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Giordania. Lawrence si arrabbia.

Il vento, le bufere di sabbia, uomini intrepidi che attraversano il deserto del Wadi Rum a costo delle loro vite. Nonostante le scomodità ed i pericoli trovano il tempo per contemplare la grandezza della natura, la bellezza che si presenta davanti ai loro occhi di giorno e di notte. Tra gli ammiratori di questo mondo c’è un soldato inglese diventato leggenda: Thomas Edward Lawrence, per i più conosciuto come Lawrence d’Arabia. Cavalca un dromedario, si spoglia delle sue vesti di ufficiale dell’esercito inglese per indossare una galabeya e combattere a fianco delle etnie beduine. Saranno le promesse di ricchezze ed autonomia a convincere questi ultimi ad intraprendere epiche battaglie al suo fianco. Sarà lo spirito libero di Lawrence a farlo innamorare di popoli dalle tradizioni così distanti e basiche rispetto al protocollo di Sua Maestà. Non sarà uno scontro con i nemici ad ucciderlo, ma un’uscita di strada nella Contea di Dorset in sella alla sua moto nel 1935.

Il suo spirito, c’è da crederci, sarà tornato a rivivere i suoi giorni migliori sfruttando le folate di vento o i raggi di sole che giorno dopo giorno aleggiano nello scenario del Wadi Rum. Come c’è da credere che se il Tenente Colonnello  Lawrence fosse stato ancora vivo ai giorni nostri, avrebbe presenziato fisicamente quei luoghi. Chissà se anche lui, visti i tempi di crisi, avrebbe optato per un volo low cost. Non avrebbe riconosciuto Amman, la capitale della Giordania, che in questi decenni è diventata una vera e propria metropoli. Le migliaia di case in pietra bianca costruite su ogni centimetro disponibile dei colli che circondano la meravigliosa Cittadella. L’enorme quartiere abitato dai rifugiati palestinesi ormai rassegnati all’esilio forzato. Niente dromedari o sabbia tutto intorno ma strade affollatissime; pochi suk ma tanti centri commerciali. Poi Università, banche, locali e ristoranti tipici di elevata qualità. Ma si sarebbe fermato a contemplare nuovamente il Teatro romano che, come la città di Jerash, non solo resiste alle intemperie ed alla stupidità umana, ma rimane lì a ricordarci di come il Sacro Romano Impero abbia dominato gran parte del continente europeo e buona parte dei territori allora conosciuti; lasciando eredità storiche e culturali ancora oggi di immenso valore. Si pensi solo che l’antica Gerasa o Jerash dir si voglia, meraviglioso patrimonio storico inspiegabilmente non protetto dall’Unesco, è emersa solo in percentuale che si aggira intorno al 15%. Lawrence, tra le varie anche archeologo, si sarebbe inorridito a vedere gran parte della città romana ostruita dalla costruzione di case moderne. Passeggiando tra le rovine sarebbe stato tra gli unici ad appoggiare le mani sui pilastri di roccia, a chiudere gli occhi e riceverne l’energia, come in un viaggio nel tempo. Ignaro che questa è l’epoca del selfie.

Attorno le guide, rassegnate ad un pubblico disinteressato e disattento con la memoria da pesce rosso, la curiosità di un ficus e vanesio come il Narciso di Caravaggio.

Nella tasche dell’ufficiale inglese sarebbe stata ancora presente la chiave che tante porte gli aveva aperto. Si chiama rispetto. Sul Monte Nebo, sia stato credente in Dio o meno, fedele alle parole del Papa o no, si sarebbe soffermato a guardare dall’alto quello spicchio di terra Sacra all’umanità e che proprio in nome di Dio sta causando tutt’oggi disperazione, morte ed apartheid. Un moderno crocefisso come protagonista, fredda composizione metallica e sullo sfondo il bagliore della cupola della Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, i riflessi del Mar Morto, il fiume Giordano e le sue acque purificatrici, il nuovo Stato di Israele e le sue prepotenze nascoste dietro ad un orizzonte placido e luminoso. Su quelle terre quanti eserciti, pellegrini, popoli disperati o speranzosi avevano cercato un po’ di fortuna. Magari una verità. O forse Dio o loro stessi. Lawrence si sarebbe riparato dal freddo stringendo le braccia tra la galabeya e coprendosi il volto con la kefiah. In silenzio contemplativo. Intorno a lui gruppi di persone urlanti eccitate all’idea di fare un’attività di gruppo: un selfie.

