La Mezza Maratona di Torremolinos
Visto il percorso non proprio velocissimo e la modesta dimensione della località balneare spagnola, la mezza maratona di Torremolinos è da considerarsi una di quelle gare di seconda, terza fascia.
Abbastanza comodamente raggiungibile dalla vicina Malaga la gara si corre i primi di febbraio e può essere usata come test di allenamento in vista delle più rinomate mezze o maratone di aprile.
Nonostante il mese invernale in cui si svolge il clima è abbastanza mite ed adatto alla corsa. Discreta l’affluenza di pubblico, sempre partecipativo come avviene abitualmente in Spagna, anche se la manifestazione attrae principalmente e quasi esclusivamente atleti, corridori ed addetti ai lavori più che gente comune.
Gli stranieri più presenti sicuramente gli inglesi che si presentano al via con numerosi gruppi organizzati.
La partenza avviene presso la pista di atletica dello stadio comunale di Torremolinos dove i più veloci devono sgomitare un po’ per posizionarsi nelle prime file che consentono loro di non essere rallentati. Essendo una competizione non troppo partecipata chiaramente non sono predisposti wave, quindi chi prima arriva meglio alloggia. Almeno così dovrebbe essere perché anche alla partenza delle gare podistiche c’è sempre chi cerca di infrangere le regole della fisica impegnandosi nella difficile impresa di oltrepassare i corpi solidi che interferiscono tra lui ed il nastro del via.
Prima di recarmi sul posto ho cercato filmati o informazioni riguardanti il tracciato con l’intenzione di preparare una strategia di gara, ma non ho trovato nulla. Preferendo risiedere a Malaga anziché Torremolinos, non ho avuto modo di testare nemmeno parte delle strade che avrei dovuto affrontare. Il fattore sorpresa non aiuta certamente, sia nella strategia di gara che mentalmente.
Già alla prima curva usciti dallo stadio un disguido: una strettoia che costringe la maggior parte dei corridori a rallentare a tal punto da camminare. Ecco il perché in molti hanno spintonato alla partenza per garantirsi la prima fila.
Dopo questo intoppo parte il pendio. Una prima parte di mezza maratona velocissima dove, prendendo di riferimento anche la condotta di gara di alcuni locali, ho usato il freno per cercare di non disperdere tutte le energie in discese forsennate ed in attesa di ciò che mi sarebbe aspettato in seguito.
Sbagliato.
Nella parte centrale, quella visivamente più attraente con un passaggio sul lungomare e completamente piatta, mi sono accodato con non troppa disinvoltura, ad una ragazza dai tempi ben lontani di quelli del mio personal che resiste ancora da quel di Bonn e che nel mondo della mia fantasia avrei voluto battere a Torremolinos. Il cronometro diceva che la nostra andatura era da maratona più che da mezza. Lentissimi.
Strategia sbagliata nuovamente.
Solo all’ultimo tornante prima di entrare nella terza fase di gara ho cominciato a correre nelle mie possibilità ed ho guadagnato metri su metri sulla ragazza alla quale avevo tenuto la scia e che mi aveva fatto perdere molto tempo. L’ultima parte di gara ripresenta tutte le discese affrontate all’inizio sotto forma di salite ovviamente. Quindi, vero è che risparmiare energie serve a superare queste insidiose pendenze, vero è anche che essendo il sottoscritto allenato per la maratona, in salita avrei fatto più o meno gli stessi tempi con o senza energie da spendere. Quindi la tattica migliore sarebbe stata quella di tirare come un pazzo nelle prime due parti di gara e mantenere un ritmo lento costante nei chilometri finali.
Fatto sta che questa mezza maratona è stata archiviata con un tempo insoddisfacente ed un’esperienza in più da raccontare.
Per quanto riguarda il discorso gadget, sponsor ed organizzazione non si sono risparmiati con una caratteristica e variopinta medaglia finale, una t shirt tecnica ed un telo mare. Tanto per completezza di informazione, non che la scelta delle gare ricada sulla qualità o l’abbondanza dei gadget chiaramente.
Avete appena letto il resoconto di un consapevole podista amatoriale senior dalle irrilevanti tempistiche, quindi prendete le mie informazioni come spunti per le vostre future esperienze. Dei primi obiettivi da raggiungere se siete principianti alle prime armi oppure con pietà e tenerezza se siete professionisti o giovani fuoriclasse.
