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Editoriale: Dog shit park. The end.

 

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Dopo il tentativo di riportare agli onori della cronaca il Parco di Rodini a Rodi, in Grecia, di cui ho ampiamente scritto nei post precedenti, ritorno a narrare i miei racconti di fantasia ambientati in luoghi da me visitati. Della serie ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti non sono puramente casuali.

Ciò premesso spendo ancora qualche parola, le ultime a tal proposito, riguardanti il Parco di Rodini ed il crowdfunding messo in piedi sulla piattaforma Indiegogo.

Naturalmente gli 89.000 usd per attuare il progetto che prevedeva il coinvolgimento di Università e la costituzione di una fondazione pro-parco sono state più una provocazione che altro. Ho cercato di smuovere un po’ l’immobilismo che contraddistingue i politici isolani, piena espressione della realtà locale, che preferiscono crogiolarsi tra il nulla anziché progettare un futuro meno primitivo rispetto allo stato attuale delle cose. Non solo il parco è abbandonato a se stesso: la manutenzione delle strade, gli spazi dedicati a famiglie e sportivi, la conservazione dei beni culturali, l’investimento su un turismo più ricco dal punto di vista culturale ed anche economico sono fattori completamente trascurati.

A Rodi se sei koumbaro (compare) hai licenza di fare ciò che ti pare: puoi guidare il tuo furgoncino vetusto e puzzolente senza cinture con sigaretta e bicchierone di caffé, in moto circolare in due, tre, quattro, senza casco chiaramente, puoi gettare mozziconi accesi o immondizia a terra, lasciare il materasso che avanza vicino alla raccolta rifiuti ovviamente non differenziata ma a disposizione delle capre che brucano la plastica, grigliare in spiaggia piuttosto che parcheggiare sui marciapiedi. Investire i turisti che attraversano le strisce pedonali ed ammazzarli o schiantarsi da ubriachi come mosche sui paracarri delle strade è un altro passatempo molto praticato. Questa, dispiace dirlo koumbari, è realtà.

Poi ci sono gli indesiderati che vedono un futuro più degno per questo idealmente meraviglioso luogo. La speranza di questi individui, come il sottoscritto, è sperare in un’invasione e conseguente conquista di Rodi da parte della Svizzera che però, sfortunatamente, è un Paese neutro. Anche austriaci e norvegesi purtroppo non sono inclini alla conquiste di nuove terre. Peccato perché quest’isola ha avuto la massima resa nei periodi in cui è stata dominata da altri popoli. Il periodo della Magna Grecia lo considero troppo distante culturalmente da quello odierno per fare una qualsiasi associazione con i greci moderni.

Così quindi si chiude il capitolo del Rodini Park che ho avuto modo di studiare e di apprezzare prima del suo imminente sfacelo finale e della bella esperienza vissuta con il crowdfunding, supportato da Federico Postiglione e Fabio Cartolano che ringrazio per aver messo a disposizione mia e della comunità il loro prezioso tempo e professionalità e, nel caso di Fabio, la faccia, per sostenere questa iniziativa che meglio sarebbe stato se fosse partita dai locals che invece si sono ben guardati da fornire qualsiasi tipo di supporto.

D’altronde la cifra richiesta per partire con il progetto è l’equivalente di circa 68.461 souvlaki, cioè la possibilità di sfamare in media 22.820 persone durante un week end nelle sagre. Numeri monster che sicuramente avranno impressionato la popolazione locale, timorosa di perdere l’unica risorsa funzionante: gli spiedini.

Un cittadino ed un cafone difficilmente possono capirsi. (Ignazio Silone)

 

 

After trying to bring back to the headlines the Rodini Park in Rhodes, Greece, which I have written extensively in previous posts, I return to tell my stories of fantasy set in places I visited. In the series any reference to people or events that have actually happened are not purely coincidental.
That said, I still spend a few words, the latest in this regard, concerning the Rodini Park and crowdfunding set up on the Indiegogo platform.
Of course, the 89,000 usd to implement the project that involved the involvement of universities and the establishment of a pro-park foundation were more a provocation than anything else. I tried to move a bit ‘the immobility that distinguishes the islanders politicians, full expression of the local reality, who prefer to bask in nothingness instead of planning a less primitive future than the current state of things. Not only is the park abandoned to itself: the maintenance of the streets, the areas dedicated to families and sportsmen, the conservation of cultural heritage, the investment in richer tourism from a cultural and economic point of view are completely neglected factors.
In Rhodes if you are koumbaro (appears) you have permission to do what you want: you can drive your old and smelly van without belts with cigarette and big glass of coffee, drive the motorbike in two, three, four, without a helmet clearly, you can throw butts lit or rubbish on the ground, leave the mattress that advances in the waste obviously not differentiated but available to the goats that burn the plastic, grilling on the beach rather than parking on the sidewalks. Investing the tourists who cross the pedestrian crossing and killing them or crashing on the street posts is another very popular pastime. This, sorry to say koumbari, is reality.
Then there are the unwanted ones who see a more worthy future for this ideally wonderful place. The hope of these individuals, like myself, is to hope for an invasion and consequent conquest of Rhodes by Switzerland, which, unfortunately, is a neutral country. Even Swedes and Norwegians are not inclined to conquer new lands. Too bad because this island has had the maximum yield in the periods when it was dominated by other peoples. I consider the period of Magna Graecia too distant culturally from today’s to make any association with modern Greeks.
So then closes the chapter of Rodini Park that I had the opportunity to study and appreciate before its imminent final breakdown and the beautiful experience with crowdfunding, supported by Federico Postiglione and Fabio Cartolano that I thank for making available to me and the community their precious time and professionalism and, in the case of Fabio, the face, to support this initiative that would have been better if it had started from the locals who instead are well looked after to provide any type of support.
Moreover, the amount requested for starting the project is the equivalent of about 68,461 souvlaki, that is, the ability to feed an average of 22,820 people during a weekend in the festivals. Monster numbers that surely will have impressed the local population, afraid of losing the only working resource: the skewers.

