Death Valley. Capire il silenzio.

Vista così è una valle desertica e basta. Come tutti i deserti, se visti di passaggio, trasmette vuoto.
Il vento ti spara in faccia l’aridità del nulla.
Sabbia, polvere, roccia, cenere, sale. Qualche mese l’anno acqua raccolta in pozzanghere.
Se l’uomo l’ha soprannominata Valle della Morte avrà avuto i suoi validi motivi. Quelli sopra appunto.
Strisce d’asfalto tagliano e costeggiano l’immenso paesaggio lunare facendo scorrere verso punti indefiniti linee di vernice gialla. Anche nei luoghi dove le avversità della natura si percepiscono piuttosto spigolose c’è sempre una mano che traccia segnali ed indica divieti.
Apparentemente prolificano poche forme di vita. Quelle esistenti probabilmente cercano riparo tra le crepe del pavimento o in qualche roccia. Sicuramente non trovano accoglienza tra i banchi di sabbia che formano delle dune. Tra queste, come sentinelle stanche appoggiate alla loro baionetta, compaiono degli arbusti spogliati da ogni foglia.
Il silenzio è rotto dal sibilo del vento, dalle macchine in transito, dai turisti che affannosamente cercano di occupare il più spazio nel minor tempo possibile di tutto quel immenso.
Qualche centinaio d’anni fa erano i ricercatori d’oro a far transitare i loro carri in quella valle inospitale. Chissà se nonostante le difficoltà di sopravvivere in quelle condizioni avessero un’opinione sacra di quel luogo. Gli sputi sui guanti riecheggiavano prima che rozzi scavatori imbracciassero i loro badili e li affondassero nella sabbia. La metafora perfetta di come quella che chiamiamo fortuna si nasconda dietro ad intuizione, lavoro, sacrificio. Senza garanzia di riuscita.
Il nativo del deserto è legato a Dio da un cordone ombelicale e non necessita di intermediari. Non ha cupole sopra la testa a proteggerlo dagli eventi, non ha filtri che impediscano di guardare i pianeti, le stelle, nessuno che gli proibisca di inginocchiarsi sulla morbida sabbia, di comunicare al cielo. Loro hanno imparato dal silenzio. Ne fanno parte e sono i custodi di questi meravigliosi spazi infiniti.
I conquistatori di nuove terre, siano essi ricercatori d’oro o corridori di ultramaratone, il deserto lo sfidano. Temono la sua immensità e tutti i rischi che ne derivano. Lo rispettano. Ma lo sfidano. Nel deserto vedono una porzione della loro vita simbolicamente insuperabile. Necessitano di realizzare qualcosa, sia questo spirituale o materiale. In cambio di ciò sull’altare del sacrificio vengono lasciate lacrime, fatica, sudore, sangue, sete e dolore.
La visione della Death Valley comincia a prendere nuove forme. Le brevi folate di poesia che sono state e, saranno, in quel luogo apparentemente dimenticato da Dio, sono piccoli morsi ad un fungo allucinogeno che ne deforma la realtà rendendola irreale, fantastica.
Il rapido avvicinamento di nubi nere e minacciose giunte dal nulla, lo scarico di una pioggia torrenziale, rivoli d’acqua che scorrono tra le fessure del canyon. Il tingersi di infinite sfumature della roccia bagnata e l’esplosione di riflessi dorati alla ricomparsa dei primi raggi di sole. L’incontro tra luce e tenebra delineata da due rassicuranti arcobaleni.
Poi ancora sole ed aridità, d’improvviso, come se in quel posto qualcosa o qualcuno di incontrollabile ed onnipotente si divertisse a scuotere una clessidra facendo impazzire la logica del tempo e chi la segue.
Lì ci sono tutti gli elementi per istigare l’uomo a raccogliere una sfida. Contro la natura, contro sé stesso.
Una coppia di giovani osservano in silenzio le badlands dallo Zabriskie point.
Sembrano entrambi concentrati nel capire il silenzio.
Perché alla fine anche tutta quella grandezza, senza i nostri piccoli gesti, sarebbe solo una distesa di morte.
Di solo silenzio.
Un elemento così sottovalutato e spaventoso. Chissà perché le persone temono il silenzio?
Probabilmente perché civiltà e sviluppo ci allevano tra confusione e rumore?
Perché ci ricorda la fine?
Ascoltiamo troppo il telefono e ascoltiamo troppo poco la natura. Il vento è uno dei miei suoni. Un suono solitario, forse, ma rilassante. Ognuno di noi dovrebbe avere il proprio suono personale e il suo ascolto dovrebbe renderlo euforico e vivo, o silenzioso e tranquillo… È un dato di fatto, uno dei suoni più importanti – e per me il suono per definizione – è il totale, assoluto silenzio.
(André Kostelanetz)
Cosa aspettarsi da Expo 2015
Appurato il fatto che in Italia ogni grande opera è abbeveratoio di risorse per mafie e malaffare che costituiscono lo scheletro del Paese è piuttosto scontato preventivare conseguenze piuttosto turbolente per il dopo Expo 2015.