Malaga. Problemi di cuore
Stavo affrontando l’imperiosa salita che mi avrebbe fatto raggiungere il Castello di Gibralfaro. La giacca che indossavo risultava inadatta alla giornata calda e soleggiata così che dopo un centinaio di metri, infatti, la tolsi. Man mano che salivo si aprivano nuovi scorci e la vista della città dall’alto si faceva sempre più emozionante. Feci una prima sosta presso un punto panoramico lungo la muraglia. Avevo già individuato il teatro romano ai piedi dell’Alcazaba; lì fumai una sigaretta, scattai alcune foto e ripresi la salita.
Non sono mai stato un gran sportivo e quella passeggiata lo evidenziava ulteriormente.
Incontrai altri turisti lungo il cammino. Le coppie anziane mi fanno sempre tenerezza; di loro invidio la complicità e la caparbietà con la quale esplorano il mondo. Spesso calzano scarpe della stessa marca; significa che gli acquisti vengono decisi assieme. Poi c’è uno dei due che ha da lamentarsi dell’altro. Borbottano frasi comprensibili solo a loro e così anche il linguaggio che utilizzano è un’ esclusività di coppia.
Venni sfiorato da un corridore che vestito in maglietta e pantaloncini tecnici sembrava pratico di quella strada. Stava salendo piuttosto disinvolto e, a differenza mia, era notevolmente allenato. Infatti sparì dalla mia vista dopo pochi secondi.
Il caldo aumentò ed il mio respiro divenne affannoso. La stanchezza cominciava a farsi sentire più che sulle gambe, nel petto. Avevo cominciato a respirare faticosamente e quindi mi fermai ancora una volta. Sedetti sul muretto medievale al Belvedere di Gibralfaro. Sorseggiai un po’ d’acqua e guardai ancora una volta il paesaggio che offriva Malaga. Rinunciai alla sigaretta e maledii il mio vizio . La linea blu del mare contrastava con l’azzurro del cielo. Una grossa nave bianca di tanto in tanto suonava la sirena per avvisare l’equipaggio che da lì a poco sarebbe salpata. Le città sul porto le ho sempre considerate le più affascinanti in assoluto perché mi trasmettono un impagabile senso di libertà.
Lentamente passò al mio fianco anche una famiglia di persone distinte. I due coniugi parlavano in arabo mentre i figli, almeno sembrava lo fossero, si rincorrevano scherzosamente intorno a loro schiamazzando in spagnolo. Il padre, un signore alto e robusto, con un cenno fermò uno dei due ragazzini riportandolo alla calma. La sua consorte era silenziosa e minuta, portava il chador e sembrava abbastanza più giovane di lui.
Proseguì il mio cammino a qualche passo di distanza da quella famiglia.
Il corridore mi sfiorò nuovamente mentre affrontava la discesa come una furia.
Una volta faticosamente raggiunto il traguardo, ossia l’interno delle mura del castello di Gibralfaro non persi tempo nel riammirare Malaga e tutto ciò che aveva da offrire. La cosa più evidente da quella posizione era la Plaza de Toros, conosciuta come Malagueta e costruita nel 1847. In quel luogo così crudele ed arido anche l’artista per eccellenza Pablo Picasso prese spunto per molte delle sue opere tra cui la tauromachia. Sarei andato a far visita anche al museo a lui dedicato, magari nel pomeriggio. Il vento mi spense più volte la fiamma dell’accendino prima che potessi godermi finalmente anche la mia meritata sigaretta.
Non prestavo più attenzione al respiro affannoso e da qualche decina di minuti si era anche acutizzato un dolore al petto ed al braccio sinistro. La colpa era di quella maledetta salita e di me idiota non più abituato a fare sforzi prolungati.
Decisi che era meglio entrare per qualche attimo all’interno del museo. L’ingresso era gratuito e la stanza era decisamente più fresca rispetto alla temperatura esterna.
Ricordo d’aver osservato con cura la divisa militare risalente al 1800 ed indossata da un manichino.
Poi il buio.
