Atlanta: la resa dei conti

Atlanta è una città visibilmente stanca, avvolta da un opacizzato smalto fine anni 90.
L’affascinante strascico delle Olimpiadi del 1996 è presente quasi ovunque, in particolare a South Downtown nel Centennial Olympic Park. I ragazzini si arrampicano sui cinque cerchi colorati eretti all’ingresso del parco. Nella vasta area verde sorge anche il museo del simbolo commerciale americano più invasivo e potente al mondo, la Coca Cola. La bevanda creata dal farmacista John Stith Pemberton nel 1886 è l’esempio lampante di come la sete di consumismo stia pericolosamente guidando il mondo verso il baratro. Il marketing della bevanda color marrone è vincente perché maledettamente semplice: il prodotto è alla portata di tutti e piace a tutti, dal Presidente degli USA al senza tetto. Ognuno di noi può avere un dollaro in tasca per acquistarla, moltiplicato per i 7 miliardi di abitanti che popolano il mondo i conti sono presto fatti.
Atlanta è la capitale dello Stato della Georgia che nel 1929 vide nascere il Reverendo Protestante ed attivista politico pacifista Martin Luther King al quale fu assegnato nel 1964 il Nobel per la Pace. Nella città è stato costruito il Martin Luther King Jr. National Historic Site in sua memoria ed anche una via principale porta il suo nome. Il Reverendo King cominciò il suo cammino di lotta pacifica contro l’ingiustizia civile in una piccola chiesa a Montgomery, cittadina dell’Alabama non troppo distante da Atlanta e resasi nota per episodi di impegno civile quali il boicottaggio dei mezzi pubblici in seguito al rifiuto della coraggiosa Rosa Parks di rinunciare al suo posto sul bus riservato ai bianchi ed il Bloody Sunday, la celebre marcia da Selma a Montgomery. Nella cittadina sorgono il National Memorial for Peace and Justice ed il Civil Rights Memorial luoghi dove sono conservate le memorie del lungo periodo in cui la parte di popolazione più forte ha approfittato dei più deboli con reiterate e consapevoli ingiustizie e soprusi. Fatti di cronaca che ancora oggi penalizzano la libertà e giustizia di alcune etnie.
Sarebbe impossibile riassumere in poche righe ciò che centinaia di pubblicazioni autonome stanno cercando di far emergere senza essere disinnescate dai tentacoli della censura occidentale, ma la situazione che si è creata è evidente a tutti. Tutto ha inizio con il colonialismo spagnolo, portoghese, quello inglese e le conquiste di nuovi territori perpetrati da ciechi soldati di Dio, presuntuosi della loro evoluzione in ambito di medicina e scienza, spesso trainata da esigenze belliche. L’imprinting del conquistadores è ancora oggi caratteristica europea, la stessa che ha di fatto sterminato l’intero popolo di nativi americani che oltre ad essere stati usurpati di terre e diritti sono stati umiliati per anni dalla rivisitazione storica hollywoodiana specialista in indottrinamento delle masse occidentali.
In tutti i film, poche le eccezioni, tutti i nemici di zio Sam sono dipinti come spietati e crudeli assassini, malvagi terroristi privi di scrupolo ed immorali, contrapposti all’esercito dei buoni e comprensivi americani intenti a distribuire cioccolate e chewing gum alle mani tese delle popolazioni liberate. Siano questi soldati, cowboy, pugili o combattenti di qualsiasi tipo sono caratterizzati da un’infinita umanità, solidarietà, calma e sicurezza anche quando scaricano interi caricatori addosso al truce nemico.
