Sposarsi in USA

Nelle prime ore del mattino mi trovo nell’ascensore del hotel. Sto scendendo. Lo condivido con due ospiti della stessa struttura con i quali scambio due battute. Deve essere bello andare a correre a Las Vegas a quest’ora, dice un po’ sorpreso uno dei ragazzi. Il campanellino del piano suona, si aprono le porte, saluto ed esco ad allenarmi. Una piccola corsetta per tenermi in forma in vista della maratona di Los Angeles a cui parteciperò tra sei giorni. Mentre percorro la Stewart Ave. mi guardo in giro, ascolto musica, penso che tra qualche ora passerà l’autista a prendere me e M per portarci alla Valley of Fire, il luogo che abbiamo scelto per sposarci. Molte persone hanno ironizzato benevolmente sulla scelta del luogo, magari citando improbabili scene di film in cui il celebrante è un sosia di Elvis e gli sposi sono completamente sfatti; altri hanno probabilmente lasciato libero sfogo a commenti meno amichevoli alle nostre spalle. Fa parte del gioco. D’altronde basta fare una ricerca in rete per avere delle dritte sui documenti necessari per assolvere la parte burocratica in cui si possono leggere poche indicazioni utili ma tanti giudizi ironici a seguire. L’ironia se utilizzata in modo intelligente sta sempre bene ovunque. Se filtriamo con ironia un matrimonio tradizionale in Chiesa, ad esempio, fa sorridere il fatto che il celebrante sia un uomo vestito con la talare e parametri sacri che tanto ricordano il carnevale. L’usanza di prendersi manciate di riso in faccia è stata schernita anche dal regista Francesco Nuti nel film cult Caruso Pascoski di padre polacco. La fascia tricolore indossata dal sindaco non è altrettanto ridicola? Si sta varando una nave o inaugurando un auditorium forse? Queste considerazioni dovrebbero non dico far tacere, ma almeno far riflettere, i provinciali paladini delle verità assolute.
Ciò premesso non nascondo che durante la breve fila che abbiamo fatto il giorno precedente presso il Clark County Marriage License Bureau, l’ufficio di Clark ave. e che ha il compito di rilasciare le licenze matrimoniali, abbiamo notato delle coppie abbastanza singolari e non abbiamo potuto fare a meno di stereotipare sia loro che noi. Torno nella stanza, mi tolgo gli indumenti della corsa ed ho tutto il tempo di farmi una doccia rigenerante e di occuparmi del resto per presentarmi al meglio all’appuntamento. E’ un giorno importante, eppure lo viviamo entrambi abbastanza tranquillamente. Almeno all’apparenza. I nostri vestiti sono appoggiati su uno dei due letti presenti nella camera d’albergo. Arriva la prima email di conferma che l’autista sarebbe arrivato nell’orario prestabilito. Gli americani, popolo dai molti difetti, dal punto di vista organizzativo sono impeccabili.
Cominciano gli ultimi preparativi, ci vestiamo, imbustiamo le poche cose che ci serviranno a completare la serata. Il mio vestito sembra un abito di sartoria confezionato apposta per l’occasione. In effetti è stato scelto appositamente di quel colore e materiale per essere indossato nel deserto. Anche le misure sono fortunatamente perfette. Lei invece l’ha dovuto scegliere all’ultimo momento dato che quello acquistato, neanche farlo apposta in un negozio di Los Angeles, non ha fatto tempo ad arrivare (e mai arriverà). Peccato perché era un bel vestito.
Chissà se un giorno M avrà modo di opinare il fatto che non le abbia dato la possibilità d’indossare un abito da sposa tradizionale. O magari io stesso mi rinfaccerò di non averglielo concesso. Lo meriterebbe sicuramente di più rispetto a certi fenomeni da baraccone che si vedono in giro.
Nell’ascensore dell’albergo il maratoneta ha lasciato spazio a due novelli sposini ed anche gli altri occupanti non sono i due ragazzi della mattina. Incrociamo qualche sguardo, non dicono nulla.
In una provincia dove si svolgono circa trecento matrimoni al giorno l’ultima delle cose che suscita curiosità è quella di vedere due promessi sposi mentre si avviano all’appuntamento. L’autista ci sta aspettando e ci apre le porte della lucida sedan nera dai vetri oscurati.