 

A citizen and a boor can hardly understand each other. (Ignazio Silone)

 

Malaga. Problemi di cuore

Stavo affrontando l’imperiosa salita che mi avrebbe fatto raggiungere il Castello di Gibralfaro. La giacca che indossavo risultava inadatta alla giornata calda e soleggiata così che dopo un centinaio di metri, infatti, la tolsi. Man mano che salivo si aprivano nuovi scorci e la vista della città dall’alto si faceva sempre più emozionante. Feci una prima sosta presso un punto panoramico lungo la muraglia. Avevo già individuato il teatro romano ai piedi dell’Alcazaba;  lì fumai una sigaretta, scattai alcune foto e ripresi la salita.

Non sono mai stato un gran sportivo e quella passeggiata lo evidenziava ulteriormente.

Incontrai altri turisti lungo il cammino. Le coppie anziane mi fanno sempre tenerezza; di loro invidio la complicità e la caparbietà con la quale esplorano il mondo. Spesso calzano scarpe della stessa marca; significa che gli acquisti vengono decisi assieme. Poi c’è uno dei due che ha da lamentarsi dell’altro. Borbottano frasi comprensibili solo a loro e così anche il linguaggio che utilizzano è un’ esclusività di coppia.

Venni sfiorato da un corridore che vestito in maglietta e pantaloncini tecnici sembrava pratico di quella strada. Stava salendo piuttosto disinvolto e, a differenza mia, era notevolmente allenato. Infatti sparì dalla mia vista dopo pochi secondi.

Il caldo aumentò ed il mio respiro divenne affannoso. La stanchezza cominciava a farsi sentire più che sulle gambe, nel petto. Avevo cominciato a respirare faticosamente e quindi mi fermai ancora una volta. Sedetti sul muretto medievale al Belvedere di Gibralfaro. Sorseggiai un po’ d’acqua e guardai ancora una volta il paesaggio che offriva Malaga. Rinunciai alla sigaretta e maledii il mio vizio . La linea blu del mare contrastava con l’azzurro del cielo. Una grossa nave bianca di tanto in tanto suonava la sirena per avvisare l’equipaggio che da lì a poco sarebbe salpata. Le città sul porto le ho sempre considerate le più affascinanti in assoluto perché mi trasmettono un impagabile senso di libertà.

Lentamente passò al mio fianco anche una famiglia di persone distinte. I due coniugi parlavano in arabo mentre i figli, almeno sembrava lo fossero, si rincorrevano scherzosamente intorno a loro schiamazzando in spagnolo. Il padre, un signore alto e robusto, con un cenno fermò uno dei due ragazzini riportandolo alla calma. La sua consorte era silenziosa e minuta, portava il chador e sembrava abbastanza più giovane di lui.

Proseguì il mio cammino a qualche passo di distanza da quella famiglia.

Il corridore mi sfiorò nuovamente mentre affrontava la discesa come una furia.

Una volta faticosamente raggiunto il traguardo, ossia l’interno delle mura del castello di Gibralfaro non persi tempo nel riammirare Malaga e tutto ciò che aveva da offrire. La cosa più evidente da quella posizione era la Plaza de Toros, conosciuta come Malagueta e costruita nel 1847. In quel luogo così crudele ed arido anche l’artista per eccellenza Pablo Picasso prese spunto per molte delle sue opere tra cui la tauromachia. Sarei andato a far visita anche al museo a lui dedicato, magari nel pomeriggio. Il vento mi spense più volte la fiamma dell’accendino prima che potessi godermi finalmente anche la mia meritata sigaretta.

Non prestavo più attenzione al respiro affannoso e da qualche decina di minuti si era anche acutizzato un dolore al petto ed al braccio sinistro. La colpa era di quella maledetta salita e di me idiota non più abituato a fare sforzi prolungati.

Decisi che era meglio entrare per qualche attimo all’interno del museo. L’ingresso era gratuito e la stanza era decisamente più fresca rispetto alla temperatura esterna.

