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Natchez. Gospel.

Ce ne stavamo andando da Natchez.

La piccola cittadina ci aveva accolto il giorno precedente baciata dai raggi di sole ed avvolta in una temperatura mite.

Le sembianze degli edifici si allineavano allo stile pressoché comune negli Stati del Sud. Rispecchiavano il carattere di chi lo abitava. All’ingresso delle case in legno era frequente vedere delle sedie a dondolo sistemate su piccoli davanzali. Alla tinta unita delle pareti si contrapponevano le stelle e strisce delle bandiere, esposte fiere alla vista dei passanti. Fasce di terreno erboso circondavano le abitazioni e le distanziavano, di non molto, le une dalle altre. Tra queste, non frequentemente, spiccavano le grandi ville padronali. I proprietari di questi poderi sono stati perlopiù personaggi illustri nell’epoca dell’Indipendenza.

Al centro della città l’austera Basilica di St.Mary anch’essa edificata verso la fine del’800.

Il fiume Mississippi, intanto, scorreva fino al Golfo del Messico.

Ero nella corsia di sinistra pronto a lasciarmi Natchez alle spalle, quando mia moglie mi fece notare un piccolo assembramento di persone davanti ad una piccola chiesa battista. Ciò che particolarmente colse la sua attenzione furono gli abiti dei coristi gospel. I pochi secondi che ci separavano dal verde del semaforo, furono sufficienti a convincerci di non perdere l’occasione per assistere ad una cerimonia religiosa locale. Il muso della macchina cambiò cosi direzione.

La piccola casa del Signore era situata su una collina ed i fedeli che la raggiungevano affrontavano il vialetto in salita con caparbia ed un po’ di fatica. Molti di loro erano fragili ed anziani, qualcuno in sovrappeso. Non era un quartiere ricco. Tutti erano dignitosamente vestiti a festa.

Il reverendo accoglieva i seguaci sul bordo dell’ultima delle tre scale che si affacciavano alla porta d’ingresso. Dispensava generosi sorrisi a tutti quanti. Mi rivolsi a lui “Scusi, possiamo entrare vestiti così?” Quella tappa non era prevista, perciò indossavamo entrambi abiti casual. Una tshirt e dei pantaloni corti. Il sacerdote non ci pensò su e mantenne intatto il suo sorriso “Certamente. Qui sono tutti benvenuti”

L’interno della chiesa si presentava come una comune stanza. Era libera di dipinti celestiali e statue di santi martorizzati. Le file dei banchi terminavano in prossimità di un pulpito. Alla sinistra di questo una tastiera, alla destra una batteria.

La sala di culto si riempì velocemente. Occupammo i posti più arretrati convincendoci che la nostra scelta fosse dettata dal rispetto. Era titubanza. A fianco a noi una minuta signora anziana custodiva amorevolmente tra le mani una grossa bibbia vissuta. Le pagine contrassegnate con post it colorati.

Il reverendo cominciò a celebrare attirando a sé l’attenzione dei presenti.

Guardandomi in giro notai che tra tutti eravamo le uniche persone di razza bianca. Nessuno dei presenti pareva farci caso anche se, di tanto in tanto, mi capitava di incrociare lo sguardo severo di una signora delle prime file laterali. Era molto distante da me ma, essendo frontale, inevitabilmente capitava di incontrarci visivamente.

Immaginai la sala a razze invertite.

I miei genitori avevano affidato la mia educazione infantile ed adolescenziale a suore e preti, più per motivi lavorativi che religiosi. Quegli anni servirono a coltivare in me l’ateismo. Maturando avevo anche imparato a polemizzare il meno possibile con i fervidi credenti indifferentemente dal culto, accomunandoli tutti ad una spiccata ottusità. Dalle porte della chiesa, intanto, una lunga processione di persone con abiti talari violacei, si diresse verso il palco dalla parte opposta. Battevano le mani a ritmo e cantavano intonati. Sembrava di assistere ad uno spettacolo più che ad una celebrazione liturgica. Perlomeno non a quelle tradizionali con cui ero cresciuto ed abituato ad assistere. I presenti partecipavano cantando, scandendo il ritmo con le mani, ballando. Il coro si posizionò al suo posto.

L’entusiasmo di quella gente mi stava coinvolgendo tant’è che mia moglie me lo fece notare “Dai smettila!”

Abitualmente ho reazioni fisiche granitiche ed odio profondamente balletti, ballerini e coreografi. Essendo bandita la naturalezza dalla nostra educazione religiosa, trasportato dall’enfasi del momento, magari mi sarà scappato un sorriso. Mi ricomposi immediatamente.