Ancora una volta la direzione di Lawrence sarebbe Aqaba. Dal Monte Nebo seguirebbe le coordinate 29°Nord e 35°Est e presto arriverebbe nella sua Valle della Luna. Durante il suo cammino rincontrerebbe i popoli nomadi che nei periodi più freddi lasciano le montagne per montare le loro tende in pianura. Tra coltivazioni di pomodori e greggi di pecore. Costeggerebbe  parte del Mar Morto che troverebbe di alcuni metri più basso rispetto ai suoi tempi. Prosciugato dallo sprezzo di Israele che pompa acqua dal Lago Tiberiade e dal Fiume Giordano noncurante del fatto che tra qualche decennio non ci sarà più traccia di questo leggendario bacino che, tra le varie caratteristiche, è situato a 415 metri sotto il livello del mare. Si soffermerebbe  a curiosare le fabbriche che trattano il sale del mare citato nella Bibbia come mare Salato per l’appunto.

Lawrence d’Arabia finalmente si addentrerebbe nuovamente nel deserto del Wadi Rum dove si commuoverebbe nel farsi scivolare tra le dita la sabbia rossa con la quale ha dovuto lottare fino allo strenuo delle sue forze durante i suoi lunghi ed epici trasferimenti. Seguirebbe con lo sguardo la roccia che in tutti questi anni, modellata dal vento, ha cambiato fisionomia ma non carattere. Guarderebbe l’orizzonte e riconoscerebbe lo stesso azzurro immenso del cielo che più di una notte, amorevolmente, l’aveva ricoperto di stelle.

Non sarà avvolto dal silenzio come allora perché ai giorni nostri non è contemplato. I discendenti dell’esercito di beduini da lui comandato adesso è al servizio dei turisti che cercano spiritualità patinate. Guidano dei fuoristrada accompagnando sulle dune frotte di forestieri in cerca di selfie.

Lawrence rimarrebbe sconvolto nel constatare la presenza di plastica quasi ovunque.

Forse mesto lascerebbe dietro a sé turisti e Wadi Rum arrabbiato e deluso dai cambiamenti e, fermandosi alla vecchia stazione dove tanti anni fa aveva organizzato l’assalto ai treni degli invasori turchi, sarebbe salito sulla vecchia locomotiva a vapore e, prima d’esser circondato da decine di visitatori fai da te con le loro grida e bambini invadenti, si sarebbe fatto un selfie.

Per poi dissolversi nel vento e nella sabbia e ritornare così ad essere uno spirito libero.

Buon viaggio Noah

Benvenuto Noah.

Sei nato da poche ore, fuori fa freddo ed il tuo viaggio comincia ora. Riposi al caldo, sotto una soffice copertina che scosti ad ogni tuo movimento. Sei beato e sorvegliato dai tuoi genitori. Ti osservano curiosi come fossi arrivato da un pianeta lontano. Ti accudiscono, si prendono cura di te, amorevolmente. Nella piccola parte di mondo dove sei stato concepito tante luci diffuse ad intermittenza ci ricordano che questo è un periodo speciale. Col tempo ti insegneranno a dare un significato religioso al Natale e per te, passeggero del terzo millennio, sarà complicato comprendere. Che tu poi ci creda o meno, al tuo fianco ci sarà sempre un angelo custode che ti proteggerà dai pericoli che inevitabilmente si presenteranno sulla tua strada. Che tu ci creda o no, le stelle di te parlano chiaro: sarai un’artista con la valigia in mano.