Quanti telefilm polizieschi indottrinano intere generazioni che un uso lecito delle armi porta benefici alla comunità? I videogame sparatutto non hanno la stessa funzione? Chi non è dalla nostra parte va eliminato per il bene comune. Le campagne mediatiche di questo tipo sono una prassi che utilizza sistematicamente anche Israele per dimostrare al mondo di essere nella parte del giusto mentre giornalmente compie atroci ed efferati delitti contro la Palestina che sta, passo dopo passo, sgretolandosi con il tacito consenso del mondo occidentale. Ma perché l’ingiustizia trionfa senza che nessun Paese così detto democratico di fatto prenda una ferma e decisa posizione in tal senso? Perché a muovere i fili delle marionette del teatrino del mondo ideale ci sono gli interessi economici.
Il razzismo fondamentalmente riguarda i poveri. Il terrore dei privilegiati che i ruoli si possano invertire. Nel 1865 a seguito della guerra civile venne emanato il XIII emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che decretò la fine della schiavitù. Questo fatto comporterà paradossalmente un ulteriore disagio sociale enorme in particolar modo per quelli che oggi chiamiamo afroamericani. Essendo stati prelevati forzosamente dalle loro terre native, una volta terminata la condizione di schiavitù almeno dal punto di vista legislativo, si trovarono abbandonati a loro stessi senza poter contare su nessun sostegno economico. Questo è stato il vero disastro.
In Europa stiamo pagando scelte di alcune centinaia di anni fa quando l’osannato statista inglese Sir Winston Churchill si ricoprì di fama e gloria grazie alle strategie vincenti che consentirono gli alleati di sconfiggere i temuti nazisti cui scopo finale era lo stesso di chiunque scateni o partecipi ad una guerra: annientare l’avversario possibilmente cancellandolo dalla faccia della terra. L’hanno fatto gli americani con i coreani o gasando i vietnamiti, sganciando bombe atomiche in Giappone; tutt’oggi lo fanno gli israeliani bombardando i civili palestinesi o con escursioni belliche in Siria dove colpiscono ospedali e scuole. Per non parlare di ciò che avviene in Afghanistan, Iraq, Yemen e via dicendo. Churchill tracciò con righello e matita i confini del Medioriente separando pacifiche tribù di beduini. Lo fece senza interpellare nessuno durante un caldo pomeriggio, dopo aver pranzato e bevuto abbondantemente come suo solito.
Eppure sui libri ufficiali è quasi impossibile leggere versioni realistiche di quanto avvenuto.
Chi vince scrive la storia.
Poi c’è lo stato di polizia che serve a mantenere chiaro il concetto che al povero non è consentito partecipare alla spartizione del bottino. Per mantenere vivo il decadente equilibrio del capitalismo c’è necessità che una piccola parte di mondo goda del prodotto, gli altri devono lavorare duramente per produrla. L’abolizione della schiavitù non comporta l’acquisizione dei diritti fondamentali. Nativi americani, afroamericani, asioamericani ed ispanici sudamericani, hanno continuato ad essere discriminati perché poveri. Negli anni c’è stata un’evoluzione economica e tra questi molti sono emersi. Anche in questo caso sono stati i mass media occidentali a sdoganare l’immagine del poveraccio che cavalca il sogno americano sostenendo che è merito della democrazia liberista delle pari opportunità se qualcuno di loro è diventato ricco e famoso. Sappiamo che non è così. L’etnia bianca si tramanda il senso di superiorità verso le etnie di origini povere o dissociate al capitalismo che si traduce in sguardi languidi e comprensivi che in realtà sono un sommario lavaggio di coscienza.
Per sancire dei diritti fondamentali si è dovuta scatenare una guerra civile che evidentemente non è bastata. Non sono bastate le manifestazioni pacifiche di Martin Luther King né tantomeno quelle violente delle Pantere Nere o Malcom X. Non sono bastati i disperati gesti simbolici durante le manifestazioni sportive. Non bastano i movimenti artistici. Non bastano i morti che ci sono stati e ci saranno.
Il capitalismo è una guerra giornaliera in cui tutti siamo illusi di correre sulla stessa pista ma la cui distanza è variabile per ognuno e ad alcuni non è manco consentito di partire.