Per una volta evitiamo facili conclusioni ideologiche e proviamo invece ad immaginare quali effettivamente potrebbero essere i vantaggi e punti deboli della manifestazione soprattutto una volta terminata la kermesse.
La disorganizzazione ed approssimazione che caratterizzano il Bel Paese non faciliteranno di certo lo spostamento dei visitatori che, una volta giunti negli aeroporti lombardi o nelle stazioni ferroviarie, avranno il loro bel da fare per raggiungere i padiglioni senza disagi. Dallo smarrimento delle rette vie di Dante Alighieri ad oggi è cambiato ben poco con ritardi cronici, lavori in corso o semplici disattenzioni che da sempre contraddistinguono il settore trasporti italico. Se mai le opere stradali saranno terminate il giorno prima dell’inaugurazione inoltre, non lasceranno tempo a nessun collaudo o modifica dell’ultimo minuto, sospese tra le preghiere dei progettisti e le speranze, sempre mal riposte, dei cittadini. La politica saprà trarne giovamento in ogni caso: strade deserte saranno interpretate come “ingorghi evitati”, caotiche colonne di vetture come “affluenza al di sopra di ogni previsione”. Farlo comprendere a rassegnati giapponesi, incazzosi tedeschi e masticanti americani non sarà influente ai fini elettorali.
Al solito bisognerà fare i conti con la pessima ramificazione statale ed anacronistiche visioni burocratiche che andranno a scontrarsi con una manifestazione che dovrebbe guardare al futuro e che sarà fondamentalmente sostenuta solo da colossi multinazionali intenti a fagocitare altre fette di mercato, conditi da aziendine speranzose di entrare nel giro che conta. La cosa che preoccupa e fa riflettere i milanesi riguarda proprio il loro futuro, che sarà fulcro di discussione ad Expo 2015 e che non presenta nessuna programmazione post se stesso. I padiglioni ove si esporrà la merce con l’ulteriore singolare intento di regolare “la fame nel mondo” avranno nobile scopo solo per la durata dell’evento che una volta terminato lascerà dietro a sé strutture fantasma che tra pochi decenni saranno fonte di ispirazioni giornalistiche rivolte ai soliti sperperi italiani.
Qualcuno ha fatto inoltre un’analisi impeccabile per quanto riguarda i posti di lavoro che questo circo porterà in dote: elargendo ai cittadini i soldi spesi fin’ora, c’avrebbero guadagnato tutti i lombardi. Senza nemmeno indossare la tuta da lavoro, tra l’altro.
Per il resto ci sarà la solita confusione dove regnerà il tutto ed il niente, un luna park mediatico dove AD, marketing manager e Presidenti del Consiglio misti a chef di lustro televisivo potranno fare bella mostra di sé esaltando prodotti che non cambieranno le sorti dell’umanità ma più probabilmente le casse delle aziende che li producono.
Un primo assaggio lo si è avuto alla Fiera di Erba (Como) con il RistoExpo che in un programma fittissimo ha ospitato i soliti chef di gran nome (…anzi, qualcuno ha visto Davide Scabin per caso?) e le solite aziende disseminate in vari stand espositivi che di innovativo hanno esposto ben poco. Certo si può uscire istruiti da nuove esperienze come l’utilizzo del vapore del ferro da stiro per la cottura delle pietanze che però oltre alla chiacchierata al bar poco può arricchire a livello pratico e professionale.
Il life style milanese capace di elevare in pezzo glamour anche la pannocchia arrostita sicuramente avrà la capacità di illudere i partecipanti di far parte di qualcosa di unico ed inestimabile sovrastimando la merce ma, tolte paillettes e chiffon, rimane ben poco di questa enorme bolla di sapone, ad iniziare dal logo che è stato pensato talmente futuristico che odora di vecchio già adesso. Per non parlare della mascotte che è inquietante… 
Ancora una volta la scarsa lungimiranza, dopo averci illuso e promesso di allietarci con la visione di un celestiale viso sapientemente truccato avvolto in capelli perfettamente acconciati, svelerà il vero volto oscuro senza parrucca, con il mascara cadente da occhi lacrimanti ed il rossetto sbordato. Si sarà consumata l’ennesima commedia alla Totò mentre registi, sceneggiatori, truccatori e parrucchieri si staranno già occupando di aggraziare la mafiosa Italia alle Olimpiadi 2024, beffandosi del futuro e delle nostre belle speranze.
Scusate ma parlare di Expo senza cadere in facili conclusioni ideologiche è praticamente impossibile; d’altronde sarà la vetrina d’Italia nel mondo…
Ascoltiamo troppo il telefono e ascoltiamo troppo poco la natura. Il vento è uno dei miei suoni. Un suono solitario, forse, ma rilassante. Ognuno di noi dovrebbe avere il proprio suono personale e il suo ascolto dovrebbe renderlo euforico e vivo, o silenzioso e tranquillo… È un dato di fatto, uno dei suoni più importanti – e per me il suono per definizione – è il totale, assoluto silenzio.