Mi risvegliai non so quanto tempo dopo e la prima figura che si materializzò davanti a me era quella del padre di famiglia con cui avevo condiviso parte della camminata. Man mano che passavano i secondi realizzavo sempre più quello che capitava intorno a me. Le sagome si facevano più nitide. Quell’uomo mi stava tenendo il braccio destro e misurando il battito cardiaco mentre io vedevo la stanza di un soffitto. Chiesi dov’ero e mi venne intimato in non so quale e quante lingue di starmene tranquillo. Attorno a noi c’era un gruppetto di persone che ci accerchiavano ad una certa distanza. Potevo riconoscere anche la moglie del signore che mi stava prestando soccorso mentre teneva per mano i due bambini. Il più piccolo la guardava di tanto in tanto alla ricerca di qualche spiegazione su ciò che stava accadendo. Poi le sirene di un’ambulanza e nuovamente uno stato confusionale che non mi permise di ricordare altro.
Dopo una serie interminabile di esami finalmente riuscì ad avere un colloquio con un medico che qualche parola di italiano la parlava anche, così che non fu troppo arduo capire la diagnosi, facilmente intuibile anche per un comune mortale come me: si trattava di infarto.
Il giovane e gesticolante dottore dal candido camice bianco mi comunicò che ero stato parecchio fortunato ad essere stato immediatamente soccorso da una persona competente. Personalmente ricordavo l’accaduto in modo piuttosto frammentato e confuso, quando d’un tratto mi venne in mente l’immagine della prima persona che vidi da sdraiato una volta riaperti gli occhi. Era quel omone che avevo seguito durante la salita al castello. Mi venne detto che era un cardiologo molto noto in città, così che mi fu facile recuperare il suo indirizzo se non altro per ringraziarlo del suo operato.
Così feci e lo contattai qualche giorno dopo, una volta dimesso dall’ospedale. Al numero dello studio rispose una ragazza con un timido timbro della voce ed estrema pacatezza. Parlava molto bene l’inglese, cosa che non mi favoriva minimamente. Provò a comunicare in spagnolo, ma la lingua che a noi italiani sembra così simile e facile da capire, al telefono risultava impossibile da decifrare. Decisi quindi di recarmi personalmente nell’ambulatorio medico del mio salvatore. Il rosso sole infuocato di un tramonto mozzafiato rifletteva le lucenti sfumature sulla targa dorata con inciso il nome del cardiologo, come indicato chiaramente dalla dicitura. Nome di origine araba, non certo spagnola. Una volta entrato dovetti aspettare qualche istante prima di poterlo incontrare. Riconobbi la donna silenziosa e minuta che mi fece accomodare in sala d’attesa. Mi sorrise educatamente.
Stavo osservando i quadri e delle riviste mediche quando sentì un braccio avvolgermi le spalle.
“Allora come va? Passato lo spavento?”
“Dottore, non so come ringraziarla” risposi sorpreso nel rivedere il mio soccorritore. Lui sorrise mentre io continuai abbastanza imbarazzato “davvero, non vorrei offenderla ma se posso offrirle qualcosa, fare qualcosa per lei”
Ricevetti un’altra risposta spiazzante “Per me non serve che faccia niente grazie, piuttosto è per lei che dovrebbe fare qualcosa”
Intanto non feci caso che stavamo parlando la stessa lingua. “Ma lei dottore parla l’italiano…”
“Dai usciamo da qua” disse “andiamo a bere qualcosina qui alla cerveceria difronte. Sono chiuso qua dentro tutto il giorno. Sì, parlo un po’ di italiano perché ho fatto dei corsi di aggiornamenti in Italia.”
Si rivolse in arabo alla ragazza che rimase nello studio e ci chiuse la porta una volta usciti noi due.
“Parla arabo con la… signorina. L’arabo invece? Dal nome sull’insegna si direbbe…”
“Signora. Lei è mia moglie. Arriviamo dalla Siria. Siamo degli sfortunati siriani”
Le mie domande non lasciavano spazio a quelle riguardanti il sottoscritto. Erano a senso unico. Magari a lui nemmeno interessava più di tanto sapere chi fossi e cosa facessi a Malaga. Del mio eroe volevo invece sapere tutto.