Il reverendo cominciò la sua predica con entusiasmo e fermezza, alternando discorsi e parole rivolte al Signore a prove canore ammirevoli. La temperatura dell’ambiente si scaldava sempre più ad ogni accordo del tastierista, rullata del batterista e note del coro. Tutte le persone presenti, indistintamente, erano avvolte dalla gioia. Ad ogni passo della celebrazione i loro volti si ammorbidivano. Si spogliavano dalle preoccupazioni e dolori e si rivestivano di gioia e speranza. Visibilmente.

“Scusate se non sono venuto qui per molto tempo” esclamò un signore quando il reverendo lasciò la parola ai fedeli “Ho sbagliato. Mi sono allontanato da Dio e dalla comunità perché avevo smarrito la strada”

Venne rincuorato dal sacerdote “Qui sarai sempre il benvenuto. Non devi scusarti di niente.”

Ricevette l’abbraccio spirituale di tutte le persone presenti. Anche il nostro.

Accortasi della difficoltà che stavamo incontrando nel trovare la pagina della sacra lettura richiesta, vuoi per la lingua che per la poca pratica, la gentile signora accanto a noi condivise immediatamente la sua bibbia.

Dolcemente prese per mano mia moglie e le indicò il verso da seguire.

Alternavo la mia attenzione a questi piccoli grandi gesti, alle corpulente sagome di alcune coriste ed alla grazia dei loro volti, ai vestiti di festa dei miei vicini. Ai loro capelli. Al respiratore che qualcuno di loro era obbligato a portare con sé. Al viso di una ragazza scavato da una brutta malattia. Alla partecipazione gioiosa di una bambina disabile. Mi rendevano partecipe della loro serenità.

Pregavano gioiosi un Dio imposto dal colonialismo e dall’avidità dei popoli europei. Un Dio con lo stesso colore della pelle dei loro carnefici e dei trafficanti di schiavi che li avevano deportati dalle loro terre. Nonostante questo si erano convertiti ad una religione nata per sovrastare, ingannare, annientare ed inglobare le risorse altrui arricchendola e mischiandola con il loro paganesimo. Tanti spiriti liberi a disposizione degli altri.

“Una volta usciti dalla Casa del Signore” terminò il pastore tra gli amen della sua gente “andate a visitare i più bisognosi. Negli ospedali, nelle strutture di accoglienza per anziani, nelle carceri. Aiutate la comunità. Dio non è qui, è la fuori che vi aspetta…”

La sensazione che provammo sia io che mia moglie terminata la celebrazione la descrivo con una metafora: il passaggio di due automobili in un autolavaggio. Polverose prima, pulite e splendenti poi.

Durante il tragitto NatchezBaton Rouge ci accompagnarono molte riflessioni e per qualche mese si insinuò in me la spiritualità di quel Dio che ogni domenica si esprimeva attraverso i sentimenti puri di quelle belle persone. Mi piaceva.

Lo immaginai fatto persona. Simpatico, alla mano. Sorridente. Giovane. Riflessivo e benevolo. Un po’ artista e paradossalmente fatalista. Dalle realistiche pretese. Sincero.

Poi lo confrontavo al mio. O meglio, quello a cui sono stato costretto a credere e venerare da ragazzino.

Un vecchio scorbutico ed altezzoso. Permaloso. Circondato da Santi adulanti cui vite sono state segnate da privazioni e punizioni, torture e dannazioni. Autoritario. Severo. Ossessivo compulsivo, represso e bipolare.

Ancora oggi quando il minimo dubbio affiora in me riguardo l’esistenza di Dio ho a che fare con quest’ultima idealizzazione.

Forse la colpa è di chi mi ha insegnato che Dio è sofferenza, crocifissione; sapore di spugna intonsa di aceto. Magari è colpa mia che non ho colto i messaggi della sua rinascita ed immortalità. La costante fuga da diavoli tentatori ed angeli redentori.

O magari, come direbbe il Dio più simpatico, smetti di assegnare colpe a te ed agli altri.

Vivi semplicemente con gioia. Dona e ricevi più gioia che puoi. Fin quando potrai.

Amen.

Si considera l’Amen come una chiusa; ma esso dovrebbe essere soltanto una parola di passaggio all’atteggiamento di preghiera che deve continuare nel lavoro; in ogni altro compito. Dicendo «Così sia», pensiamo che ciò che era nella preghiera anche in futuro sarà così, e conserverà lo stesso valore. L’Amen in sé è parola di preghiera e l’orante deve metterci dentro tutta la sua forza, perché proprio questa parola sia viva e vera in tutto quello che fa. Questo è possibile se l’uomo prende in se stesso tutta la forza della parola e se ne lascia influenzare.