Ricordo d’aver osservato con cura la divisa militare risalente al 1800 ed indossata da un manichino.

Poi il buio.

Mi risvegliai non so quanto tempo dopo e la prima figura che si materializzò davanti a me era quella del padre di famiglia con cui avevo condiviso parte della camminata. Man mano che passavano i secondi realizzavo sempre più quello che capitava intorno a me. Le sagome si facevano più nitide. Quell’uomo mi stava tenendo il braccio destro e misurando il battito cardiaco mentre io vedevo la stanza di un soffitto. Chiesi dov’ero e mi venne intimato in non so quale e quante lingue di starmene tranquillo.  Attorno a noi c’era un gruppetto di persone che ci accerchiavano ad una certa distanza. Potevo riconoscere anche la moglie del signore che mi stava prestando soccorso mentre teneva per mano i due bambini. Il più piccolo la guardava di tanto in tanto alla ricerca di qualche spiegazione su ciò che stava accadendo. Poi le sirene di un’ambulanza e nuovamente uno stato confusionale che non mi permise di ricordare altro.

Dopo una serie interminabile di esami finalmente riuscì ad avere un colloquio con un medico che qualche parola di italiano la parlava anche, così che non fu troppo arduo capire la diagnosi, facilmente intuibile anche per un comune mortale come me:  si trattava di infarto.

Il giovane e gesticolante dottore dal candido camice bianco mi comunicò che ero stato parecchio fortunato ad essere stato immediatamente soccorso da una persona competente. Personalmente ricordavo l’accaduto in modo piuttosto frammentato e confuso, quando d’un tratto mi venne in mente l’immagine della prima persona che vidi da sdraiato una volta riaperti gli occhi. Era quel omone che avevo seguito durante la salita al castello. Mi venne detto che era un cardiologo molto noto in città, così che mi fu facile recuperare il suo indirizzo se non altro per ringraziarlo del suo operato.

Così feci e lo contattai qualche giorno dopo, una volta dimesso dall’ospedale. Al numero dello studio rispose una ragazza con un timido timbro della voce ed estrema pacatezza. Parlava molto bene l’inglese, cosa che non mi favoriva minimamente. Provò a comunicare in spagnolo, ma la lingua che a noi italiani sembra così simile e facile da capire, al telefono risultava impossibile da decifrare. Decisi quindi di recarmi personalmente nell’ambulatorio medico del mio salvatore. Il rosso sole infuocato di un tramonto mozzafiato rifletteva le lucenti sfumature sulla targa dorata con inciso il nome del cardiologo, come indicato chiaramente dalla dicitura. Nome di origine araba, non certo spagnola. Una volta entrato dovetti aspettare qualche istante prima di poterlo incontrare. Riconobbi la donna silenziosa e minuta che mi fece accomodare in sala d’attesa. Mi sorrise educatamente.

Stavo osservando i quadri e delle riviste mediche quando sentì un braccio avvolgermi le spalle.

“Allora come va? Passato lo spavento?”

“Dottore, non so come ringraziarla” risposi sorpreso nel rivedere il mio soccorritore. Lui sorrise mentre io continuai abbastanza imbarazzato “davvero, non vorrei offenderla ma se posso offrirle qualcosa, fare qualcosa per lei”

Ricevetti un’altra risposta spiazzante “Per me non serve che faccia niente grazie, piuttosto è per lei che dovrebbe fare qualcosa”

Intanto non feci caso che stavamo parlando la stessa lingua. “Ma lei dottore parla l’italiano…”

“Dai usciamo da qua” disse “andiamo a bere qualcosina qui alla cerveceria difronte. Sono chiuso qua dentro tutto il giorno. Sì, parlo un po’ di italiano perché ho fatto dei corsi di aggiornamenti in Italia.”

Si rivolse in arabo alla ragazza che rimase nello studio e ci chiuse la porta una volta usciti noi due.

“Parla arabo con la… signorina. L’arabo invece? Dal nome sull’insegna si direbbe…”

“Signora. Lei è mia moglie. Arriviamo dalla Siria. Siamo degli sfortunati siriani”

Le mie domande non lasciavano spazio a quelle riguardanti il sottoscritto. Erano a senso unico. Magari a lui nemmeno interessava più di tanto sapere chi fossi e cosa facessi a Malaga. Del mio eroe volevo invece sapere tutto.