Ci sedemmo e dopo mille altri ringraziamenti il discorso si fece un po’ meno formale. Ad un certo punto della conversazione si rivolse a me con tono severo “Scusi se mi permetto, ma quello che è successo non deve ripetersi. Questa volta è andata bene ma dovrà riguardarsi di più in futuro. Non è un campanellino d’allarme questo, questi sono i rintocchi di un campanile” Avevo già sentito le prediche diverse volte e glielo dissi in modo scherzoso “L’alcool da ridurre, il fumo da evitare, i grassi e gli zuccheri… Dottore di qualcosa si dovrà pur morire prima o poi!” Sul suo viso non comparve nessun cenno di compiacimento. Anzi, tutt’altro. “Lei può scegliere se aumentare le probabilità di morire di vecchiaia serenamente durante il sonno nel suo letto o in quello di un ospedale attaccato ad una bombola d’ossigeno fino a che nemmeno le macchine potranno garantirle gli ultimi respiri. In un caso o nell’altro morirà comunque, ma io preferirei farlo nel letto di casa mia”
Era piacevole parlare con lui. Mi raccontò molti aneddoti su Malaga e sulle opere esposte al museo Picasso. Imperversava anche il periodo del carnevale e mi invitò a partecipare alla festa che si sarebbe tenuta il giorno seguente tra le vie della città e culminante nella Plaza de la Merced. Trovò anche il tempo per raccontarmi sprazzi della sua vita. Aveva studiato in Siria ma fu costretto a scappare a causa della guerra “La mia casa è ancora in piedi e tra i miei familiari solo degli zii sono rimasti uccisi dai bombardamenti” mi disse cercando di velare la commozione “Ma anche se la nostra casa ha resistito il resto della città è annientato. Gli edifici sono crollati, le strade sono impraticabili, mancano i beni di prima necessità… Come facevamo a vivere così?” Continuò “Io e mia moglie, all’epoca non avevamo figli, abbiamo deciso di andarcene. A lei manca qualche esame per laurearsi in medicina ma ha dovuto abbandonare l’Università” Non mi sembrava il caso di aggiungere altro, lo fece lui “Abbiamo provato ad arrivare in Italia ma ci sono state chiuse le porte in faccia. Chissà, magari le aprono solo a quelli che si presentano sulle barche o sui gommoni. La Germania invece vista la mia laurea ci ha accolti a braccia aperte. Però al freddo ed alla pioggia ho preferito il mare. Così eccoci qui”
Accidenti, pensai. Questa esperienza la devo trascrivere da qualche parte. Davvero incredibile.
Ci salutammo con la promessa che sarei ripassato a trovarlo e avremmo rifatto assieme la salita del castello.
Fu la madre dell’uomo a trovare questo scritto tra le pagine di un quadernetto. Il vizio del fumo l’aveva accompagnato fino a quando il cuore decise che poteva bastare. La luce si spense dopo due interminabili giorni e due interminabili notti di faticosi e dolorosi respiri.
Non sappiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi.
(Tito Livio)
La differenza è la passione
Giorni fa, confrontandomi con degli agenti di viaggio, ho sostenuto quanto sia importante il fattore passione nel pacchetto viaggio. Ossia di come, sempre a mio avviso, non basti la sola componente materiale a rendere la struttura piacevole agli ospiti.
La passione è quel elemento che induce il personale degli alberghi a rendere i nostri giorni di permanenza piacevoli e quello della partenza malinconico. Il fattore umano.
Personalmente ho ricordi da bambino di camerieri particolarmente affettuosi e passionali nel loro lavoro. Di una in particolare ricordo ancora il nome e parliamo di una fugace settimana vacanziera di trentacinque anni fa quando io ne avrò avuti sì e no dieci. La battuta al momento giusto, il sorriso, la cortesia, la professionalità… Quel effetto warm che scalda appunto gli ambienti. Certo c’è chi preferisce l’ambiente asettico degli hotel 5 stelle lusso dove il personale deve impermeabilizzarsi e stare a debita distanza dal cliente senza quasi rivolgergli lo sguardo; eppure anche questa tipologia di clientela sofisticata è attratta dalla personalità degli impiegati più passionali. Ci scambia qualche confidenza, osa chiedere qualcosa di eccezionale.
