grattacieli. Grossi automezzi azionano ad ogni manovra acuti segnali acustici ritmando il frenetico ed ordinato lavoro dei volontari ed operai dai caschi gialli e giubbini catarifrangenti.
Mi sento un puntino perso nell’Universo nell’assistere a ciò che sta avvenendo. Sembra così fantastico prenderne parte.
I bus giungono al molo e le persone infreddolite attendono di salire sul traghetto.
Manhattan indossa ancora il suo bellissimo abito da sera mentre scorre tra le finestre dell’imbarcazione che ci sta accompagnando alla partenza. Non ho con me nulla per poter immortalare ciò che vedo. In un primo momento ho qualche rammarico, ma prevale l’intimità del momento. Sarà il mio cuore, supportato dalla mia memoria, a ricordare ciò che sto vivendo. Ormai non c’è dubbio che la giornata è una parentesi meteorologicamente perfetta e l’alba che si riflette tra le acque del fiume Hudson, che stiamo navigando, lo sigilla. Anche la Statua della Libertà si concede fiera e vanitosa ai nostri sguardi.
Non manca molto per arrivare a Staten Island. C’è del tempo per parlare di esperienze personali, materiali tecnici, integratori. È un modo per conoscere nuove persone ed ingannare l’emozione. Tra non molto sarò parte del colorato movimento che scandisce l’avvio della manifestazione al quale fino a pochi anni fa non davo alcun significato.
Il villaggio pre-gara accoglie i partecipanti in modo estremamente ordinato. L’ennesimo controllo di sicurezza e poi l’attesa. Bevo un tè caldo, indosso il regalo di uno sponsor preso in uno stand, ossia una cuffia colorata prevista per avvolgere il pensatoio capelluto dalle disattese rigide temperature, approfondisco qualche conoscenza. Comincio a pianificare la gara con un vero atleta, Maurizio De Angelis, che mi propone di correre in coppia. Ma lui merita un capitolo a parte.
C’è gente in ogni dove; un agglomerato di ogni genetica possibile immaginabile e quasi mi stordisce osservare tutta la varietà di persone e comportamenti.
Il tempo scorre e si avvicina il momento fatidico per cui le migliaia di persone presenti si sono preparate da mesi, forse anni. Mentre mi spoglio dall’economica tuta presa per l’occasione dedico un pensiero a chi non ha potuto esserci per svariati e sfortunati motivi. Sono centinaia le persone iscritte che rinunceranno alla maratona ed a loro auguro di far parte ad una delle prossime edizioni.
Il tonfo sordo della prima cannonata oltre a sancire la partenza dei primi atleti preoccupa un po’ tutti gli altri. Gli elicotteri sorvegliano la zona e lo spiegamento di forze di sicurezza è imponente.
Le onde colorate si susseguono velocemente fino al momento in cui è chiamata in causa quella verde di cui faccio parte.
In un attimo mi trovo a correre sul ponte di Verrazzano con una vista su Manhattan che toglie il fiato. Sono attimi che racchiudono un turbinio di emozioni e di energia che nessuno si preoccupa di nascondere. Per la gioia del momento qualcuno ride, qualcun altro urla, c’è chi piange. Poi il silenzio cadenzato dal pulsante suono di migliaia di scarpe ed altrettanti cuori.
Ho studiato abbastanza bene il percorso che sto affrontando per la prima volta e non voglio forzare già alla prima salita. Ho scelto una strategia conservativa.
Nel frattempo il mio cronometro perde il segnale gps e mi riporta valori di passo completamente sballati.