(Adrienne von Speyr)

Death Valley. Capire il silenzio.

5

Vista così è una valle desertica e basta. Come tutti i deserti, se visti di passaggio, trasmette vuoto.

Il vento ti spara in faccia l’aridità del nulla.

Sabbia, polvere, roccia, cenere, sale. Qualche mese l’anno acqua raccolta in pozzanghere.

3Se l’uomo l’ha soprannominata Valle della Morte avrà avuto i suoi validi motivi. Quelli sopra appunto.

Strisce d’asfalto tagliano e costeggiano l’immenso paesaggio lunare facendo scorrere verso punti indefiniti linee di vernice gialla. Anche nei luoghi dove le avversità della natura si percepiscono piuttosto spigolose c’è sempre una mano che traccia segnali ed indica divieti.

6Apparentemente prolificano poche forme di vita. Quelle esistenti probabilmente cercano riparo tra le crepe del pavimento o in qualche roccia. Sicuramente non trovano accoglienza tra i banchi di sabbia che formano delle dune. Tra queste, come sentinelle stanche appoggiate alla loro baionetta, compaiono degli arbusti spogliati da ogni foglia.

Il silenzio è rotto dal sibilo del vento, dalle macchine in transito, dai turisti che affannosamente cercano di occupare il più spazio nel minor tempo possibile di tutto quel immenso.

9Qualche centinaio d’anni fa erano i ricercatori d’oro a far transitare i loro carri in quella valle inospitale. Chissà se nonostante le difficoltà di sopravvivere in quelle condizioni avessero un’opinione sacra di quel luogo. Gli sputi sui guanti riecheggiavano prima che rozzi scavatori imbracciassero i loro badili e li affondassero nella sabbia. La metafora perfetta di come quella che chiamiamo fortuna si nasconda dietro ad intuizione, lavoro, sacrificio. Senza garanzia di riuscita.

2Il nativo del deserto è legato a Dio da un cordone ombelicale e non necessita di intermediari. Non ha cupole sopra la testa a proteggerlo dagli eventi, non ha filtri che impediscano di guardare i pianeti, le stelle, nessuno che gli proibisca di inginocchiarsi sulla morbida sabbia, di comunicare al cielo. Loro hanno imparato dal silenzio. Ne fanno parte e sono i custodi di questi meravigliosi spazi infiniti.

4I conquistatori di nuove terre, siano essi ricercatori d’oro o corridori di ultramaratone, il deserto lo sfidano. Temono la sua immensità e tutti i rischi che ne derivano. Lo rispettano. Ma lo sfidano. Nel deserto vedono una porzione della loro vita simbolicamente insuperabile. Necessitano di realizzare qualcosa, sia questo spirituale o materiale. In cambio di ciò sull’altare del sacrificio vengono lasciate lacrime, fatica, sudore, sangue, sete e dolore.

La visione della Death Valley comincia a prendere nuove forme. Le brevi folate di poesia che sono state e, saranno, in quel luogo apparentemente dimenticato da Dio, sono piccoli morsi ad un fungo allucinogeno che ne deforma la realtà rendendola irreale, fantastica.

12Il rapido avvicinamento di nubi nere e minacciose giunte dal nulla, lo scarico di una pioggia torrenziale, rivoli d’acqua che scorrono tra le fessure del canyon. Il tingersi di infinite sfumature della roccia bagnata e l’esplosione di riflessi dorati alla ricomparsa dei primi raggi di sole. L’incontro tra luce e tenebra delineata da due rassicuranti arcobaleni.

7Poi ancora sole ed aridità, d’improvviso, come se in quel posto qualcosa o qualcuno di incontrollabile ed onnipotente si divertisse a scuotere una clessidra facendo impazzire la logica del tempo e chi la segue.

Lì ci sono tutti gli elementi per istigare l’uomo a raccogliere una sfida. Contro la natura, contro sé stesso.

Una coppia di giovani osservano in silenzio le badlands dallo Zabriskie point.

1Sembrano entrambi concentrati nel capire il silenzio.

Perché alla fine anche tutta quella grandezza, senza i nostri piccoli gesti, sarebbe solo una distesa di morte.

Di solo silenzio.

Un elemento così sottovalutato e spaventoso. Chissà perché le persone temono il silenzio?

Probabilmente perché civiltà e sviluppo ci allevano tra confusione e rumore?

Perché ci ricorda la fine?