Ai collaboratori più giovani cerco sempre di trasmettere i valori che mi furono insegnati: rispetto, cortesia, disponibilità. Componenti base per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Ribadisco però che per fare il salto di qualità ed ingranare la marcia in più rispetto a chi decide di navigare a vista è metterci la passione.
Dal mio punto di vista è anche la chiave per capire se siamo sulla strada giusta o meno. Se la mattina ci alziamo con fatica per andare al lavoro, senza entusiasmo ed uno sforzo mentale tale da mal digerirlo significa che quel impiego non ci stimola a tal punto da appassionarci. La stessa persona troverà in altre attività campo fertile dove alimentare le proprie passioni. Un personal trainer mentre frequentavo una palestra sostenne che ero pigro nel fare gli esercizi. Vero, perché la palestra non mi ha mai appassionato. Una delle prime cose a cui ho pensato quando ho tagliato il traguardo della mia prima maratona è stata: meno male che ero io quello pigro. Per essere maratoneti, oltre che masochisti, bisogna essere passionali.
Però, come volevasi dimostrare, mi è bastato cambiare attività per trovare dentro di me forze che mai sospettavo di avere.
Passione significa anche credibilità. Se non crediamo a noi stessi ed a quello che diciamo sarà impossibile convincere qualcun altro. I più abili venditori ci mettono sempre passione in quello che fanno tanto da autoconvincersi che ciò che stanno vendendo è bellissimo, indispensabile, fuori dal comune. Chissà quanti di noi hanno nei cassetti qualche oggetto completamente inutile utilizzato forse una volta che ci è stato abilmente rifilato da qualche venditore che ci ha incantato con le sue filastrocche.
Questo blog agli occhi di molti, spero non tutti, sembrerà una stupidaggine o qualcosa di superfluo. Ma che senso ha tutto questo se non ci guadagni? Nessuno però, vedendo le copertine, le foto, i filmati, leggendo le storie, potrà dire che non ci metto passione. Altrimenti tutto ciò non potrebbe esistere. Scrittura, fotografia, grafica, marketing, viaggi: queste sono le mie passioni ed alcune, fortunatamente, fanno parte o servono a svolgere il mio lavoro. Altre passioni, come la corsa, mi hanno offerto ulteriori sbocchi lavorativi.
Insomma, solo la passione può togliere l’insipidità delle cose.
In ogni attività la passione toglie gran parte della difficoltà.
(Erasmo da Rotterdam)
La Mezza Maratona di Rodi
E’ domenica mentre scrivo questo post e sono passati 7 giorni esatti dalla gara; ma oggi a differenza della settimana trascorsa piove e c’è un temporale mattutino.
Quel 29 aprile 2018 alle 6:45, quando già ero praticamente arrivato nella zona adibita a partenza, il sole aveva fatto la sua prima comparsa in maniera piuttosto decisa e spavalda. L’alba rossastra che in veste di fotografo mi avrebbe regalato molte soddisfazioni, in quella di maratoneta mi stava preoccupando e non poco.
La partenza della mezza maratona, cui avrei partecipato e della maratona, cui avrei curiosato, era stabilita alle 7:30.
Conoscendo molto bene l’isola avevo percepito che sarebbe stata una gara che avremmo corso con un ospite invadente e fiaccante: il sole. Così è stato.
Personalmente ho spinto al massimo all’inizio cercando di emulare i tempi del mio personal best e cercando di accumulare un margine decente per poi affrontare da lì a poco le temperature proibitive della competizione che inevitabilmente mi avrebbero rallentato un bel pò. Tattica completamente sbagliata perché al 15K arrancavo pesantemente con la testa che mi chiedeva di sdraiarmi all’ombra di un albero a sorseggiare una fresca limonata anziché proseguire spremendo la viscida, appiccicosa ed indigesta bustina di gel energetico. L’ultimo barlume di dignità, visto il tempo degno di un over 70, è stato quello di decidere di portare a termine l’impegno, con il morale chiuso per momentanea demolizione.
Ad ogni metro mancante ho pesantemente maledetto l’organizzazione ed i greci tutti, rei a mio avviso, d’averci fatto correre in quelle condizioni estreme. Pensare che ho sempre sognato una partenza almeno tiepida; in tutte le gare officiali finora corse ho sempre battuto i denti dal freddo prima del via. In Vietnam pure all’arrivo.