Ci sedemmo e dopo mille altri ringraziamenti il discorso si fece un po’ meno formale. Ad un certo punto della conversazione si rivolse a me con tono severo “Scusi se mi permetto, ma quello che è successo non deve ripetersi. Questa volta è andata bene ma dovrà riguardarsi di più in futuro. Non è un campanellino d’allarme questo, questi sono i rintocchi di un campanile” Avevo già sentito le prediche diverse volte e glielo dissi in modo scherzoso “L’alcool da ridurre, il fumo da evitare, i grassi e gli zuccheri… Dottore di qualcosa si dovrà pur morire prima o poi!” Sul suo viso non comparve nessun cenno di compiacimento. Anzi, tutt’altro. “Lei può scegliere se aumentare le probabilità di morire di vecchiaia serenamente durante il sonno nel suo letto o in quello di un ospedale attaccato ad una bombola d’ossigeno fino a che nemmeno le macchine potranno garantirle gli ultimi respiri. In un caso o nell’altro morirà comunque, ma io preferirei farlo nel letto di casa mia”

Era piacevole parlare con lui. Mi raccontò molti aneddoti su Malaga e sulle opere esposte al museo Picasso. Imperversava anche il periodo del carnevale e mi invitò a partecipare alla festa che si sarebbe tenuta il giorno seguente tra le vie della città e culminante nella Plaza de la Merced. Trovò anche il tempo per raccontarmi sprazzi della sua vita. Aveva studiato in Siria ma fu costretto a scappare a causa della guerra “La mia casa è ancora in piedi e tra i miei familiari solo degli zii sono rimasti uccisi dai bombardamenti”  mi disse cercando di velare la commozione “Ma anche se la nostra casa ha resistito il resto della città è annientato. Gli edifici sono crollati, le strade sono impraticabili, mancano i beni di prima necessità… Come facevamo  a vivere così?” Continuò “Io e mia moglie, all’epoca non avevamo figli, abbiamo deciso di andarcene. A lei manca qualche esame per laurearsi in medicina ma ha dovuto abbandonare l’Università” Non mi sembrava il caso di aggiungere altro, lo fece lui “Abbiamo provato ad arrivare in Italia ma ci sono state chiuse le porte in faccia. Chissà, magari le aprono solo a quelli che si presentano sulle barche o sui gommoni. La Germania invece vista la mia laurea ci ha accolti a braccia aperte. Però al freddo ed alla pioggia ho preferito il mare. Così eccoci qui”

Accidenti, pensai. Questa esperienza la devo trascrivere da qualche parte. Davvero incredibile.

Ci salutammo con la promessa che sarei ripassato a trovarlo e avremmo rifatto assieme la salita del castello.

Fu la madre dell’uomo a trovare questo scritto tra le pagine di un quadernetto. Il vizio del fumo l’aveva accompagnato fino a quando il cuore decise che poteva bastare. La luce si spense dopo due interminabili giorni e due interminabili notti di faticosi e dolorosi respiri.

 

 

Non sappiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi.
(Tito Livio)

 

La differenza è la passione

Giorni fa, confrontandomi con degli agenti di viaggio, ho sostenuto quanto sia importante il fattore passione nel pacchetto viaggio. Ossia di come, sempre a mio avviso, non basti la sola componente materiale a rendere la struttura piacevole agli ospiti.

La passione è quel elemento che induce il personale degli alberghi a rendere i nostri giorni di permanenza piacevoli e quello della partenza malinconico. Il fattore umano.

Personalmente ho ricordi da bambino di camerieri particolarmente affettuosi e passionali nel loro lavoro. Di una in particolare ricordo ancora il nome e parliamo di una fugace settimana vacanziera di trentacinque anni fa quando io ne avrò avuti sì e no dieci. La battuta al momento giusto, il sorriso, la cortesia, la professionalità… Quel effetto warm che scalda appunto gli ambienti. Certo c’è chi preferisce l’ambiente asettico degli hotel 5 stelle lusso dove il personale deve impermeabilizzarsi e stare a debita distanza dal cliente senza quasi rivolgergli lo sguardo; eppure anche questa tipologia di clientela sofisticata è attratta dalla personalità degli impiegati più passionali. Ci scambia qualche confidenza, osa chiedere qualcosa di eccezionale.

Ai collaboratori più giovani cerco sempre di trasmettere i valori che mi furono insegnati: rispetto, cortesia, disponibilità. Componenti base per poter svolgere al meglio il proprio lavoro. Ribadisco però che per fare il salto di qualità ed ingranare la marcia in più rispetto a chi decide di navigare a vista è metterci la passione.

Dal mio punto di vista è anche la chiave per capire se siamo sulla strada giusta o meno. Se la mattina ci alziamo con fatica per andare al lavoro, senza entusiasmo ed uno sforzo mentale tale da mal digerirlo significa che quel impiego non ci stimola a tal punto da appassionarci. La stessa persona troverà in altre attività campo fertile dove alimentare le proprie passioni. Un personal trainer mentre frequentavo una palestra sostenne che ero pigro nel fare gli esercizi. Vero, perché la palestra non mi ha mai appassionato. Una delle prime cose a cui ho pensato quando ho tagliato il traguardo della mia prima maratona è stata: meno male che ero io quello pigro. Per essere maratoneti, oltre che masochisti, bisogna essere passionali.

Però, come volevasi dimostrare, mi è bastato cambiare attività per trovare dentro di me forze che mai sospettavo di avere.