Non è la prima maratona a cui partecipo e vedermi superato dopo poche centinaia di metri da un signore che corre con i mocassini ed un peruviano in costume Inca con tanto di piume in testa non dovrebbe preoccuparmi. Comincio invece a pensare che sto esagerando con il risparmio energetico. Non c’è pubblico fino al terzo chilometro. I lati delle strade di Brooklyn già strabordano spettatori che esibiscono cartelli e tifano come fossero tutti nostri parenti. Grazie alle loro animazioni la lunga e noiosa strada che porta al 13K in prossimità del Brooklyn Academy of Music è scorrevole e divertente. Ci sono gruppi musicali e persone festanti. Scelgo di aumentare un po’ il ritmo ma mi ritrovo nuovamente davanti ad una salita. La strada in questo caso si restringe e la folla è ancora più presente. Cancello dalla mente le strategie distratto dagli incoraggiamenti di centinaia di bambini e dall’onda viola e chiassosa di un magnifico coro gospel organizzato sul marciapiede davanti ad una chiesa. A rendere l’atmosfera silenziosa ci pensa il Quartiere ebraico di Williamsburg dove la partecipazione all’evento è inesistente. Riposo le orecchie. La mezza maratona è fissata nel Queens dove pochi chilometri dopo è presente il famigerato Queensboro Bridge, rinomato per il vento che soffia gelido di traverso sui maratoneti. Una volta attraversato sarò di nuovo a Manhattan. La giornata è talmente bella che veniamo graziati dal meteo così che il ponte non presenta nessun pegno da pagare. Evento unico in 60 anni di Maratona di New York, giurano i partecipanti più esperti. Siamo intorno al 25K e mi rammarica vedere un ragazzo fermarsi per un problema al polpaccio. Non faccio in tempo a pensarci che mi ritrovo a percorrere la curva alla fine del ponte animato da un foltissimo pubblico che festeggia il nostro ingresso a Manhattan come fossimo i primi del gruppo, transitato almeno un’ora prima. La stanchezza e la botta di energia che mi arrivano dritti in faccia quasi mi commuovono.
Gli interminabili sali scendi dell’infinita 1st ave sono la rampa di lancio per cercare di abbassare il mio tempo che è molto al di sopra delle mie possibilità. Sinceramente non sto correndo per fare il mio personal best o per dimostrare niente a nessuno ma voglio dare un senso agli allenamenti svolti durante tutta l’estate. Comincio a sentire bruciore all’interno coscia di entrambe le gambe a causa di un ripetuto sfregamento dei pantaloncini. Per fortuna ai lati delle strade ci sono i volontari che oltre a liquidi ed alimenti distribuiscono anche vaselina spalmata su stecchi simil ghiacciolo. In teoria servirebbero ad evitare l’abrasione ai capezzoli che è una delle cose più dolorose che possono capitare quando corri. Non è facile riuscire a prendere un bastoncino in corsa e cercare di convincerli che sei consapevole di quello che stai facendo. In molti, infatti, scambiano la vaselina per cibo commestibile e se la mangiano. Di conseguenza i ragazzi sono esageratamente premurosi e prevenuti nel concedertene uno. La spalmo e dopo un immediato bruciore mi sento sollevato.
Entro ad Harlem.
Una carica emozionale fortissima mi dà un ulteriore spinta per aumentare il ritmo. Stavolta mi metto a correre seriamente senza dedicare tempo a dare il cinque ai bambini ai bordi delle strade o concentrarmi sulle meraviglie che mi circondano. Mancano circa 10K per entrare a Central Park e mettere fine alla gara più suggestiva che ho corso fino ad ora. È bello accelerare il passo alla fine perché c’è la cosiddetta raccolta dei cadaveri. Quelli che hanno dato tutto nella prima parte di gara e che ora sono in panne. Ne supero davvero tanti ma per recuperare il tempo perso nei primi 30K dovrei viaggiare alla velocità di Kipchoge. Vengo colto dai crampi quasi all’altezza del punto dove l’anno precedente mi ero posizionato per fare foto agli atleti. Impreco, rallento, dialogo con i muscoli, penso alla fortuna che ho questa volta ad essere dalla parte giusta della transenna e mi riprendo in fretta. L’ingresso a Central Park è spettacolare e l’incitamento che non è mai mancato per quasi 35K è commovente. Trovo le ultime motivazioni nella sfida con un altro italiano. Entrambi ne traiamo beneficio tagliando il traguardo con dignità.
C’è qualcosa nell’aria di New York che rende il sonno inutile.
(Simone de Beauvoir)
Un sincero ringraziamento ad Antonio ed Annalisa di Terramia che mi hanno concesso questa fantastica opportunità.
La Mezza Maratona di Rodi

E’ domenica mentre scrivo questo post e sono passati 7 giorni esatti dalla gara; ma oggi a differenza della settimana trascorsa piove e c’è un temporale mattutino.