Ovviamente negli altri casi la pistola non ha mai esploso il suo colpo a salve dopo le 7:00 che io ricordi.
Fatto sta che se la distanza della mezza maratona è diciamo facilmente concludibile e sostenibile, lo stesso non si può dire della maratona. Lasciando stare i tempi assolutamente irrilevanti di praticamente tutti i partecipanti, almeno sulla carta, ho davvero ammirato gli impavidi che hanno terminato la 42K. Chi addirittura ha “corso” oltre le 6 ore sotto un sadico sole estivo stra-selettivo. Personalmente non l’avrei finita.
Ulteriore difficoltà il fatto che il percorso presenta dislivelli piuttosto impegnativi da affrontare fisicamente ed oltretutto essendo circuito, a mio avviso, vieni devastato mentalmente. Quando giunto a pochi metri dal mio traguardo ho svoltato a destra seguendo l’indicazione mezza maratona ed ho visto chi mi precedeva proseguire nella corsia parallela pronto a rifarsi un altro giro ho letteralmente pensato “poraccio”.
L’idea di dover ricalcare i passi fatti e ripetere l’esperienza poc’anzi vissuta deve essere davvero sconvolgente.
Dulcis in fundo aggiungiamo pure la scarsa partecipazione di pubblico. Quasi completamente assente per tutto il tragitto e colorata dalle magliette blu dei meravigliosi ragazzi volontari all’arrivo e che hanno prestato assistenza anche nei punti di ristoro. Correre senza spinta, come a me già successo alla Halong Bay Marathon in Vietnam, oltre ad essere triste è un buon pretesto per pregiudicare gara e risultato.
Certo, Rodi non è New York, ci mancherebbe. Anche la scarsa qualità ed assenza di design della medaglia ce lo ricorderà per sempre.
Suggerivo tempo fa di trascorrere qualche giorno delle proprie ferie a Rodi (Grecia) e di approfittarne per partecipare alle gare di varia distanza che si svolgono qui ad aprile. La partecipazione di molti stranieri, per lo più turisti inglesi, ha confermato che non mi sbagliavo più di tanto, anche se con un po’ di esperienza accumulata, il consiglio si riduce a chi non ripone troppe aspettative nella manifestazione locale per la serie di fattori sopra indicati. Il vincitore della maratona, ad esempio, non ne aveva mai corso una in precedenza e dubito che se avesse partecipato a quelle di Londra o Berlino, per dire, sarebbe salito sul podio. Forse sarebbe arrivato tra i primi 100. Ma i se ed i ma sono il paradiso dei coglioni, come si dice. Il senso è che chi è alla ricerca di vere soddisfazioni si confronta con i migliori, chi invece di trofei da appoggiare sopra il caminetto si accontenta di gare meno pretenziose. Morale della favola bravissimo lui e chi lo ha preceduto perché, ripeto, solo finire la 42K di Rodi in quelle condizioni è veramente da medaglia d’oro.
Meritano una doverosa citazione anche i partecipanti della 10K e 5K che, udite udite, sono partiti alle 12:30. Orario in cui pure i gatti dormono abbracciati ai topi. Come far odiare la corsa ai principianti.
Dopo le tante 10K e questa mezza, riuscirà l’organizzazione ellenica ad appiccicare un altro bib sulla mia bella canotta? Al momento mi han fatto passare la voglia di partecipare alle competizioni paesane e limitarmi a quelle meglio organizzate. Staremo a vedere.
Se ce la metto tutta, non posso perdere. Forse non vincerò una medaglia d’oro, ma sicuramente vinco la mia battaglia personale. È tutto qui.