Passione significa anche credibilità. Se non crediamo a noi stessi ed a quello che diciamo sarà impossibile convincere qualcun altro. I più abili venditori ci mettono sempre passione in quello che fanno tanto da autoconvincersi che ciò che stanno vendendo è bellissimo, indispensabile, fuori dal comune. Chissà quanti di noi hanno nei cassetti qualche oggetto completamente inutile utilizzato forse una volta che ci è stato abilmente rifilato da qualche venditore che ci ha incantato con le sue filastrocche.

Questo blog agli occhi di molti, spero non tutti, sembrerà una stupidaggine o qualcosa di superfluo. Ma che senso ha tutto questo se non ci guadagni? Nessuno però, vedendo le copertine, le foto, i filmati, leggendo le storie, potrà dire che non ci metto passione. Altrimenti tutto ciò non potrebbe esistere. Scrittura, fotografia, grafica, marketing, viaggi: queste sono le mie passioni ed alcune, fortunatamente, fanno parte o servono a svolgere il mio lavoro. Altre passioni, come la corsa, mi hanno offerto ulteriori sbocchi lavorativi.

Insomma, solo la passione può togliere l’insipidità delle cose.

 

 

In ogni attività la passione toglie gran parte della difficoltà.
(Erasmo da Rotterdam)

 

San Francisco. Il ricercatore

San Francisco, un giorno qualsiasi, ore 19:36

Il rumore della chiave rigirata nella serratura spezza il silenzio della casa affacciata sul porticciolo.

Dopo qualche tentativo la porta d’ingresso si apre spinta da un uomo impegnato sia a posare le chiavi nella tasca destra del soprabito che a sostenere una borsa di cartone piena di provviste.

“C’è nessuno in casa?” pronuncia ad alta voce l’uomo che nel frattempo si avvia verso la cucina attraversando il vasto ingresso. “Ho comprato qualcosina… Disturbo?”

Non risponde nessuno. Continua a destreggiarsi nel salone principale. Posa quindi il soprabito e si sposta in cucina dove appoggia la borsa sul tavolo. Comincia a smistarne il contenuto.

Apre la porta del frigo per sistemare i vasetti dello yogurt; la luce che illumina il suo viso evidenzia una persona di mezza età che ha apparentemente sostenuto una giornata piuttosto faticosa.

Una ragazza si presenta sulla porta della cucina indossando una t-shirt di almeno due taglie più grandi della sua e che le arriva quasi alle ginocchia. Sul davanti una scritta in rosso ben visibile USFCA. Oltre alla maglietta e delle calze di cotone arrotolate alla caviglia non indossa altro. Ha i capelli lunghi raccolti in modo approssimativo e rilascia qualche sbadiglio prima di rispondere stropicciandosi gli occhi

“Cavolo scusa, non ti avevo sentito… Bentornato!”

Lei è sicuramente più giovane rispetto a lui di almeno una decina di anni. I due hanno evidentemente molta confidenza ma ciò nonostante il loro saluto si limita ad essere verbale. Nessun bacio o abbraccio.

“Non ti ho proprio sentito rientrare” dice la ragazza che sembra risvegliarsi parola dopo parola. Lui è serenamente indaffarato a sistemare gli alimenti mentre l’ascolta in silenzio. Lei continua il dialogo “Scusami ma sono ancora frastornata dal jet lag. Certo che ti hanno dato una casa fantastica. Una vista incredibile!”

“La mamma sta bene? Si è ripresa?” chiede lui.

“Non troppo. Sai che era molto legata a papà. Lei e gli zii sono rimasti un po’ male che non ti sei presentato al funerale

Lui apre una lattina di una bevanda gassata e la porge alla sorella “E’ dispiaciuto anche a me. Tremendamente. Ma anche un minuto in meno di ricerca significa chissà quanti morti in più a causa della malattia che ci ha portato via papà. Il viaggio per l’Italia poi, non ne parliamo…. Altro che perdita di minuti.” Per un pò la stanza si riempie di malinconia.

“Certo che in valigia potevi metterti una t-shirt in più anziché usare la mia!” Cambia discorso ed i due tornano a sorridere.

“Allora sorellina, hai fatto un giro della città? Ti sono serviti i miei suggerimenti? Mentre ero al laboratorio ti ho pensata ed invidiata per un pochino. Vivo a San Francisco da tre anni e nemmeno ricordo com’è fatta”

“Certo che sono serviti! A dire il vero mi sono persa alla prima curva, ma forse è stato ancora più emozionante!”

“Perdersi a San Francisco in bicicletta è piuttosto rischioso con tutti i sali scendi che ci sono… Fammi vedere i polpacci”

Scostando la sedia sulla quale è seduto le si avvicina con tono scherzoso fingendosi interessato a controllare i polpacci mentre la ragazza si schiva altrettanto scherzosamente.

“Quindi questo giro? Che hai visto? Siediti, raccontami prima che me ne vada a dormire” la incalza mentre lei comincia a descrivere la sua giornata. Una giornata da turista, per la prima volta a San Francisco, ospite del fratello ricercatore all’Università.