Se così fosse, un giorno sentirai l’esigenza di staccarti da tutto ciò che proprio ora ti avvolge di calore e di amore. Ti allontanerai ed intraprenderai sentieri verso luoghi lontani ed inesplorati. Sempre che di inesplorato tra qualche decennio rimanga ancora qualcosa…

Avrai la fortuna di cavalcare l’avanzata tecnologia che ti permetterà di avvicinarti al sapere con facilità. Ti muoverai velocemente e le distanze saranno sempre più brevi. Potrai scegliere. Sono sicuro che anche allora il mondo non sarà un luogo confortevole per tutti ed allora ricordati che far parte della fazione privilegiata non significa essere superiori. Se esisteranno ancora piccoli paesi e vecchie locande dove qualche anziano passerà il tempo a raccontare storie lontane, entraci. Siedi vicino a loro. Osservali, ascolta ciò che ti diranno. Poi esci, prendi la tua valigia e riprendi il cammino. Impara le lingue per essere facilitato a capire anche i meno fortunati. Lasciali parlare e mentre lo fanno guarda i loro occhi che sono la finestra dell’anima, dicono. Soffermati sulle rughe che si formano sul loro viso mentre ti racconteranno le loro vite. Abbi rispetto e meritati il rispetto delle persone. Stringi la mano deciso ed abbraccia chi credi sia sincero.

Sarai libero di scegliere. Sarai libero di sbagliare. Sarai libero di essere.

Potrai farlo perché vicini o dall’altra parte del mondo i tuoi cari saranno presenti ed avranno sempre un buon consiglio da darti. Quando sbaglierai, perché di sbagli ne farai e quanti ne farai, rovista un po’ le tasche e troverai sempre un bigliettino con sopra scritta una scappatoia. Passo dopo passo finché arriverà il giorno in cui troverai un foglio bianco ed allora dovrai cavartela da solo. Lo so, magari avere le tasche piene di cartaccia potrà dare un po’ fastidio, specie da ragazzino, ma conservali perché prima o poi, quei consigli, ti torneranno utili.

Non credere che innalzando e circondandoti da un muro sarai al sicuro. Soprattutto non credere a chi ti vorrà convincere di questo. Stai lontano da chi ti promette tutto e subito e non cadere nella trappola dello sfavillante cortile dorato. La realtà è là fuori.

Adesso che ci penso però, neanche nato e già sei investito di filosofie e paroloni; tu che ti sei presentato al mondo con un pianto del quale non conosci manco il significato. Che ancora non riconosci il tuo nome o quelle facce intorno che ti fanno versi strani.

Poi sorridi.

Poi sbadigli e non sai ancora cosa stai facendo.

Ma è proprio così che il viaggio comincia…

Buon viaggio Noah.