Una cosa è certa: non si può più procrastinare la propria presa di posizione. L’attendismo di comodo si sta crepando sotto i colpi di una parte di società che non è più disposta ad alimentare il mondo dei potenti in cambio di infelicità. Se fortunatamente ci si trova tra i pochi che usufruiscono di privilegi sarà il caso di agire in modo tale da ripensare le regole ed inglobare nel progetto l’intera popolazione mondiale raggiungendo traguardi di uguaglianza e sostenibilità. Altrimenti si dichiari apertamente la volontà di salvaguardare il sistema attuale, dove l’uso della forza fisica e psicologica perpetrata dai potenti consenta di mantenere la supremazia a danno dei soliti poveri.
Consapevoli di questo prepariamoci alla resa dei conti.
Il capitalismo corre sempre il rischio di ispirare gli uomini ad essere più interessati a guadagnarsi da vivere che a vivere
(Martin Luther King)
Giordania. Lawrence si arrabbia.

Il vento, le bufere di sabbia, uomini intrepidi che attraversano il deserto del Wadi Rum a costo delle loro vite. Nonostante le scomodità ed i pericoli trovano il tempo per contemplare la grandezza della natura, la bellezza che si presenta davanti ai loro occhi di giorno e di notte. Tra gli ammiratori di questo mondo c’è un soldato inglese diventato leggenda: Thomas Edward Lawrence, per i più conosciuto come Lawrence d’Arabia. Cavalca un dromedario, si spoglia delle sue vesti di ufficiale dell’esercito inglese per indossare una galabeya e combattere a fianco delle etnie beduine. Saranno le promesse di ricchezze ed autonomia a convincere questi ultimi ad intraprendere epiche battaglie al suo fianco. Sarà lo spirito libero di Lawrence a farlo innamorare di popoli dalle tradizioni così distanti e basiche rispetto al protocollo di Sua Maestà. Non sarà uno scontro con i nemici ad ucciderlo, ma un’uscita di strada nella Contea di Dorset in sella alla sua moto nel 1935.
Il suo spirito, c’è da crederci, sarà tornato a rivivere i suoi giorni migliori sfruttando le folate di vento o i raggi di sole che giorno dopo giorno aleggiano nello scenario del Wadi Rum. Come c’è da credere che se il Tenente Colonnello Lawrence fosse stato ancora vivo ai giorni nostri, avrebbe presenziato fisicamente quei luoghi. Chissà se anche lui, visti i tempi di crisi, avrebbe optato per un volo low cost. Non avrebbe riconosciuto Amman, la capitale della Giordania, che in questi decenni è diventata una vera e propria metropoli. Le migliaia di case in pietra bianca costruite su ogni centimetro disponibile dei colli che circondano la meravigliosa Cittadella. L’enorme quartiere abitato dai rifugiati palestinesi ormai rassegnati all’esilio forzato. Niente dromedari o sabbia tutto intorno ma strade affollatissime; pochi suk ma tanti centri commerciali. Poi Università, banche, locali e ristoranti tipici di elevata qualità. Ma si sarebbe fermato a contemplare nuovamente il Teatro romano che, come la città di Jerash, non solo resiste alle intemperie ed alla stupidità umana, ma rimane lì a ricordarci di come il Sacro Romano Impero abbia dominato gran parte del continente europeo e buona parte dei territori allora conosciuti; lasciando eredità storiche e culturali ancora oggi di immenso valore.
Si pensi solo che l’antica Gerasa o Jerash dir si voglia, meraviglioso patrimonio storico inspiegabilmente non protetto dall’Unesco, è emersa solo in percentuale che si aggira intorno al 15%. Lawrence, tra le varie anche archeologo, si sarebbe inorridito a vedere gran parte della città romana ostruita dalla costruzione di case moderne. Passeggiando tra le rovine sarebbe stato tra gli unici ad appoggiare le mani sui pilastri di roccia, a chiudere gli occhi e riceverne l’energia, come in un viaggio nel tempo. Ignaro che questa è l’epoca del selfie.