“Dopo aver pedalato per un bel po’ di salite e quando avevo perso la speranza di arrivare al Golden Gate ho fatto una pausa qui, in questo parco guarda…” allunga lo smartphone dove compare la foto di un parco con vista panoramica della città “Beh, lo sai dove sei capitata? Ad Alamo Square… Queste case sono chiamate Painted Ladies. Uno dei posti più pittoreschi di San Francisco. Forse te l’avevo accennato il primo giorno” La ragazza pare stupita e divertita allo stesso tempo “Davvero? A saperlo… Ed io che ero infuriata convinta d’essermi persa…”

“Beh ti servirà da lezione. Franck A. Clark scrisse che se puoi trovare un percorso senza ostacoli, probabilmente non ti porta da nessuna parte. Sai quante scoperte ci sono capitate di fare quando pensavamo d’essere completamente fuori rotta! Ma continua…”

“Interessante questo Franck chi? Comunque a forza di pedalare e con i nuvoloni sopra la testa prima di vedere in lontananza il Golden Gate mi sono imbattuta in un cimitero americano. Tutte quelle croci bianche mi hanno fatto pensare a come qualsiasi distinzione terrena venga meno una volta trapassati”

Lui la interruppe nuovamente per qualche secondo “Siamo sull’Oceano Pacifico, le nuvole ci fanno compagnia quasi ogni mattina, ma poi spesso si diradano concedendoci belle giornate come quella che mi pare ci sia stata oggi…” “Ti pare?” chiede ironica lei “Mi pare perché stando chiuso in un laboratorio 10 ore al giorno con un occhio sul microscopio ad osservare vetrini non faccio molto caso a ciò che accade fuori. Insomma, il sole e la pioggia non influiscono molto nella mia giornata se non nel tratto di strada che mi separa dall’Università e viceversa. Però poi sei arrivata al benedetto Golden Gate che puoi vedere anche affacciandoti alla finestra del salone se è per quello…”

“L’avevo visto da casa ovviamente! Ma volevo vederlo da vicino!”

Lui ribatte “Mi pare di capire che tra Painted Ladies, cimiteri e dio sa solo cosa altro, ci sei arrivata… E’ lì… Bastava attraversare la strada, seguire la ciclabile in direzione sinistra e ci arrivavi in 5 minuti”

“Eh ho capito” continua la sorella “Senza saperlo ho seguito il consiglio di quel… Come si chiama?” “Franck A. Clark, è uno scrittore…” le ricorda il fratello alzando gli occhi al cielo.

“Poi la ciclabile l’ho fatta nel versante alto… Guarda che foto!”

La ragazza esibisce orgogliosamente gli scatti eseguiti la mattina della visita con lo smartphone. Il ponte ripreso da tutte le posizioni possibili ed immaginabili come fosse l’unica cosa realmente importante da vedere a San Francisco.

Continua nel suo racconto mentre lui scorre le foto amorevolmente come se non l’avesse mai visto.

“E’ davvero molto bello questo tratto di ciclabile. L’ho percorso tutto fino ad arrivare al molo Pier 39. A dire il vero mi sono inerpicata ancora tra le salite per poi ritrovarmi a Chinatown ed anche Little Italy credo… Almeno lì ho visto un’insegna con scritto Italian Athletic Club ed un signore si è rivolto a me in italiano…” Lui conferma: “Sì, il quartiere si chiama North Beach ed è molto vicino a quello cinese. Vicino all’Athletic Club, che è un luogo di ritrovo molto conosciuto dagli italiani, c’è una Chiesa molto importante, dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Ma immagino ci sarai andata via dritta senza vederla”

La ragazza sorride sarcasticamente mentre morde la mela che ha preso dal portafrutta.

“Ma io sono venuta a trovare te principalmente” lui la smentisce “Bugiarda! A proposito… Il tuo fidanzato? Stai sempre con quello… Come si chiamava? Quello che ho conosciuto proprio prima di partire…” La sorella inarca le sopracciglia sforzandosi di capire chi fosse quel ragazzo “Ma va! Storia vecchia. Ma poi che te frega a te delle mie vicende amorose? Tu piuttosto?” “Niente di che. Come vedi vivo da solo. Il mio lavoro mi porta via un sacco di tempo. A volte esco con qualche collega ma niente di serio. Invece il tuo giro per San Francisco? Continua a raccontarmelo che mi sembra d’esser stato lì con te”

La ragazza apre una scansia della cucina in cerca del cestino dove poter buttare il torsolo della mela. Mentre lui le indica quale porta aprire per trovarlo lei ha già fallito qualche tentativo. Curiosando tra le dispense non riesce a fare a meno di commentare “Certo che sei proprio italiano… Pasta, pasta, pasta, pomodoro, pomodoro, pomodoro… Ma che sei venuto a fare in California se con la testa sei rimasto in Italia?” Lui annuisce “Vero. Mi manca l’Italia. Ma qui ho ciò che mi serve per proseguire la ricerca. Fondi, credibilità, assistenza. Da voi in Italia i ricercatori sono considerati una sorta di perditempo. Gente che spreca denaro pubblico per non si sa bene cosa. In realtà è proprio con quel sistema che si sperpera denaro pubblico: istruire delle persone e costringerle a mettere in pratica le loro conoscenze altrove. Hai sviato la domanda di prima… ”

Lei abbandona l’espressione seriosa che ha mantenuto nel ascoltarlo.