Los Angeles. Il cadavere di Santa Monica ep.3

L’ultima delle ipotesi riguarda un uomo molto ricco che ama fare acquisti nei negozi della Rodeo Drive. Una delle vetrine lo specchia con indosso una giacca gialla dai profili luccicanti e dei pantaloni blu a zampa di elefante. Anche la camicia bordeaux ha lo stile retrò. Porta un paio di occhiali da sole con lenti ovali arancioni, grandi ed avvolgenti.  Nonostante l’età avanzata in testa ha praticamente tutti i capelli che sistema periodicamente dal parrucchiere dei vip a Los Angeles. Proprio in quel rinomato salone ha incontrato colui che è diventato il suo compagno attuale. Un ragazzo di mezza età, di origine cubana, con un passato abbastanza oscuro. Pochi si chiedono come sia giunto a frequentare gli ambienti di lusso viste le umili origini. In realtà qualche malalingua sospetta che abbia concesso il proprio corpo a gente facoltosa pur di sistemarsi definitivamente a Beverly Hills. Fatto sta che l’incontro tra i due era stato subito proficuo. Un appuntamento al ristorante, una cena romantica, parole e sorrisi, la complicità davanti ad una bottiglia di vino pregiato francese, uno sfioramento delle mani e poi il fine serata nella villa ad Hollywood. Fondamentalmente quello era stato l’inizio di una storia che sigillava il passato dei due. Si godevano i loro momenti fatti di shopping, bagni rinfrescanti nella piscina di casa, massaggi e regalini reciproci. Poi c’erano le partecipazioni alle cene in cui capitava spesso di incrociare i calici con personaggi affermati o starlet dell’alta società californiana. I rapporti con le famiglie erano nulli per quanto riguarda l’uomo dalla giacca gialla e ridotti all’osso per il ragazzo cubano. Nel primo caso il motivo era dovuto al fatto che i suoi due fratelli non avevano mai accettato il rapporto che intercorreva tra lui ed il cubano che accusavano di opportunismo; da parte di quest’ultimo le tracce della famiglia si erano sbiadite con il passare degli anni e della lontananza. Un mix di invidia, gelosia e risentimento che li avevano condannati al loro esilio dorato ma a cui loro non davano alcun peso.

L’ambientamento dalla ricchezza alla povertà è un dato che cambia notevolmente se invertiamo i fattori. Il rischio di dimenticare le proprie origini è inoltre una delle cause più frequenti di chi si ritrova benestante dal oggi al domani. Il ragazzo cubano aveva rimosso la sua fervida partecipazione ai discorsi politici che lo distinguevano da adolescente; il pathos che lo faceva litigare per difendere a spada tratta le sue idee. Da ragazzino sognava di sfidare verbalmente qualche politico di grosso calibro, quelli che hanno i fili mossi dalle enormi multinazionali, per capirci. Mai si sarebbe immaginato di condividere un banchetto assieme a loro in qualche lussuosa villa. Frequentandoli non solo ha dimenticato il suo passato ma si è anche adeguato al loro presente che è fatto di scambi di parole ponderate e di cortesia, di finta ammirazione, di baciamani e scatole infiocchettate; macchine prestigiose che riempiono i viali delle case sulle colline californiane o mogli avvenenti con il corpo in visita ufficiale insieme al marito affermato e la mente in braccio all’amante surfista. Forse tutti questi artifizi gli hanno spinti per un pomeriggio a fare qualcosa di diverso. Ritagliare un po’ di tempo esclusivamente per loro. La radio della Bentley spesso viene  mutata dalle loro battute seguite da grasse risate. Prendono in giro i conoscenti creando delle simpatiche caricature ed enfatizzando quelli che le vittime pensano essere grandi pregi. La macchina si sta dirigendo verso Santa Monica. Il buonumore li segue anche quando devono parcheggiare la macchina sulla sabbia in mezzo alle decine di altre autovetture popolari. Attraversano il molo passeggiando e guardandosi in giro mentre delle nuvole avanzano gonfie, scure e minacciose verso di loro. Non trascorre troppo tempo da quando le prime gocce d’acqua cominciano ad inumidire la passerella e le persone che ci camminano sopra. Decidono di ripararsi e di acquistare due bevande gassate sentendosi di nuovo ragazzini. L’alternanza della pioggia permette loro di arrivare fino alla fine del pontile e guardare l’Oceano che si sta agitando minaccioso. Lo fissano pensierosi. Di tanto in tanto bevono dalle loro bottiglie di vetro attaccandosi al passato. Entrambi da ragazzini erano stati poveri. Invecchiando si capisce che per quanti soldi uno possa avere niente può ridare la giovinezza andata. Se lo ricordano a vicenda.

Tra questo turbinio di gioie, malinconie e temporali si presenta nella storia un apparentemente inutile insetto. E’ un ape che attratta dallo zucchero della bevanda si infila dritta nella bottiglia dell’uomo descritto all’inizio con la giacca gialla che tra i due, destino vuole, è allergico proprio al veleno di questi preziosi insetti. Avvicina la bottiglia, un sorso, una puntura in bocca. Poi un angiodema che occlude le vie respiratorie… Il resto è un assurdo agonizzare fino alla perdita della coscienza e la conseguente morte.

