Lago di Como: l’abitudine alla ricchezza
Oltre all’azzurro del lago c’è un altro colore che riflette accecante nella mia memoria quando penso all’infanzia: il bianco.
Non è riferito a nessun luogo, bensì al colore dei pantaloni che mia madre si ostinava a farmi indossare quasi ad obbligarmi ad osservare le regole dello stare attento, del non macchiarmi. Dipendesse da me proibirei di produrre capi d’abbigliamento bianchi per bambini.
Ardua l’impresa di non macchiarli sedendosi sulle lavorate sedie di ferro, anch’esse bianche, del gazebo nel giardino della villa sul lago; sforzi vanificati durante i rari momenti di contatto con la mia sorellina che altro non poteva fare, come tutti i bambini più piccoli d’altro canto, di impiastricciarsi le mani con qualsiasi materia terrosa o liquida presente nella circonferenza delineata dalla sua larga gonna; la faceva sembrare una bambolina curiosa dalle movenze incerte. Mia madre la piazzava ferma e seduta sul prato. Giocavano con le margherite che spuntavano a centinaia nel giardino dai fili d’erba maniacalmente regolari come in tutti i migliori parchi del circondario. La piccola sorrideva ad ogni soffio di mia madre al quale corrispondeva una silenziosa esplosione di un tarassaco; il fiore chiamato volgarmente soffione per intenderci.
Non posso dire che mio padre non sia stato presente nella famiglia, anzi. Il suo apparente distacco era dovuto ai continui incontri di lavoro che spesso avvenivano proprio tra le stanze della nostra enorme dimora. Nei ricordi, sta chiacchierando con un altro uomo mentre sorseggiano una bevanda rossastra con una fetta d’arancio al bordo della piscina. Magari sarà stato un Campari, un Negroni o che so io.
Era vestito in modo sportivo, ricercato, principalmente di bianco. Pure lui come me. Forse l’adorazione di mia madre per quel uomo inconsciamente la spingeva a vestirmi seguendo il suo stile. Non so se per far felice lui o indirizzare me a seguirne le orme.
Spesso mi ritiravo a cogliere i luminosi fotogrammi della mia famiglia dal molo dove era ormeggiato il nostro Riva. Adoravo quel motoscafo. Il suo legno, le sue cromature, l’odore della pelle dei sedili. Mi ci sedevo e sognavo ad occhi aperti di pilotarlo attraverso le onde del lago. Fantasticavo di raggiungere Varenna, sull’altra sponda. O Bellagio. Di queste cittadine scorgevo le luci dalla mia camera che era stata ricavata nel sottotetto della villa. All’epoca non sospettavo minimamente che la metratura della mia cameretta avrebbe potuto accogliere tranquillamente un’intera famiglia di quattro persone. Non appena mia sorella diventò abbastanza grande da poter dormire da sola, la camera fu divisa in due senza che io me ne accorgessi praticamente. Ascoltavo i racconti dei domestici per i quali dimostravo ammirazione. Erano portatori di storie venute da fuori. Fuori dalla villa c’era chi viveva diversamente da me o almeno così mi raccontavano loro. Tra le labbra della servitù le storie vibravano e prendevano forma; venivano spezzate dal rombo della macchina di mio padre che si materializzava sorridente portando con sé gli ultimi raggi di luce della giornata. Si spegnevano con la chiusura dell’enorme portone in ferro battuto che si lasciava dietro. Lui era amante dei motori. Grande appassionato di barche, automobili e motociclette. Possedeva ognuno di questi mezzi. A dire il vero una coppia di ognuno. Oltre al Riva al lago di Como, ormeggiato sulle coste liguri ad aspettarci ogni estate c’era un Ferretti.
Tradiva la famiglia con la sua Citroen DS con la quale amava scorrazzare con la capotta aperta principalmente in solitudine. Le domeniche mattina mi portava con sé tra i tornanti che costeggiano il lago. Guardavo fuori dal finestrino con il vento che mi spettinava e tra le mani tenevo il vassoio dei dolci che comprava ritualmente in pasticceria a Menaggio. L’altra vettura invece era un’enorme Mercedes 500 SEL. Di quella macchina ho ricordi di lunghi viaggi e di infinite dormite sui sedili posteriori. La musica di Ivan Graziani e dei Genesis ci accompagnava durante i trasferimenti che raramente mi vedevano ospite nelle sue trasferte di lavoro. Ed io guardavo il mondo fuori dalle finestre di ognuno di questi mezzi e dalle finestre della villa.
La cosa piuttosto interessante è che a casa nessuno parlava mai di soldi. Era ritenuta una forma di scortesia chiedere il costo di un oggetto o di un bene. Mio padre aveva diviso il mondo in due categorie: chi se lo può permettere e chi no. Sosteneva che se appartieni alla prima categoria non hai bisogno di sapere il prezzo perché puoi permettertelo; se la sfortuna ti ha assegnato alla seconda hai il motivo inverso per evitare di chiederlo.
In realtà non credeva nemmeno nella sfortuna: ognuno è artefice del suo destino. Diceva.
L’evidenza di vivere sommersi dal denaro era coperta da uno stile di vita sobrio e naturale anche se era evidentemente improbabile riuscire ad esternarlo essendo circondati da servitù ed oggetti lussuosi.
Negli anni avevamo acqu
isito l’abitudine alla ricchezza.