Sposarsi in USA
Nelle prime ore del mattino mi trovo nell’ascensore del hotel. Sto scendendo. Lo condivido con due ospiti della stessa struttura con i quali scambio due battute. Deve essere bello andare a correre a Las Vegas a quest’ora, dice un po’ sorpreso uno dei ragazzi. Il campanellino del piano suona, si aprono le porte, saluto ed esco ad allenarmi. Una piccola corsetta per tenermi in forma in vista della maratona di Los Angeles a cui parteciperò tra sei giorni. Mentre percorro la Stewart Ave. mi guardo in giro, ascolto musica, penso che tra qualche ora passerà l’autista a prendere me e M per portarci alla Valley of Fire, il luogo che abbiamo scelto per sposarci. Molte persone hanno ironizzato benevolmente sulla scelta del luogo, magari citando improbabili scene di film in cui il celebrante è un sosia di Elvis e gli sposi sono completamente sfatti; altri hanno probabilmente lasciato libero sfogo a commenti meno amichevoli alle nostre spalle. Fa parte del gioco. D’altronde basta fare una ricerca in rete per avere delle dritte sui documenti necessari per assolvere la parte burocratica in cui si possono leggere poche indicazioni utili ma tanti giudizi ironici a seguire. L’ironia se utilizzata in modo intelligente sta sempre bene ovunque. Se filtriamo con ironia un matrimonio tradizionale in Chiesa, ad esempio, fa sorridere il fatto che il celebrante sia un uomo vestito con la talare e parametri sacri che tanto ricordano il carnevale. L’usanza di prendersi manciate di riso in faccia è stata schernita anche dal regista Francesco Nuti nel film cult Caruso Pascoski di padre polacco. La fascia tricolore indossata dal sindaco non è altrettanto ridicola? Si sta varando una nave o inaugurando un auditorium forse? Queste considerazioni dovrebbero non dico far tacere, ma almeno far riflettere, i provinciali paladini delle verità assolute.
Ciò premesso non nascondo che durante la breve fila che abbiamo fatto il giorno precedente presso il Clark County Marriage License Bureau, l’ufficio di Clark ave. e che ha il compito di rilasciare le licenze matrimoniali, abbiamo notato delle coppie abbastanza singolari e non abbiamo potuto fare a meno di stereotipare sia loro che noi. Torno nella stanza, mi tolgo gli indumenti della corsa ed ho tutto il tempo di farmi una doccia rigenerante e di occuparmi del resto per presentarmi al meglio all’appuntamento. E’ un giorno importante, eppure lo viviamo entrambi abbastanza tranquillamente. Almeno all’apparenza. I nostri vestiti sono appoggiati su uno dei due letti presenti nella camera d’albergo. Arriva la prima email di conferma che l’autista sarebbe arrivato nell’orario prestabilito. Gli americani, popolo dai molti difetti, dal punto di vista organizzativo sono impeccabili.
Cominciano gli ultimi preparativi, ci vestiamo, imbustiamo le poche cose che ci serviranno a completare la serata. Il mio vestito sembra un abito di sartoria confezionato apposta per l’occasione. In effetti è stato scelto appositamente di quel colore e materiale per essere indossato nel deserto. Anche le misure sono fortunatamente perfette. Lei invece l’ha dovuto scegliere all’ultimo momento dato che quello acquistato, neanche farlo apposta in un negozio di Los Angeles, non ha fatto tempo ad arrivare (e mai arriverà). Peccato perché era un bel vestito.
Chissà se un giorno M avrà modo di opinare il fatto che non le abbia dato la possibilità d’indossare un abito da sposa tradizionale. O magari io stesso mi rinfaccerò di non averglielo concesso. Lo meriterebbe sicuramente di più rispetto a certi fenomeni da baraccone che si vedono in giro.
Nell’ascensore dell’albergo il maratoneta ha lasciato spazio a due novelli sposini ed anche gli altri occupanti non sono i due ragazzi della mattina. Incrociamo qualche sguardo, non dicono nulla.
In una provincia dove si svolgono circa trecento matrimoni al giorno l’ultima delle cose che suscita curiosità è quella di vedere due promessi sposi mentre si avviano all’appuntamento. L’autista ci sta aspettando e ci apre le porte della lucida sedan nera dai vetri oscurati.