“Vero. Come ti ho detto sono arrivata al molo Pier 39. Davvero spettacolare. Certo è una zona molto turistica ma i negozietti e locali della via…” “The Embarcadero, la via si chiama The Emabarcadero” l’istruisce lui “Ecco quella, ci siamo capiti, sono molto carini. Avrei voluto comprare qualcosina ma alla fine mi sono detta: perché non farmela regalare?” Ride e continua “Naturalmente ho visto anche le chiatte con le foche. Un altro mondo. Davvero, vivi in un altro mondo”

Lui abbassa lo sguardo verso il basso “Direi proprio di sì. Sai gli americani sono sereni, tranquilli, programmano qualunque cosa; anche le giornate libere. Tutto funziona come un orologio svizzero. Certo ci sono sempre più homeless in giro, gente schiacciata dal capitalismo sfrenato a cui è sempre più difficile resistere. Ma la mia fortuna è che sono italiano e noi proveniamo da un posto dove l’improvvisazione è nel nostro DNA. Noi siamo capaci di arrangiarci, di venire fuori da qualsiasi situazione. Loro no. Vanno in tilt se qualcosa non fa parte del programma.”

Lei ascolta mentre sfoglia altre foto sullo smartphone finché non spalanca gli occhi alla vista di un primo piano ad una foca. Gliela mostra orgogliosa.

“Eh già… Italiani. A proposito… Il mio volo di rientro è dopodomani, avremo un po’ di tempo da passare assieme noi due prima che passino altri tre anni?”

Lui sorseggia un po’ di vino dolce da un piccolo calice e le risponde “Certo. Possiamo andare a bere qualcosa qui vicino nel Fisherman’s Wharf anche se è super turistico. D’altronde tu sei turista qui… O no?”

“No” specifica seccata lei.

“Ok, vediamo come sono messo con il lavoro, magari ci spostiamo in tram. Ci sei già salita? Se tutto va come deve a breve sarà pubblicata una divulgazione scientifica piuttosto importante. Poi avrò più tempo per voi e forse anche per me. Adesso vado a dormire che domani mi devo svegliare presto. Good night sister

“Notte brother

Nessuno si impegna in una ricerca in fisica con l’intenzione di vincere un premio. È la gioia di scoprire qualcosa che nessuno conosceva prima.
(Stephen Hawking)

ANSA – Individuato il tallone di Achille dei tumori: è una proteina sosia di quella prodotta dalle cellule sane in condizioni di stress. Bloccandola si innesca l’autodistruzione delle cellule malate, come hanno indicato i test sui topi. Individuata nel tumore della prostata, potrebbe essere comune a molte forme di cancro. Pubblicata sulla rivista Science Translational Medicine, la scoperta si deve al gruppo di ricerca dell’università della California a San Francisco, guidato dall’italiano Davide Ruggero.

Ogni riferimento a persone o cose realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. Questo post è dedicato a tutti i ricercatori italiani e non che contribuiscono a rendere l’essere umano più forte e consapevole.

Sposarsi in USA

Nelle prime ore del mattino mi trovo nell’ascensore del hotel. Sto scendendo. Lo condivido con due ospiti della stessa struttura con i quali scambio due battute. Deve essere bello andare a correre a Las Vegas a quest’ora, dice un po’ sorpreso uno dei ragazzi. Il campanellino del piano suona, si aprono le porte, saluto ed esco ad allenarmi. Una piccola corsetta per tenermi in forma in vista della maratona di Los Angeles a cui parteciperò tra sei giorni. Mentre percorro la Stewart Ave. mi guardo in giro, ascolto musica, penso che tra qualche ora passerà l’autista a prendere me e M per portarci alla Valley of Fire, il luogo che abbiamo scelto per sposarci. Molte persone hanno ironizzato benevolmente sulla scelta del luogo, magari citando improbabili scene di film in cui il celebrante è un sosia di Elvis e gli sposi sono completamente sfatti; altri hanno probabilmente lasciato libero sfogo a commenti meno amichevoli alle nostre spalle. Fa parte del gioco. D’altronde basta fare una ricerca in rete per avere delle dritte sui documenti necessari per assolvere la parte burocratica in cui si possono leggere poche indicazioni utili ma tanti giudizi ironici a seguire. L’ironia se utilizzata in modo intelligente sta sempre bene ovunque. Se filtriamo con ironia un matrimonio tradizionale in Chiesa, ad esempio, fa sorridere il fatto che il celebrante sia un uomo vestito con la talare e parametri sacri che tanto ricordano il carnevale. L’usanza di prendersi manciate di riso in faccia è stata schernita anche dal regista Francesco Nuti nel film cult Caruso Pascoski di padre polacco. La fascia tricolore indossata dal sindaco non è altrettanto ridicola? Si sta varando una nave o inaugurando un auditorium forse? Queste considerazioni dovrebbero non dico far tacere, ma almeno far riflettere, i provinciali paladini delle verità assolute.