Quel 29 aprile 2018 alle 6:45, quando già ero praticamente arrivato nella zona adibita a partenza, il sole aveva fatto la sua prima comparsa in maniera piuttosto decisa e spavalda. L’alba rossastra che in veste di fotografo mi avrebbe regalato molte soddisfazioni, in quella di maratoneta mi stava preoccupando e non poco.
La partenza della mezza maratona, cui avrei partecipato e della maratona, cui avrei curiosato, era stabilita alle 7:30.
Conoscendo molto bene l’isola avevo percepito che sarebbe stata una gara che avremmo corso con un ospite invadente e fiaccante: il sole. Così è stato.
Personalmente ho spinto al massimo all’inizio cercando di emulare i tempi del mio personal best e cercando di accumulare un margine decente per poi affrontare da lì a poco le temperature proibitive della competizione che inevitabilmente mi avrebbero rallentato un bel pò. Tattica completamente sbagliata perché al 15K arrancavo pesantemente con la testa che mi chiedeva di sdraiarmi all’ombra di un albero a sorseggiare una fresca limonata anziché proseguire spremendo la viscida, appiccicosa ed indigesta bustina di gel energetico. L’ultimo barlume di dignità, visto il tempo degno di un over 70, è stato quello di decidere di portare a termine l’impegno, con il morale chiuso per momentanea demolizione.
Ad ogni metro mancante ho pesantemente maledetto l’organizzazione ed i greci tutti, rei a mio avviso, d’averci fatto correre in quelle condizioni estreme. Pensare che ho sempre sognato una partenza almeno tiepida; in tutte le gare officiali finora corse ho sempre battuto i denti dal freddo prima del via. In Vietnam pure all’arrivo.
Ovviamente negli altri casi la pistola non ha mai esploso il suo colpo a salve dopo le 7:00 che io ricordi.
Fatto sta che se la distanza della mezza maratona è diciamo facilmente concludibile e sostenibile, lo stesso non si può dire della maratona. Lasciando stare i tempi assolutamente irrilevanti di praticamente tutti i partecipanti, almeno sulla carta, ho davvero ammirato gli impavidi che hanno terminato la 42K. Chi addirittura ha “corso” oltre le 6 ore sotto un sadico sole estivo stra-selettivo. Personalmente non l’avrei finita.
Ulteriore difficoltà il fatto che il percorso presenta dislivelli piuttosto impegnativi da affrontare fisicamente ed oltretutto essendo circuito, a mio avviso, vieni devastato mentalmente. Quando giunto a pochi metri dal mio traguardo ho svoltato a destra seguendo l’indicazione mezza maratona ed ho visto chi mi precedeva proseguire nella corsia parallela pronto a rifarsi un altro giro ho letteralmente pensato “poraccio”.
L’idea di dover ricalcare i passi fatti e ripetere l’esperienza poc’anzi vissuta deve essere davvero sconvolgente.
Dulcis in fundo aggiungiamo pure la scarsa partecipazione di pubblico. Quasi completamente assente per tutto il tragitto e colorata dalle magliette blu dei meravigliosi ragazzi volontari all’arrivo e che hanno prestato assistenza anche nei punti di ristoro. Correre senza spinta, come a me già successo alla Halong Bay Marathon in Vietnam, oltre ad essere triste è un buon pretesto per pregiudicare gara e risultato.
Certo, Rodi non è New York, ci mancherebbe. Anche la scarsa qualità ed assenza di design della medaglia ce lo ricorderà per sempre.
Suggerivo tempo fa di trascorrere qualche giorno delle proprie ferie a Rodi (Grecia) e di approfittarne per partecipare alle gare di varia distanza che si svolgono qui ad aprile. La partecipazione di molti stranieri, per lo più turisti inglesi, ha confermato che non mi sbagliavo più di tanto, anche se con un po’ di esperienza accumulata, il consiglio si riduce a chi non ripone troppe aspettative nella manifestazione locale per la serie di fattori sopra indicati. Il vincitore della maratona, ad esempio, non ne aveva mai corso una in precedenza e dubito che se avesse partecipato a quelle di Londra o Berlino, per dire, sarebbe salito sul podio. Forse sarebbe arrivato tra i primi 100. Ma i se ed i ma sono il paradiso dei coglioni, come si dice. Il senso è che chi è alla ricerca di vere soddisfazioni si confronta con i migliori, chi invece di trofei da appoggiare sopra il caminetto si accontenta di gare meno pretenziose. Morale della favola bravissimo lui e chi lo ha preceduto perché, ripeto, solo finire la 42K di Rodi in quelle condizioni è veramente da medaglia d’oro.