Questa è anche la descrizione che il ragazzo cubano fornisce agli inquirenti che, richiuso il cadavere nel sacco, lo catalogano come un decesso per anafilassi.

 

 

 

Berlino. Le parole che non sai

Lo scontro tra i due era stato piuttosto violento e questo causò la separazione.

Era giunto il momento di fare un punto della situazione, di stare da soli e riflettere sugli errori commessi. Di scegliere se puntellare definitivamente un sentimento più che mai traballante o lasciarlo volare via come un inutile palloncino al vento. Dopo anni di parole, gesti e respiri condivisi pareva assurda, ad entrambi, ogni minima rinuncia.

Il cielo di Berlino quella mattina ben si adattava all’umore di lui che aveva deciso di dedicare del tempo a se stesso in una delle città europee più simboliche dell’epoca attuale. Il viaggio era stato travagliato. Il sedile accanto al suo era rimasto vuoto fino a quando fu occupato da una passeggera probabilmente sua coetanea. Le osservò sbadatamente le mani, notò degli anelli argentati, un piccolo tatuaggio sul polso. Una serie di bracciali forse regali o ricordi di qualche viaggio. Per un attimo la guardò in viso ed incrociò il suo sguardo. Non era la persona che abitualmente viaggiava con lui, pensò. Fece un sorriso di cortesia, ricambiato, poi si incupì nuovamente.

L’albergo in cui avrebbe dormito a Berlino era in una zona centrale ed era stato scelto da lei. La prenotazione era a nome della ragazza ed essere costretto a pronunciarlo al momento della registrazione gli provocò fastidio allo stomaco. Un misto tra rabbia, delusione e sacrilego. La camera dell’albergo era atipica e curata nei minimi particolari. Appoggiò la valigia e la esplorò con una prima occhiata notando un letto dall’aspetto confortevole e dalle dimensioni piuttosto grandi, poi si soffermò su alcuni quadretti e specchi appesi ad una parete. Aprì le porte del bagno e della doccia e, prima di sedere sulla poltrona di velluto, aprì le tende in modo da poter ammirare un murale dipinto su una parete nel cortile. Senza quel tocco artistico sarebbe stato un ostacolo alla vista e nient’altro. Si soffermò a scrutare altri oggetti nella stanza, poi sospirò lasciandosi cadere in un sonno profondo.

Girare una città sconosciuta da solo era una delle cose che riteneva più stressanti in assoluto. Durante il cammino era infastidito nel imbattersi in opere d’arte senza avere la possibilità di poterle condividere. Così come le persone che incrociava non avevano nessun motivo di esistere se non potevano essere commentate, spesso scherzate, nel gioco che erano soliti fare i due ragazzi. Era semplicemente un training di complicità piuttosto che malizia o cattiveria. Spunti per ridere assieme.

Prese la metropolitana per raggiungere Alexander Platz. L’unica cosa che lo distraeva dal suo pensiero fisso erano le decine e decine di murales che lo accompagnavano ovunque. Mentre immagini malinconiche scorrendo velocemente dal finestrino del treno testimoniavano il cambiamento dei tempi, cominciò a pensare che forse tra lui e Berlino qualche similitudine esisteva. Scese ad Alexander Platz.