 

8Ascoltiamo troppo il telefono e ascoltiamo troppo poco la natura. Il vento è uno dei miei suoni. Un suono solitario, forse, ma rilassante. Ognuno di noi dovrebbe avere il proprio suono personale e il suo ascolto dovrebbe renderlo euforico e vivo, o silenzioso e tranquillo… È un dato di fatto, uno dei suoni più importanti – e per me il suono per definizione – è il totale, assoluto silenzio.
(André Kostelanetz)

 

Havana: La memoria è vita

L’uomo è seduto nel cortile della sua umile e decorosa abitazione.

Nonostante i suoi limitati movimenti indossa ancora un percettibile fascino dovuto ai capelli bianchi; alle sue rughe.

E’ lì, come un vecchio relitto spiaggiato, arrugginito; mosso di tanto in tanto dalle onde del mare che nella navigazione l’hanno sospinto per infinite miglia. Ora lo tormentano, lo consumano. Senza tregua.

La sedia su cui poggia stanco è essenziale. Riverniciata.

L’uomo ha scelto di vivere nella semplicità privandosi di molte comodità.

La privazione di oggetti superflui gli occidentali la percepiscono come povertà.

Per lui, che decise di rimanere a Cuba anche dopo la dipartita degli americani, la ricchezza è sempre giaciuta negli occhi neri della sua compagna; un tesoro luccicante che traspariva nel suo sorriso, nelle sue graziate movenze.

Ora è molto magro. La camicia azzurra di lino che qualche anno fa indossava orgogliosamente veste abbondante. Anche i pantaloni sono tenuti stretti in vita da una cintura a cui sono stati aggiunti dei fori.

La malattia lo sta consumando lentamente.

Il suo sguardo è puntato al grande lenzuolo bianco che sta stendendo sua figlia. Di lei si intravedono solo i polpacci color miele che spuntano nella parte inferiore della biancheria. Compaiono le mani dalle dita affusolate, di tanto in tanto, impegnate ad appendere altri indumenti.

La ragazza in braccio tiene un bambino di pochi mesi. Anche lui, come il nonno, non è consapevole  di cosa stia succedendo. Si lascia cullare dai movimenti della madre ed esplora la propria piccola bocca con la manina destra.

La scatola dei ricordi del bambino è quasi vuota ma, giorno dopo giorno, una nuova esperienza ne occupa un angolino. Anche quella del nonno è quasi completamente vuota; con un procedimento inverso però. Tutto è andato perso, un pezzettino alla volta, come se un’inafferrabile mano col passare del tempo raccogliesse ogni parte del contenuto e lo gettasse via. Nel vuoto.

Non potrà mai raccontare al bambino, come fece con sua figlia, di quando Cuba era un’isola ricca. Luminosa. L’Havana è sempre stata luminosa ad onor del vero, ma nel periodo in cui gli americani la facevano da padrone lo era artificialmente. Era un periodo di trasgressione, rum, belle e facili donne; macchine lussuose dalla carrozzeria scintillante ed abiti in lino bianchi. Lo spagnolo e lo slang si mischiavano tra le nuvole di fumo dei sigari cubani e si facevano bere nei bicchieri di cristallo a bordo dei tavoli verdi.

Ai margini di questa società, presso una fabbrica di lavorazione di zucchero di canna, conobbe la persona più importante della sua vita. La sua compagna per sempre.

Nelle due foto bicolore un pò sgualcite e segnate dal tempo esposte nella sua camera da letto è ritratta giovanissima mentre sorride. Una è stata scattata in una zona del porto dove ancora oggi i ragazzi si divertono ad ammirare l’Oceano mentre spruzza le sue onde fino alla strada. Come se il grande blu volesse porgere la mano alle nostre colate di cemento cui andiamo così orgogliosi.

Ma i ricordi più belli, se potesse ancora raccontarli, sono ambientati nelle spiagge sabbiose, tramonti dal cielo ambrato e dalle grandi palme curve. Le passeggiate mano nella mano sul bagnasciuga ed i piedi bagnati dalla schiuma delle onde.

I baci segreti, le parole di amore e rivoluzione che si scambiarono i due innamorati sono destinati a rimanere tali. Nell’oblio della scomparsa di lei e la malattia di lui.

Per le vie dell’Havana, mentre il vento soffiava promesse post rivoluzionarie e prima che l’entusiasmo ideologico venisse razionato come il cibo, i due ragazzi vivevano sereni. Tutto ciò cui serviva loro per essere felici era stare assieme. Il suo lavoro era una carezza sul viso di lei, il compenso un sorriso.