Meritano una doverosa citazione anche i partecipanti della 10K e 5K che, udite udite, sono partiti alle 12:30. Orario in cui pure i gatti dormono abbracciati ai topi. Come far odiare la corsa ai principianti.
Dopo le tante 10K e questa mezza, riuscirà l’organizzazione ellenica ad appiccicare un altro bib sulla mia bella canotta? Al momento mi han fatto passare la voglia di partecipare alle competizioni paesane e limitarmi a quelle meglio organizzate. Staremo a vedere.
Se ce la metto tutta, non posso perdere. Forse non vincerò una medaglia d’oro, ma sicuramente vinco la mia battaglia personale. È tutto qui.
NYC Marathon: gioie o dolori?

Se il tuo sogno è partecipare alla Maratona di New York, o ad un’altra qualsiasi maratona, ma sei giovanissimo ed alle prime armi, continua a leggere. (Puoi leggere lo stesso anche se non lo sei…)
Nel novembre 2017 ho avuto la fortuna di collaborare con un t.o. specializzato in eventi podistici tra cui l’ambita Maratona di New York. Lavorando nel settore turistico ed essendo io stesso un maratoneta (seppur amatoriale) ho decisamente vissuto questa esperienza in modo entusiasmante, vuoi per l’eccezionale impatto che offre ai visitatori New York, vuoi per esser parte dell’organizzazione della maratona mediaticamente più importante al mondo, vuoi per aver condiviso bellissimi momenti con colleghi estremamente preparati e disponibili, vuoi per il contatto con diverse personalità dello sport come il vincitore della NYC Marathon 1984 e 1985 Orlando Pizzolato o di quelli dello spettacolo come Linus o Aldo Rock, per citarne alcuni. Aggiungo doverosamente anche e soprattutto il contatto con i tanti clienti e le loro storie, persone con le quali condivido la stessa passione.
Se personalmente ho avuto la magnifica occasione di partecipare da addetto ai lavori, c’è chi sogna questo evento ed è naturalmente disposto a pagare anche cifre importanti pur di realizzarlo. Soldi ben spesi, a mio avviso.
Dopo questi preamboli che enfatizzano la gara dell’anno, chiamiamola pure così, vorrei soffermarmi invece su un episodio che mi ha particolarmente colpito. Mentre attendevo il bus shuttle che dal Le Parker Meridien, hotel di lusso sulla 56th, avrebbe portato i nostri ospiti in aeroporto, vedo uscire dall’albergo una coppia di ragazzi giovanissimi. Lui normo deambulante, lei distrutta. In un primo momento rimango un po’ spiazzato perché è abbastanza raro, ma niente di anormale intendiamoci, che il ragazzo sia spettatore della propria fidanzata podista; di solito è la donna che accompagna. Considerazione statistica e non sessista. Fatto sta che riconosco quella camminata post maratona finita al limite, che significa avere la stessa elasticità di un trampoliere o di sentire due paletti di cemento al posto degli arti inferiori. A me era successo a Siviglia dove ho stampato il mio personal best (niente di eccezionale…) ma dove ho anche rischiato di non portarla a termine; e per la cronaca non ho camminato i tre giorni seguenti. Tornando a loro, come di consuetudine, intavolo un discorso per ingannare la breve attesa che ci separa dall’arrivo del pulmino e chiedo quindi cos’è successo.