Nella piazza, che trovò piuttosto sporca, c’era una manifestazione che denunciava un progetto di riqualifica di un quartiere storico. Contestavano l’F24 Alpha, questo il nome del piano di lavoro, di voler innestare delle case moderne ed accessibili per pochi privilegiati a discapito degli storici residenti attuali. La forma di protesta pacifica era originale se non altro. Persone truccate e vestite da zombie si spostavano sostenendo dei cartelli con scritte in tedesco. Il gruppo di protesta si chiamava Die Verdrängten, quelli repressi tradotto. Era tutto molto curioso ma l’interesse finì al termine della sfilata. Decise di mangiare qualcosa in un locale nei pressi della stazione. La famosa Alexander Platz non l’aveva entusiasmato. C’é da dire che in quelle condizioni psicologiche forse ben poche cose sarebbero riuscite a smuoverlo. Sorseggiò il cercando di individuare qualche notifica di lei sullo smartphone ma ovviamente il nulla.

Impostò google map in direzione Checkpoint Charlie e lì si diresse. Una volta raggiunto rimase nuovamente  deluso da quello che una volta era stato un’importantissimo e spesso tragico passaggio tra Occidente ed Oriente. Una delle tante assurdità architettate dall’uomo adesso era diventato un teatrino del ridicolo con dei personaggi vestiti da militari americani ma dagli accenti albanesi o rumeni, intenti a farsi fotografare dai turisti che avrebbero conservato fasulle e fittizie immagini del momento.

Proseguì il cammino fino ad arrivare al perimetro di ciò che rimane del muro di Berlino. Il simbolo per eccellenza della divisione e massima espressione dell’idiozia umana. Potere, avidità, incomprensione, ottusità. Ogni mattone che è stato posto su quella linea divisoria rappresenta i sentimenti più inumani possibili immaginabili. In molti hanno cercato di scavalcare quel muro, in pochi ce l’hanno fatta. I meno fortunati sono ancora oggi ricordati da foto o nomi che a leggerli ci si vergogna. Ma quanti muri di comodo resistono nell’oblio generale ancora oggi? Pensò il ragazzo mentre fotografava uno dei tanti simboli rimasti in memoria. Poi pezzi di muro che frenano schizzi di vernice in cerca di spazi infiniti da colorare. Che nascondono treni in movimento o persone di passaggio.

Alzò lo sguardo davanti all’imponente porta di Brandeburgo, ennesimo sigillo al potere, alla grandezza. In contrapposizione al monumento ancora proteste e rimostranze contro il sistema. La più curiosa era mossa da un uomo super fisicato che sotto una gigante bandiera tedesca elencava agli innumerevoli passanti motivazioni letteralmente insignificanti. Le foto assumevano contesti goliardici piuttosto che politici e le risatine delle ragazze intente a scattarle ne erano la conferma. Più il ragazzo sfiorava l’ilarità più ne subiva l’effetto contrario. La sua malinconia aumentava di sproposito nel vedere gli altri ridere e divertirsi.

Arrivò presto la sera e si ricordò che in tutto quel tempo non si era neanche minimamente interessato di bersi una birra. Non farlo in Germania era impensabile.  Si sedette così in un locale storico della metropoli tedesca e sfogliò lentamente il menù. Pensò alla birra che avrebbe gradito la sua compagna e ne ordinò una per sé ed una per lei. Simbolicamente. Come se si fosse assentata un attimo e da lì a poco avesse preso posto accanto a lui. Come è sempre stato d’altronde. La cameriera prese l’ordine, si guardò in giro in cerca della seconda persona che ovviamente non era presente ed essendo tedesca, notò l’anomalia, ma non commentò.

Le birre aiutavano a far scivolare i turbamenti e liberare le fantasie. I pensieri si accavallavano nella sua testa in maniera disordinata e copiosa. Le proteste, i murales, i monumenti, i turisti, il muro… Già il muro. Che lui aveva condannato fermamente senza lasciare spiraglio a nessuna giustificazione era lo stesso che aveva innalzato dentro di sé. Un muro che lo divideva dalla persona che più aveva amato ed amava in quel momento. Per orgoglio, per stupidità, forse per qualcuno degli stessi motivi che il muro di Berlino aveva causato così tanto imbarazzo al mondo intero. Loro stavano facendo lo stesso in fondo, avevano cominciato una guerra fredda in cui ogni sentimento buono che cercava di scavalcare il muro veniva soppresso. Lasciato cadere a terra esanime. Quante carezze, quanti baci erano stati ammazzati fino ad ora? Persi per sempre.