Il loro amore si autoalimentava e non necessitava di un frigorifero o di una macchina nuova.

Il frivolo jazz lasciava il palcoscenico alle musiche inneggianti Il Comandante e le imprese dei suoi fedeli combattenti ma nella capitale cubana si respirava arte e poesia  in ogni angolo, un paradiso in provetta dove le vite effimere dei turisti ben presto avrebbero minato la moralità dei locali. Il consumismo, che aveva lasciato macerie culturali dietro a sé, si insinuava nuovamente sotto forme più subdole e redditizie per i leader. Ovviamente.

Prima di esaurire tutto il suo senso critico, disilluso, l’anziano signore sosteneva che le grandi ideologie sono solo delle accozzaglie di sentimenti che gonfiano le tasche di alcuni.

Adesso rimaneva seduto; fermo a scrutare chissà cosa.

Circondato da qualche gallina, la vecchia bicicletta senza copertoni ed una cassa di bottiglie vuote tappate con del sughero.

Il poco superfluo che per qualche tempo ancora l’avrebbe accompagnato verso l’essenziale sorriso della sua amata.

L’unico irrinunciabile tesoro terreno.

 

1992: La mia prima esperienza in un Paese lontano. In tutto. Un indelebile momento di vita vissuto con compagni di viaggio eccezionali con i quali condivido episodi irripetibili. A loro dedico questo post.

 

Porto: bellezza tridimensionale

portCamminare tra i vicoli di Porto è insinuarsi tra le lettere, ingigantite e sotto forma di case e palazzi variopinti, di un romanzo d’avventura che spazia tra i primi del ‘500, quando le caravelle cominciavano a solcare gli Oceani con una certa frequenza ed il futuro prossimo, dove la città conoscerà un nuovo rinascimento.

Se altre realtà metropolitane ci incantano con paesaggi da cartolina, la spettacolare Porto, grazie ai suoi sali scendi, è modellata in prospettive tridimensionali che ci accerchiano con tutto lo splendore architettonico dal sapore colonialista.

specchioL’impronta mediterranea è riconoscibile nei vicoli dall’aspetto trascurato e dallo sguardo stanco e sincero delle persone che li popolano, tra gatti intraprendenti e qualche immondizia di troppo; case vecchie ed in taluni frangenti diroccate che come in un dopo guerra presentano alla porta vecchi mobili e cianfrusaglie pronti ad essere inglobati in impalcature che ne cancelleranno ogni stento e crepa per dar vita a nuovi lussureggianti alloggi per turisti.

tramGià, perché Porto vive uno slancio di ripresa notevole, pronta a ricamarsi un nuovo abito che possa favorire la ricrescita tanto voluta da tutta Europa. La città portoghese esibisce i suoi numerosi ponti tra cui lo spettacolare Dom Luis che ci regala punti di osservazione eccezionali per cogliere a pieno l’energia emanata dal centro urbano ed i riflessi del fiume Duero che attraversa ed ove tra le sue calme onde fluttuano imbarcazioni storiche che ancora espongono le botti del rinomato vino liquoroso che prende il nome dalla città e moderne chiatte adibite ad uso e consumo dei turisti. Locande e ristoranti spuntano numerosi nella Avenida de Diogo Leite che presenta altresì cantine-musei del vino Porto dai nomi rinomati e commerciali come Sandeman, ad esempio.

saobentoE’ attraversando il ponte Dom Luis in direzione centro città che ci si integra nello spirito cittadino culminando le impegnative passeggiate tra il mercato vicino alla caratteristica e non molto rassicurante stazione dei treni di Sao Bento, che comunque offre mezzi puliti e sicuri ai viaggiatori; al Palacio della Bolsa, la Torre Medievale, il Pelourinho e via scorrendo come a voltar pagina del nostro romanzo vivente ad ogni monumento, casa o persona incontrata.

Come nel caso di Pedrbluo Magalhães, giovane barbiere che oltre a svolgere il suo lavoro, si è concesso in un’intervista dove esprime le sue opinioni riguardo il Portogallo, le aspettative che ripone nella Comunità Europea e speranze future. Ci svelerà, tra le altre cose, di come l’umanità sia uno degli aspetti fondamentali a rendere Porto vivibile, unica e tutto sommato sicura. Pedro, nonostante sia originario di Lisbona, è innamorato della città in cui vive e lavora attualmente, in particolar modo del suo quartiere che, possiamo confermare, è davvero un luogo di riferimento per chi cerca la meta ideale per pensare di viverci in pianta stabile, ossia Matusinhos.

 

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