Mi viene simpaticamente risposto che la ragazza voleva a tutti i costi realizzare il suo sogno di correre la Maratona di New York. Mi incuriosisco e dato che conosco le fatiche di una adeguata o perlomeno sufficiente preparazione necessaria a terminare una maratona, mi permetto quindi di addentrarmi un po’ di più nel personale della ragazzina che, come tutti i coetanei o almeno quelli con le faccine pulite come le loro, mi mettono sempre un po’ di tenerezza e nostalgia dei tempi andati. Vengo così a scoprire che la caparbia giovanissima ha compiuto un miracolo: ha corso una maratona allenandosi tre forse quattro volte a settimana con sedute da 10K alla volta e cioè con un chilometraggio totale settimanale di 30 – 40 K. Naturalmente mentre lo diceva ripeteva che non solo avrebbe mai più corso una maratona, ma non avrebbe mai più corso e basta! E vorrei vedere!
Allenarsi per così poco durante la settimana sarebbe a dire che, abituato a mangiare 1 hamburger al giorno per 3/4 volte a settimana d’un tratto hai 8 hamburger nel piatto da dover ingoiare anche abbastanza velocemente. Con ingredienti diversi dai quali sei abituato, per di più. (tradotto, percorso diverso) Chiaramente tutto si può fare ma con il rischio di non voler vedere mai più un hamburger in vita tua. Esempio un pò inadeguato ma, penso, abbastanza esaustivo.
A differenza della 10K o mezza maratona, che vanno adeguatamente preparate pure quelle, ma che malissimo che vada anche camminando si finiscono, terminare una maratona richiede un duro allenamento fisico e mentale. Una lunga preparazione suddivisa da sedute diversificate, quattro/cinque volte a settimana, che comprendono corse facili dai 14 ai 26K, ripetute, lunghi da 29 a 36K che prima di una gara devono essere almeno tre. I chilometri settimanali percorsi tra i 60 e gli 80, minimo.
E’ inutile allo scopo correre 6 volte alla settimana 10K per arrivare a 60K complessivi.
Non bisogna inoltre trascurare i tempi di recupero, perché altrimenti si rischia un sovraccarico che aumenterà lo stress fisico e mentale che aumenteranno il rischio infortunio. Intanto che si costruisce la giusta muscolatura per affrontare uno sforzo fisico molto impegnativo si deve tenere d’occhio l’alimentazione. Limitare al minimo alcool e pizze (meglio sarebbe eliminare del tutto) non ci trasforma in campioni ma aiuta sicuramente; oltre a decine di altre importanti accortezze che non sto ad elencare. Necessario sperimentare i materiali tecnici per evitare dolori ai piedi o arrossamenti ed insanguinamenti in varie parti del corpo nonché i vari integratori che ci daranno spinte fondamentali prima, durante e dopo il percorso. E’ importantissimo trovarsi pronti di testa: nei momenti di difficoltà, e ce ne sono, poter ripensare a tutti gli sforzi fatti per essere lì è essenziale e gratificante.
Qualcuno penserà che sto esagerando ma quello che scrivo riguarda noi amatoriali e principianti ed è all’acqua di rose; anche perché in tutto ciò non ho menzionato i tempi di allenamento o di gara.
E’ indispensabile procurarsi una tabella d’allenamento personalizzata da seguire.
Per i professionisti la musica cambia completamente. Nel loro universo i chilometri settimanali arrivano ad essere 200 e le sedute giornaliere sono doppie, mattina e pomeriggio, con l’aggiunta di esercizi alternativi in palestra, piscina o bicicletta. Ma qui entrerei in un mondo di cui non ho mai fatto e mai farò parte.
Morale della favola per appassionarsi di uno sport impegnativo come la corsa bisogna innanzi tutto essere consapevoli dei propri mezzi e dei propri limiti con l’obiettivo di poterli superare. La passione si coltiva con un duro lavoro e nel caso in cui diventi coinvolgente, visto che mi rivolgo in particolar modo ai giovanissimi, con l’aiuto di un professionista o l’iscrizione in qualche associazione sportiva dove poter essere seguiti da persone esperte, potrà sfociare in qualcosa di veramente serio e divertente. Senza mai trascurare le adeguate visite mediche specializzate che non eliminano del tutto i rischi ma sicuramente sono necessarie e rassicuranti.
Fatto questo prendere parte alla NYC Marathon sarà un sogno che vi donerà più gioie che dolori.