Il tempo passava tra lunghe giornate estive nella villa al lago all’interminabile inverno nella scuola privata di Como. Tra tuffi e spensierate avventure al mare a bordo del Ferretti ai dispetti degli amici, gelosi dei miei possedimenti. Crescevo e riflettevo: cosa avevo fatto per meritarmi tutto questo?
Ecco il ricordo della vita al lago. Seduto a bordo del motoscafo mentre mi nascondo al saluto delle centinaia di visitatori a bordo di quei lenti e goffi barconi che di buono portavano solo le risacche utili a dondolare il Riva ormeggiato in villa ed a movimentare le mie fantasie. Alle barche a vela che rubando il vento gonfiavano le vele fino a spingerle a Colico. Penso ai capelli lunghi profumati di mia madre ed alle mani piccole ed indifese di mia sorella. A mio padre che sorride mentre guida tra i tornanti.
Penso a ciò che era e ciò che rimane.
Il lago.
La Brianza è il paese più delizioso di tutta l’Italia, per la placidatezza dei suoi fiumi, per la moltitudine dei suoi laghi, ed offre il rezzo dei boschi, la verdura dei prati, il mormorio delle acque, e quella felice stravaganza che mette la natura né suoi assortimenti
(Stendhal)
Parafrasi di terremoto
A L’Aquila quasi tutti gli edifici sono coinvolti in opere di ricostruzioni. Alcuni ancora nascosti dalle reti di protezione, altri sostengono complesse impalcature, qualcuno è stato puntellato ed abbandonato a se stesso.
Sembra di camminare all’interno di un grande set cinematografico svuotato dagli attori protagonisti.
Sempre meno presenti, ma esistono ancora luoghi dove il tempo si è fermato pochi istanti dopo i crolli della notte del 6 aprile 2009. Si possono scorgere dei grossi monitor della saletta computer di un bar. La visione ci fa comprendere i passi da gigante che sta facendo la tecnologia, quasi voglia instaurare in rapidità un ampio e netto distacco dal tragico avvenimento. Affacciandosi alle vetrine di alcuni negozi evacuati si nota la merce giacente disordinata tra scaffali incrinati e pavimenti impolverati.
Camminando tra le vie della città questo è quello che si vede.
Le martellate, le accelerate delle betoniere, lo stridere dei trapani, i richiami tra muratori è quello che invece si sente. Attorniati da un irreale cuscinetto di silenzio.
Il rischio è focalizzarsi su quanto sopra descritto e piangere la parziale dispersione culturale ed architettonica anziché la perdita umana e comunitaria.
L’eruzione del Vesuvio a Pompei provocò la distruzione dell’insediamento umano immobilizzando e cristallizzando nella storia centinaia di persone. Resti a tutt’oggi riconoscibili che ci ricordano gli attimi di sorpresa e sofferenza subiti dagli abitanti. A distanza di duemila anni il ritrovamento di oggetti e resti appartenenti al nostro genere ci ricordano i drammi e le storie vissute all’epoca. Il centro dell’attenzione è rivolta all’uomo.
L’Aquila, a differenza della cittadina campana, sarà ripulita e tirata a lucido pronta per ripresentarsi al mondo come una delle più belle città europee e non solo. Esiste così il rischio che venga celata traccia della sofferenza subita da ogni cittadino. Persona per persona.
Il pericolo più grande è che dopo il caloroso abbraccio umanitario ricevuto in varie forme dagli aquilani, nel caso specifico, le vittime vengano dimenticate o abbandonate per procurata scocciatura. Le richieste d’aiuto protratte nel tempo, pur logicamente legittime, diventano scomode al resto delle comunità integre che non amano protrarsi nelle emergenze. Anche se irrisolte.
Nella storia il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar quello che si cerca di far emergere è il fatto che le cose si possono ricostruire. A tutto c’è una soluzione, tranne che alla morte. Simbolicamente il riferimento a questo detto è la serranda del bar del protagonista del racconto, tornata in asse dopo il sisma. Qualcosa di materiale che in mezzo alla distruzione addirittura si ripara.
Per chi resta in vita non rimane altro che adattarsi ai cambiamenti e confrontarsi con la nuova realtà.
Guardando negli occhi di queste persone si dovrebbe pensare a quello che hanno perso, a ciò che hanno subito. Negli Stati Uniti dopo il crollo doloso delle Twin Towers hanno individuato un nemico contro cui scagliare la loro rabbia. Tutti i desideri di rivalsa all’accaduto li stiamo pagando ancora oggi con l’aggiunta di altre vittime; anche tra uomini dell’esercito riversati nei luoghi dove si radicalizza il male. A loro detta.
Nel caso nostrano non c’è un nemico da affrontare. Esiste chi punta il dito verso le autorità competenti che non hanno prevenuto niente di ciò che si è verificato, gli orfani delle Chiese semidistrutte che evocano punizioni divine, altri che si appellano alla fortuna o sfortuna.
Ciò che è stato è un evento naturale. Vedendolo da un punto di vista naif e fantasioso una scrollatina del globo terrestre forse annoiato nel sopportare milioni e milioni di puntini che lo modificano quotidianamente estraendo minerali, producendo scorie, lasciando residui ovunque e divorando tutto ciò che si muove tra terra, acqua ed aria.
Anche questa teoria però devia la traiettoria dell’intento della storia dell’uomo del bar che, se ancora non si fosse capita, vuole indirizzare l’attenzione alle persone toccate dall’evento e non alle cose.
Le cose sono fatte per essere usate.
Le persone sono fatte per essere amate.
Il mondo va storto perché si usano le persone e si amano le cose.