Attorno le guide, rassegnate ad un pubblico disinteressato e disattento con la memoria da pesce rosso, la curiosità di un ficus e vanesio come il Narciso di Caravaggio.
Nella tasche dell’ufficiale inglese sarebbe stata ancora presente la chiave che tante porte gli aveva aperto. Si chiama rispetto. Sul Monte Nebo, sia stato credente in Dio o meno, fedele alle parole del Papa o no, si sarebbe soffermato a guardare dall’alto quello spicchio di terra Sacra all’umanità e che proprio in nome di Dio sta causando tutt’oggi disperazione, morte ed apartheid. Un moderno crocefisso come protagonista, fredda composizione metallica e sullo sfondo il bagliore della cupola della Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, i riflessi del Mar Morto, il fiume Giordano e le sue acque purificatrici, il nuovo Stato di Israele e le sue prepotenze nascoste dietro ad un orizzonte placido e luminoso. Su quelle terre quanti eserciti, pellegrini, popoli disperati o speranzosi avevano cercato un po’ di fortuna. Magari una verità. O forse Dio o loro stessi. Lawrence si sarebbe riparato dal freddo stringendo le braccia tra la galabeya e coprendosi il volto con la kefiah. In silenzio contemplativo. Intorno a lui gruppi di persone urlanti eccitate all’idea di fare un’attività di gruppo: un selfie.
Ancora una volta la direzione di Lawrence sarebbe Aqaba. Dal Monte Nebo seguirebbe le coordinate 29°Nord e 35°Est e presto arriverebbe nella sua Valle della Luna. Durante il suo cammino rincontrerebbe i popoli nomadi che nei periodi più freddi lasciano le montagne per montare le loro tende in pianura. Tra coltivazioni di pomodori e greggi di pecore. Costeggerebbe parte del Mar Morto che troverebbe di alcuni metri più basso rispetto ai suoi tempi. Prosciugato dallo sprezzo di Israele che pompa acqua dal Lago Tiberiade e dal Fiume Giordano noncurante del fatto che tra qualche decennio non ci sarà più traccia di questo leggendario bacino che, tra le varie caratteristiche, è situato a 415 metri sotto il livello del mare. Si soffermerebbe a curiosare le fabbriche che trattano il sale del mare citato nella Bibbia come mare Salato per l’appunto.
Lawrence d’Arabia finalmente si addentrerebbe nuovamente nel deserto del Wadi Rum dove si commuoverebbe nel farsi scivolare tra le dita la sabbia rossa con la quale ha dovuto lottare fino allo strenuo delle sue forze durante i suoi lunghi ed epici trasferimenti. Seguirebbe con lo sguardo la roccia che in tutti questi anni, modellata dal vento, ha cambiato fisionomia ma non carattere. Guarderebbe l’orizzonte e riconoscerebbe lo stesso azzurro immenso del cielo che più di una notte, amorevolmente, l’aveva ricoperto di stelle.
Non sarà avvolto dal silenzio come allora perché ai giorni nostri non è contemplato. I discendenti dell’esercito di beduini da lui comandato adesso è al servizio dei turisti che cercano spiritualità patinate. Guidano dei fuoristrada accompagnando sulle dune frotte di forestieri in cerca di selfie.
Lawrence rimarrebbe sconvolto nel constatare la presenza di plastica quasi ovunque.
Forse mesto lascerebbe dietro a sé turisti e Wadi Rum arrabbiato e deluso dai cambiamenti e, fermandosi alla vecchia stazione dove tanti anni fa aveva organizzato l’assalto ai treni degli invasori turchi, sarebbe salito sulla vecchia locomotiva a vapore e, prima d’esser circondato da decine di visitatori fai da te con le loro grida e bambini invadenti, si sarebbe fatto un selfie.
Per poi dissolversi nel vento e nella sabbia e ritornare così ad essere uno spirito libero.
Egitto: un fallimento annunciato

L’Egitto fa parte di uno dei tanti Paesi che, nonostante le risorse geo-culturali illimitate, non garantisce alla popolazione un tenore di vita adeguato.