Con l’augurio di vedere sempre più ragazzi sorridenti, preparati ed orgogliosi d’aver partecipato ad una o più maratone.
La maratona è una sorta di credo permanente: basta aver corso volta soltanto per sentirsi maratoneti a vita. Un po’ come per la psicanalisi. Sì, la considero una forma di arte marziale, una disciplina interiore. Lo è intrinsecamente. Per gli allenamenti che richiede, per il modo in cui ti porta a percepire l’ambiente, per lo sforzo che esige dal tuo corpo. Il maratoneta è un samurai con le scarpette al posto della spada: è estremamente severo verso se stesso, non si perdona mai, è costantemente in lotta contro i propri limiti… Sbaglia chi pensa alla maratona come a una scelta sportiva, è una disciplina massimamente estetica. È proprio una visione del mondo: non sono solo quei quarantadue chilometri da correre nel minor tempo possibile, è l’idea di resistere, di andare oltre…
(Mauro Covacich)
Cap.2 Ti troverò a Manhattan

A questo punto, vista la vicinanza con Wall Street non mi rimase altro da fare che raggiungere la statua del toro che tra l’altro fu realizzata dall’artista connazionale naturalizzato Arturo Di Modica. Quella scultura servì a distrarmi per qualche momento.
Mi giocai ancora una carta prima di mollare tutto e chiesi informazioni a delle persone che attendevano il proprio turno prima di farsi fotografare assieme ai due soggetti di bronzo; l’enorme toro minaccioso e l’impavida piccola bambina dinanzi a lui in atteggiamento irremovibile. Non trovai nessuna risposta utile ovviamente, ma l’immagine della sfida impari rappresentata dalla statua riaccese in me la voglia di venire a capo di questa storia.
Ero andato a New York per trovare questo maledetto F.C. e l’avrei trovato. Non persi altro tempo a fare domande a persone evidentemente inadeguate e puntai dritto verso la West Street dove avrei trovato la sede del New York Post. Lì sicuramente qualcuno avrebbe potuto aiutarmi con informazioni più dettagliate. Così fu e non senza scomodare più di qualche persona riuscì ad incontrare un giornalista ormai prossimo alla pensione che non conosceva personalmente F.C. ma di cui si era occupato diversi anni prima per un furto che aveva subito nella casa in cui viveva a Manhattan nella Upper West Side sulla 77ma. In un primo momento mi stupì il fatto che un giornale così importante si occupò di un furto senza particolari eclatanti se non quello di una porta forzata con un grimaldello e oggetti di scarso valore sottratti al proprietario, ma la motivazione era che il ladruncolo inesperto pare ci sia arrivato violando il cortile esterno del Museo di Storia Naturale. Quella sicuramente era una notizia vendibile.
Mentre lo raccontava il giornalista prese un pesante raccoglitore da un vecchio armadio e lo aprì esibendomi la pagina con il ritaglio ben conservato dell’articolo a sua firma. Finalmente avevo conosciuto il viso dell’individuo che stavo cercando e la foto, questa volta, era inequivocabilmente la sua. Ringraziai e corsi letteralmente a prendere la metropolitana blu che mi avrebbe portato fino all’81ma, fermata Museum of Natural History.
Durante il tragitto mi lasciai trasportare dalla contentezza. Guardavo la fotocopia dell’articolo e pensavo che mi stavo avvicinando allo scrittore. Cosa gli avrei detto? Cosa avrei fatto una volta davanti a lui?
Arrivai a destinazione dopo qualche minuto di viaggio che i miei pensieri avevano reso decisamente più corto di quanto fosse nella realtà. Salì in fretta le scale della fermata della metropolitana e sbucai esattamente difronte al museo. Lasciai il verde Central Park alle spalle con la promessa di farci un giro il prima possibile e mi fiondai verso la casa dello scrittore. Mi aprì la porta una signora anziana molto gentile ed altrettanto sorda che in un primo momento non realizzò lo scopo della mia visita. Mi fece accomodare all’interno della modesta casa di due piani e venni quasi colto da un tremore quando attraversando lo scuro corridoio che odorava un misto tra lilium e muffa vidi una gigantografia in bianco e nero che ritraeva F.C. in compagnia delle tre figlie o nipoti che fossero. Una foto degli anni 80 in cui le ragazzine avranno avuto dalla più piccola cinque alla più grande dodici anni mentre lo scrittore almeno cinquanta. Con fatica, davanti ad una finestra che guardava uno scorcio di Central Park chiesi se fosse in salute e se abitava in quella casa. La risposta arrivò quando la signora mi porse delle zollette di zucchero da mettere nel tè che mi aveva precedentemente versato in vecchie tazze di ceramica bianche e rosa segnate da evidenti macchie che la bevanda filtrata aveva rilasciato negli anni. No, non abitava più lì.