Il primo boccale di birra era terminato. Il muro cominciava a vacillare.

Non ha senso tutto ciò, pensò. Come posso permettermi di giudicare gli altri se sono io il primo ad erigere delle barriere verso le persone a cui tengo di più?

Si fece coraggio. Impugnò il telefono e mandò un messaggio: Quando torno ti dirò un sacco di parole che non sai. Che non ti ho mai detto. Sono uno stupido.

Rimase a fissare lo smartphone per tutta la durata della seconda birra, sorso dopo sorso, in attesa di una risposta che non arrivava.

Rassegnato ed annebbiato da tutta quella quantità di alcool ingerita posò il bicchiere vuoto sul tavolino e mise goffamente una mano in tasca alla ricerca del portafoglio.

Nel mentre ci fu una vibrazione.

Va bene, quando torni ne parliamo, lesse.

Sorrise, ringraziò la cameriera intenta a servire altri tavoli e tornò in albergo.

New Orleans. Immagini e parole (Parte prima)

 

La storia fluttua e si trasforma minuto dopo minuto come un fiume in piena. Si può scegliere di deviarne il corso o di navigarla. Ma non si può fermare. Luoghi e ritrovi mutano ad ogni giro di orologio lasciando dietro a sé sofferenza, dolore, morte. Ma anche gioia, conquista, vita. Il mondo è composto da chiaro scuri, di nero, bianco e grigio. E da migliaia di colori. Storie che si intrecciano a bordo di navi che, fiere, prendono spinta e forza dal fiume. Sono immagini e parole.

Forse l’unico modo per attraversare la linea è uno strumento. Un violoncello. Una canzone. Ma no, c’è altro. C’è l’arte. Ci sono i colori. Ma se arte è colore, anche quella linea gialla che delimita un qualcosa è arte. L’arte non divide, non delimita. O chissà, forse sì. Magari spezza cuori. Sicuramente diverge opinioni. Ma allora non è così buona, l’arte. Forse uccide anche lei. E allora abbiamo davvero bisogno di strumenti per attraversare l’odio racchiuso nell’arte. Non solo nell’arte. Potrebbe essere un violoncello. La canzone di prima. Ma no, c’è altro.

 

Parlo poco. Quando lo faccio è sempre sotto voce. Chi mi ascolta dice che mentre lo faccio mi accarezzo la barba. Come se volessi allungarla. Che so, plasmarla. Non me ne accorgo mai quando lo faccio. Chissà di quante altre cose non mi accorgo. Indosso il berretto per riparare la mia pelle nordica dai raggi del sole e carico in spalla il mio pesante strumento. Il tempo ha lasciato su di lui e su di me qualche graffio. Entrambi potremmo amplificare i nostri dubbi ed i nostri perché al mondo. Ma non lo facciamo. Parliamo sottovoce. Delicati. Entrambi.

 

Quel signore dall’aria così aristocratica riusciva a vivere la sua solitudine anche in mezzo a tutta quella fottuta e chiassosa gente. Sorseggiava una comune e tiepida birra in bottiglia come fosse il vino francese più buono e pregiato del mondo. Riusciva a leggere il suo libro nonostante il brusio e la musica. Il panama che indossava non oscurava lo sguardo fisso tra quelle maledette righe. Che io mi chiedevo e mi chiedo ancora, ma cosa sta leggendo di così appassionante per rimanere incollato a quelle pagine? E mentre mi arrovellavo il cervello per capire, lui stava leggendo Hemingway. “Se hai amato qualche donna e qualche paese ti puoi ritenere soddisfatto, perché anche se dopo muori, non ha importanza.” Non poteva essere altro.