La sofferenza dello Stato che per anni è stato forse forzatamente considerato il cuscinetto tra il mondo cattolico occidentale e quello musulmano medio orientale, sta provocando enormi scompensi nelle abitudini dei turisti per lo più facenti parte dell’Europa mediterranea e di conseguenza alle tasche dei Tour Operator che negli anni avevano investito fortemente nella terra dei Faraoni.
L’embrione del fallimento annunciato nasce nel corso degli anni dove le interferenze politiche internazionali hanno sempre prevaricato il volere del popolo egiziano, alla fine incapace di avere una visione democratica del proprio destino. I generali, istruiti per far fronte alla guerra, o ad idearne di nuove, con attitudini emergenziali a discapito di quelle programmatiche, sicuramente sono le persone più adatte per sopprimere ogni segnale di scontento ma anche le più inopportune per favorire lo sviluppo.
La mancanza di investimenti nell’istruzione, ridotta ormai fondamentalmente allo studio del Corano, nonché nella ricerca, nel sostegno all’artigianato, alla reale conservazione e riprogettazione dei siti archeologici e la completa inosservanza o esistenza dei piani urbanistici specie nelle nuove realtà recentemente sviluppate ad uso esclusivamente turistico, hanno mandato a picco un Paese che di suo possiede già tutto.
Se da un lato la noncuranza e l’approssimazione hanno mantenuto i prezzi decisamente cheap rispetto al vicinato, tra cui primeggiano le simboliche sfarzose Dubai ed Abu Dabi, paradossalmente accaparrandosi di fatto frotte di turisti low cost, dall’altro hanno lentamente strascinato l’economia turistica sempre più in basso fino all’esasperazione e nell’oggettiva impossibilità di investimento in manodopera qualificata e rimodernamento delle strutture, particolarmente fragili ed in balia dei componenti climatici per lo più corrosivi quali sabbia e salsedine.
La crisi che sta attanagliando l’Egitto non sarà passeggera ed i segnali che lo confermano sono evidenti: in primo luogo la mancanza di investimento nell’educazione ha creato una voragine, colmabile in non meno di vent’anni, tra una risicata e forzata classe dirigente ed i comuni cittadini che al momento si ritrovano in balia degli eventi senza né arte né parte, spavaldamente inconsapevoli e con la sola possibilità di reinventarsi; la fuga degli investitori non sarà fulminea, in quanto le aziende hanno bisogno di piani di rientro a lungo termine che l’Egitto così com’è non può garantire; il lento ma inesorabile cambio d’abitudine del flusso turistico degli affezionati che giorno dopo giorno sembra essersi messo il cuore in pace optando per destinazioni apparentemente simili ma più accoglienti.
Eppure questo disastro politico non è da attribuire esclusivamente ai dittatori che hanno governato il Paese e continuano a farlo, ma andrebbero rivisitati alcuni punti di vista storici propagandistici che alla fine si stanno rivelando dei boomerang che l’Occidente sta pagando con gli interessi. La pace e la ricchezza a discapito di altre realtà, lontane o vicine esse siano, sono transitorie. Gli scompensi che paghiamo oggi sono frutto dei tempi non troppo lontani in cui Churchill divideva le pacifiche etnie beduine con l’ausilio di un righello o la creazione dello Stato fantasma di Israele che si sarebbe in futuro rivelato una sorta di cancro per le popolazioni arabe, tutt’ora coinvolte in un vortice d’odio, intolleranza e distruzione.
Andrebbe forse ricusato il vanto anglosassone d’aver insegnato la civiltà a popolazioni considerate barbare perché incapaci di utilizzare la forchetta. In fondo, pur non godendo dei privilegi consumistici le tribù beduine adottano ferree regole basate sul profondo rispetto del prossimo, della comunità e di poche, ma inviolabili, leggi sacrosante che dall’altra parte sembrano invece lontani ricordi del dignitoso vivere.