Preso dallo sconforto mi sedetti sulle poltrone, anche quelle visibilmente macchiate, mentre la signora centellinava le informazioni intervallandole con spiegazioni riguardando i suoi fiori, la sua giovinezza passata nel Queens ed il suo vecchio amore perduto nella guerra di Corea. In tutto questo ancora non avevo capito cosa rappresentasse l’anziana signora nella vita di F.C. ma sicuramente non era la moglie. Forse una sorella, una cugina. Non m’interessava nulla di lei, obiettivamente, volevo solamente trovare una conclusione alla mia folle storia. La nostra conversazione, che in realtà era a senso unico ed alimentata solo dalla signora dai capelli bianchi e dalla vestaglia di lanetta, finalmente giunse al termine così da darmi la possibilità di avvicinarmi all’uscita di casa, ringraziare e scendere le scale. Ci sarei tornato il giorno seguente, magari avrei trovato qualcun altro più lucido dal quale ricevere le informazioni cui andavo cercando. Quando la porta stava ormai per chiudersi alle mie spalle venni fermato dal deciso richiamo della signora che mi volle salutare con un abbraccio e con un bacio sulla guancia. Mi ritrovai nelle mani anche dei cioccolatini dall’aspetto storico. Chissà, magari il museo adiacente aveva inglobato la casa ed il suo contenuto.
Lexington Avenue. Tra la 57ma e la 58ma. Era lì che avrei trovato lo scrittore.
Me lo disse come se per tutti i minuti precedenti si fosse presa gioco di me. Mi diede l’informazione più importante di tutto l’oro del mondo una volta terminato il nostro imbarazzane ma affettuoso abbraccio e poco prima di sparire dietro al portoncino verde.
Aspettai il giorno dopo per raggiungere l’abitazione di F.C. e non lo feci nemmeno subito. Prima mi concessi un giro al Central Park dove mi fermai a sfogliare qualche pagina del suo libro che ormai avevo quasi completamente usurato. Ero sereno. Feci una passeggiata lungo la 5th Avenue ad osservare tutta la ricchezza ed opulenza esistente in quella via per poi ricercare nuovamente il silenzio all’interno della Saint Patrick Cathedral che però non mi fu concesso a causa di una celebrazione. Altri passi lungo la 5th Ave. mi portarono a visitare la Biblioteca prima e la bellissima Grand Central Station poi.
Avevo passato la mattinata a gironzolare a piedi per Manhattan immaginando la quotidianità dello scrittore che aveva alimentato la mia fantasia e di chissà quanti bambini in mondi e circostanze completamente diversi dal suo. Era ovvio che un bambino cresciuto in un contesto campestre, dove la luce fioca dei lampioni è appannata dalle lunghe foschie invernali, venisse attratto da luoghi incredibili ed inavvicinabili. Solo ora realizzavo che furono concepiti in contesti esistenti.
Nel primo pomeriggio mi ritrovai davanti ad un’altra porta. Davanti a me questa volta non comparve un’anziana signora con l’alzheimer bensì una bellissima e giovane ragazza dagli occhi grandi e luminosi ed i capelli corti che risaltavano le caratteristiche del viso che in quel istante era piacevolmente sorridente. Dopo una mia breve presentazione mi fece accomodare in un gigante e lussuoso appartamento circondato da grandi vetrate e la pavimentazione in marmo e parquet di legno chiaro.