Durante l’ora e mezza di viaggio che stiamo affrontando io e M riavvolgiamo il nastro che ci ha portato fino a lì; verifichiamo che le promesse che diremo non saranno le stesse. Spesso ci capita di pensare o dire le stesse cose senza volerlo. Ci incoraggiamo e ci togliamo le ultime ansie da prestazione. Lei scopre di aver dimenticato i trucchi in albergo ma è ovviamente troppo tardi per trovare soluzioni alternative. Certo, come ci aveva insegnato un caro amico in Giordania, servisse solo la terra rossa c’è un deserto a disposizione per procurarsela. Peccato che non ci abbia mai svelato i metodi naturali per produrre rossetto e contorno occhi. Se esistono. Il panico, perché per una donna trovarsi senza trucco il giorno del matrimonio è il peggior incubo della vita, svanisce quasi del tutto quando sdrammatizzo dicendole che avrà una storia nella storia da raccontare. Probabilmente evita di mandarmi a fanculo proprio perché è il nostro giorno. Intanto fuori dai finestrini oscurati scorrono le immagini del meraviglioso parco naturale chiamato Valley of Fire, nella provincia di Overton, nello Stato del Nevada.
Ad aspettarci non ci sono genitori, né parenti, né amici, né cerimonie pompose, né pranzi, né orchestre, balli e cene. Ci sono invece la funzionaria ed il fotografo che per l’occasione è anche il testimone. Si fermano a curiosare dei turisti, che assistono parte della cerimonia in rispettoso silenzio e debita distanza.
La giornata è meravigliosa. Il cielo è terso ed il deserto sembra accoglierci sotto la sua protezione consapevole, ne sono convinto, che un altro deserto ci ha fatti incontrare.
Le persone che nascono e vivono in luoghi estremi spesso sono dirette, sincere. Non necessitano di firme e documenti per siglare accordi. Basta una promessa, una stretta di mano. Anche sorseggiare un tè o un caffè assieme sono gesti che ufficializzano delle decisioni importanti.
Io e lei ci teniamo per mano, ci guardiamo, approviamo le significative parole della celebrante e poi pronunciamo gli vow. In inglese, per rispettare le regole del Nevada ed in italiano, perché è la lingua che utilizziamo per comunicare tra noi. Penso che in prima superiore avevo il tre in inglese – e mezzo d’incoraggiamento diceva la mia prof – e mi fa sorridere il fatto che adesso faccia uso della lingua anglosassone quasi quotidianamente per lavoro ed ora per siglare questo legame. Ma quel mezzo d’incoraggiamento mi fa ancora incazzare.
Intanto solo l’ampiezza del deserto può contenere il vuoto delle persone che realmente avrei voluto fossero presenti. Le sento vicine.
Nelle mie promesse uso la parola normalità. Dico ad M che molti ci vedono come anormali. Forse siamo anormali a celebrare il matrimonio in un luogo così lontano, ad incominciare dalle nove ore di fuso orario che ci separano da chi da casa non potrà assistere. Anormali perché non abbiamo messo in moto tutto l’impianto organizzativo che contraddistingue le così dette persone normali. Per me, le dico, l’unica cosa anormale è non esserci sposati prima.
Ci scambiamo gli anelli e siamo entrambi un po’ commossi.
Se qualcuno m’avesse chiesto tempo fa di descrivere un ipotetico matrimonio non avrei mai immaginato una scena simile a quella che sto vivendo. Forse per questo è passato tutto questo tempo prima che io pronunci il sì. Ciò che per gli altri è normale per me è limitante. Ho deciso di sposare M anche per questo motivo. Ha sempre accettato il mio stile di vita e non solo: ha deciso di salire a bordo e di intraprendere questo meraviglioso viaggio alla scoperta del mondo e della vita assieme a me.
Gli spazi infiniti del deserto e del territorio americano ci ricordano quanto inutile sia piantare paletti attorno alle nostre poche sicurezze e convinzioni. In fin dei conti cosa ci offre la normalità? Una fastidiosa percezione di vincoli e rigidità limitanti e, a vederci bene, inutili al nostro benessere. La normalità è in fondo quella cosa che nei musei ci obbliga a stare in fila ed osservare a debita distanza quelli che reputiamo capolavori eseguiti da artisti che hanno aperto le porte della loro vita alla stravaganza, alla ricerca, alla curiosità, all’anticonformismo. I normali queste persone li chiamiamo geni.
Se anche queste persone avessero seguito il vociare, la massa, la critica, oggi saremmo orfani di chissà quante opere.
Magari anche di questo matrimonio che, almeno noi, consideriamo un nostro piccolo capolavoro.
La normalità è conformità alle aspettative collettive.
Robert Maynard Pirsig