 

Questa è la storia di tre colori che vivevano uno accanto all’altro. Tutti e tre dipinti sulle facciate di tre palazzi diversi. Circondavano finestre e porte disparate ma si affacciavano sulla stessa strada. Tutti e tre riflettevano gli stessi raggi del sole ma in maniera diversa. Questa era la loro unica differenza che li facevano percepire dissimili alla vista dei passanti. Eppure c’era chi preferiva l’uno all’altro. C’era chi pensava fosse folle dover sopportare quella tricromia così ravvicinata e chi rabbrividiva al pensiero di dover imbiancare una volta per tutte e forse per sempre quei tre palazzi. Gli unici a non temere ciò che sarebbe potuto avvenire erano proprio quei tre colori. Qualunque sarebbe stata la scelta, non avrebbero mai smesso di essere colori e di riflettere la luce del sole.

 

Indosso una tuba, da mago. Non abbandono mai la mia valigia delle magie. Ed aspetto. Aspetto il momento migliore per sorprendere il mio pubblico che ancora non sospetta quello che ho in serbo per loro. I passanti mi guardano, scrutano curiosi il mio aspetto. Si chiedono cosa sono in grado di fare. Forse niente, pensano. Certo, mi vedono qui seduto, in sovrappeso. Con questi dannati occhiali e la mia barba incolta che mi fanno sembrare un irlandese. Magari lo sono anche stato. Con quali magie potrà mai stupirci quello lì pensano. Quello con le scarpe consumate e lo sguardo di uno che non sembra proprio a suo agio con la bacchetta magica. Se solo guardassero meglio. Se solo guardassero oltre. Un bambino che si trasforma in ciò che vuole. Questa è la mia vera magia.

 

Quando suono il jazz frammento ogni difficoltà e la soffio lontano attraverso la mia tromba. Succede da sempre. Da quando da ragazzino a scuola venivo preso in giro per le mie disattenzioni. Per il mio sguardo perso fuori da una finestra aperta verso la primavera. E quei profumi. Quei colori. Era difficile riassumerli in soli tre tasti. Eppure ci riuscivo. Poi l’estate a giocare sulle rive del fiume. Ad ogni sguardo abbassato davanti ad un viso adolescente e le sue lentiggini corrispondeva una nuova nota. Poi le esibizioni. Le paure e le insicurezze premute a ritmo di jazz sui tasti dorati della mia tromba. Sulle strade di New Orleans.

 

La casa si trovava in un quartiere particolarmente insicuro. Le notizie che provenivano da quella zona raccontavano di piccoli furti e frequenti intrusioni nelle proprietà private. Che poi di valore non c’era nulla, ma trovarsi uno sconosciuto in casa che rovista nei cassetti non è mai una bella cosa. Può sparare il proprietario, potrebbe farlo il ladruncolo. Insomma, non delle belle situazioni. Muri o sbarre al posto delle finestre non erano delle soluzioni. Pagare un pegno così ingombrante alla paura è sinceramente troppo. Allora non rimaneva che usare il colore. Una finestra variopinta che splendesse come un arcobaleno. Così anche il mondo là fuori si tinse e si trasformò presto in quello che non si sarebbe mai potuto altrimenti cogliere attraverso un muro.

 

Oggetti fermi come soldati sfiniti al termine di una combattuta battaglia. Le colorate e lucenti collane del Mardi Gras abbandonate come armi riposte in un angolo pronte per essere riprese anno dopo anno. Le maschere, la festa, la musica e poi basta un attimo in cui il sole rifà capolino su di noi perché finisca tutto. Finisca il nostro sogno mentre ci rigiriamo tra le morbide coperte dei nostri letti. Noi con il mal di testa causato dai litri di alcool ingeriti il giorno prima. Le urla, la musica ed il divertimento che pulsano ancora tra le nostre tempie. Arriverà il momento che dovremo scendere a farci un caffè e mangiare qualcosa. Arriverà il momento di un altro Mardi Gras.

 

 

New Orleans. Immagini e parole parte II