Durante l’ora e mezza di viaggio che stiamo affrontando io e M riavvolgiamo il nastro che ci ha portato fino a lì; verifichiamo che le promesse che diremo non saranno le stesse. Spesso ci capita di pensare o dire le stesse cose senza volerlo. Ci incoraggiamo e ci togliamo le ultime ansie da prestazione. Lei scopre di aver dimenticato i trucchi in albergo ma è ovviamente troppo tardi per trovare soluzioni alternative. Certo, come ci aveva insegnato un caro amico in Giordania, servisse solo la terra rossa c’è un deserto a disposizione per procurarsela. Peccato che non ci abbia mai svelato i metodi naturali per produrre rossetto e contorno occhi. Se esistono. Il panico, perché per una donna trovarsi senza trucco il giorno del matrimonio è il peggior incubo della vita, svanisce quasi del tutto quando sdrammatizzo dicendole che avrà una storia nella storia da raccontare. Probabilmente evita di mandarmi a fanculo proprio perché è il nostro giorno. Intanto fuori dai finestrini oscurati scorrono le immagini del meraviglioso parco naturale chiamato Valley of Fire, nella provincia di Overton, nello Stato del Nevada.
Ad aspettarci non ci sono genitori, né parenti, né amici, né cerimonie pompose, né pranzi, né orchestre, balli e cene. Ci sono invece la funzionaria ed il fotografo che per l’occasione è anche il testimone. Si fermano a curiosare dei turisti, che assistono parte della cerimonia in rispettoso silenzio e debita distanza.
La giornata è meravigliosa. Il cielo è terso ed il deserto sembra accoglierci sotto la sua protezione consapevole, ne sono convinto, che un altro deserto ci ha fatti incontrare.
Le persone che nascono e vivono in luoghi estremi spesso sono dirette, sincere. Non necessitano di firme e documenti per siglare accordi. Basta una promessa, una stretta di mano. Anche sorseggiare un tè o un caffè assieme sono gesti che ufficializzano delle decisioni importanti.
Io e lei ci teniamo per mano, ci guardiamo, approviamo le significative parole della celebrante e poi pronunciamo gli vow. In inglese, per rispettare le regole del Nevada ed in italiano, perché è la lingua che utilizziamo per comunicare tra noi. Penso che in prima superiore avevo il tre in inglese – e mezzo d’incoraggiamento diceva la mia prof – e mi fa sorridere il fatto che adesso faccia uso della lingua anglosassone quasi quotidianamente per lavoro ed ora per siglare questo legame. Ma quel mezzo d’incoraggiamento mi fa ancora incazzare.
Intanto solo l’ampiezza del deserto può contenere il vuoto delle persone che realmente avrei voluto fossero presenti. Le sento vicine.
Nelle mie promesse uso la parola normalità. Dico ad M che molti ci vedono come anormali. Forse siamo anormali a celebrare il matrimonio in un luogo così lontano, ad incominciare dalle nove ore di fuso orario che ci separano da chi da casa non potrà assistere. Anormali perché non abbiamo messo in moto tutto l’impianto organizzativo che contraddistingue le così dette persone normali. Per me, le dico, l’unica cosa anormale è non esserci sposati prima.
Ci scambiamo gli anelli e siamo entrambi un po’ commossi.
Se qualcuno m’avesse chiesto tempo fa di descrivere un ipotetico matrimonio non avrei mai immaginato una scena simile a quella che sto vivendo. Forse per questo è passato tutto questo tempo prima che io pronunci il sì. Ciò che per gli altri è normale per me è limitante. Ho deciso di sposare M anche per questo motivo. Ha sempre accettato il mio stile di vita e non solo: ha deciso di salire a bordo e di intraprendere questo meraviglioso viaggio alla scoperta del mondo e della vita assieme a me.
Gli spazi infiniti del deserto e del territorio americano ci ricordano quanto inutile sia piantare paletti attorno alle nostre poche sicurezze e convinzioni. In fin dei conti cosa ci offre la normalità? Una fastidiosa percezione di vincoli e rigidità limitanti e, a vederci bene, inutili al nostro benessere. La normalità è in fondo quella cosa che nei musei ci obbliga a stare in fila ed osservare a debita distanza quelli che reputiamo capolavori eseguiti da artisti che hanno aperto le porte della loro vita alla stravaganza, alla ricerca, alla curiosità, all’anticonformismo. I normali queste persone li chiamiamo geni.
Se anche queste persone avessero seguito il vociare, la massa, la critica, oggi saremmo orfani di chissà quante opere.
Magari anche di questo matrimonio che, almeno noi, consideriamo un nostro piccolo capolavoro.
La normalità è conformità alle aspettative collettive.
Robert Maynard Pirsig





