La signorina indossava una maglietta di cashmere marrone a maniche corte ed un paio di pantaloni beige che mettevano in risalto la sua aggraziata femminilità. Scomparve per qualche istante lasciandomi solo nel salone che nell’attesa cominciai a scrutare. C’erano mobili laccati prestigiosi ed essenziali e nessun oggetto riposto sopra di essi, eccezion fatta per una statuetta proveniente da chissà dove; un caminetto moderno protetto da una lucida lastra di vetro, pochissime foto contenute in cornici molto sobrie. Due quadri d’arte moderna di dimensioni considerevoli. Si respirava profumo di pulito.
Presto la ragazza ricomparve con un bicchiere riempito d’acqua e con sottobraccio un signore di almeno novant’anni. Camminavano lenti verso di me; lei attenta a non far fuoriuscire il liquido dal bicchiere, lui prestando attenzione ai suoi passi. Eccolo! Era F.C. lo scrittore che mi aveva spinto a fare l’unica vera grande pazzia della mia vita. Aveva il viso scavato ma oltre agli inevitabili segni dell’età sembrava sano e curato. La sua testa aveva perso le rotondità della giovinezza ma aveva mantenuto una chioma di capelli bianca e ben pettinata.
Era vestito con dei larghi pantaloni grigi stretti da una cintura nera ed una maglietta bordeaux. La sua figura trasmetteva spensieratezza mentre curva guardava perlopiù il pavimento. La vista l’aveva abbandonato quasi del tutto. Lasciai parlare la ragazza che era sua nipote, la più piccola delle tre. Lui non ebbe mai figli e fu accolto a casa della sorella, madre della ragazza con cui stavo conversando. Mi spiegò amabilmente che la signora che avevo incontrato nella Upper West Side era la domestica che aveva seguito per lunghissimi anni le faccende di casa dove abitava il signor F.C., finché arrivò il giorno in cui uno non era capace di badare all’altra e viceversa. Decisero di lasciarla vivere nel luogo in cui aveva passato gran parte della sua vita in segno di gratitudine.
I soldi non mancavano di certo in famiglia e nulla cambiava con una proprietà momentaneamente disponibile in meno. Durante la conversazione lo zio pareva completamente assente salvo poi intervenire di tanto in tanto con frasi che si riferivano a personaggi del suo passato o eventi racchiusi nella sua memoria o fantasia. In realtà F.C. non riuscì a mantenersi con i ricavi dei suoi libri e non raggiunse la fama. Anzi, mi disse la nipote mantenendo una accomodante gentilezza, suo zio non si riteneva nemmeno uno scrittore. Mentre mi passava alcune foto in bianco e nero ritraenti lo studio in cui F.C. scrisse i libri, mi spiegò di quanti lavori dovette cambiare prima di trovare un po’ di serenità. Era un’artista e dalle foto si capiva il carattere eccentrico di quel uomo. Sopra alla sua scrivania, collocata in una posizione apparentemente senza senso in mezzo al grande studio, erano presenti due Nikon F meccaniche ed una macchina da scrivere Olivetti lettera 32; al centro della stanza un treppiede di legno con uno straccio penzolante ed una tela dipinta a metà; colori a tempera, pennelli di varie misure e barattoli di vernice un po’ ovunque, grandi fogli arrotolati, casse in legno contenenti chissà cosa. Una radio con lo sportellino del mangiacassette aperto. Sorridemmo assieme nel commentare tutta quella confusione e creatività.
Mi sarei fermato ancora per ore ed ore a parlare con quella meravigliosa fanciulla ma si era fatto tardi ed avevo raggiunto il mio obiettivo. In fin dei conti andare alla ricerca dello scrittore era stata una scusa per rivivere la mia infanzia, per immergermi nuovamente in un mondo di avventure che non mi apparteneva più da troppo tempo. In fondo la mia nuova vita doveva ricominciare con un simbolico tributo alla persona che mi aveva regalato così tante e, fino ad allora uniche, emozioni.
Salutai la ragazza ed il vecchio scrittore. Lui, incentivato dalla nipote, contraccambiò con involontaria allegria. Poi andandomene presi dal mio borsone il libro Alice in Manhattan e riguardai soddisfatto e commosso la dedica scritta qualche istante pima dell’addio dalla mano tremante del suo autore:
Solo coloro che possono vedere l’invisibile, possono compiere l’impossibile!*
*Patrick Snow