Ciò premesso non nascondo che durante la breve fila che abbiamo fatto il giorno precedente presso il Clark County Marriage License Bureau, l’ufficio di Clark ave. e che ha il compito di rilasciare le licenze matrimoniali, abbiamo notato delle coppie abbastanza singolari e non abbiamo potuto fare a meno di stereotipare sia loro che noi. Torno nella stanza, mi tolgo gli indumenti della corsa ed ho tutto il tempo di farmi una doccia rigenerante e di occuparmi del resto per presentarmi al meglio all’appuntamento. E’ un giorno importante, eppure lo viviamo entrambi abbastanza tranquillamente. Almeno all’apparenza. I nostri vestiti sono appoggiati su uno dei due letti presenti nella camera d’albergo. Arriva la prima email di conferma che l’autista sarebbe arrivato nell’orario prestabilito. Gli americani, popolo dai molti difetti, dal punto di vista organizzativo sono impeccabili.

Cominciano gli ultimi preparativi, ci vestiamo, imbustiamo le poche cose che ci serviranno a completare la serata. Il mio vestito sembra un abito di sartoria confezionato apposta per l’occasione. In effetti è stato scelto appositamente di quel colore e materiale per essere indossato nel deserto. Anche le misure sono fortunatamente perfette. Lei invece l’ha dovuto scegliere all’ultimo momento dato che quello acquistato, neanche farlo apposta in un negozio di Los Angeles, non ha fatto tempo ad arrivare (e mai arriverà). Peccato perché era un bel vestito.

Chissà se un giorno M avrà modo di opinare il fatto che non le abbia dato la possibilità d’indossare un abito da sposa tradizionale. O magari io stesso mi rinfaccerò di non averglielo concesso. Lo meriterebbe sicuramente di più rispetto a certi fenomeni da baraccone che si vedono in giro.

Nell’ascensore dell’albergo il maratoneta ha lasciato spazio a due novelli sposini ed anche gli altri occupanti non sono i due ragazzi della mattina. Incrociamo qualche sguardo, non dicono nulla.

In una provincia dove si svolgono circa trecento matrimoni al giorno l’ultima delle cose che suscita curiosità è quella di vedere due promessi sposi mentre si avviano all’appuntamento. L’autista ci sta aspettando e ci apre le porte della lucida sedan nera dai vetri oscurati.

Durante l’ora e mezza di viaggio che stiamo affrontando io e M riavvolgiamo il nastro che ci ha portato fino a lì; verifichiamo che le promesse che diremo non saranno le stesse. Spesso ci capita di pensare o dire le stesse cose senza volerlo. Ci incoraggiamo e ci togliamo le ultime ansie da prestazione. Lei scopre di aver dimenticato i trucchi in albergo ma è ovviamente troppo tardi per trovare soluzioni alternative. Certo, come ci aveva insegnato un caro amico in Giordania, servisse solo la terra rossa c’è un deserto a disposizione per procurarsela. Peccato che non ci abbia mai svelato i metodi naturali per produrre rossetto e contorno occhi. Se esistono. Il panico, perché per una donna trovarsi senza trucco il giorno del matrimonio è il peggior incubo della vita, svanisce quasi del tutto quando sdrammatizzo dicendole che avrà una storia nella storia da raccontare. Probabilmente evita di mandarmi a fanculo proprio perché è il nostro giorno. Intanto fuori dai finestrini oscurati scorrono le immagini del meraviglioso parco naturale chiamato Valley of Fire, nella provincia di Overton, nello Stato del Nevada.

Ad aspettarci non ci sono genitori, né parenti, né amici, né cerimonie pompose, né pranzi, né orchestre, balli e cene. Ci sono invece la funzionaria ed il fotografo che per l’occasione è anche il testimone. Si fermano a curiosare dei turisti, che assistono parte della cerimonia in rispettoso silenzio e debita distanza.

La giornata è meravigliosa. Il cielo è terso ed il deserto sembra accoglierci sotto la sua protezione consapevole, ne sono convinto, che un altro deserto ci ha fatti incontrare.

Le persone che nascono e vivono in luoghi estremi spesso sono dirette, sincere. Non necessitano di firme e documenti per siglare accordi. Basta una promessa, una stretta di mano. Anche sorseggiare un o un caffè assieme sono gesti che ufficializzano delle decisioni importanti.

Io e lei ci teniamo per mano, ci guardiamo, approviamo le significative parole della celebrante e poi pronunciamo gli vow. In inglese, per rispettare le regole del Nevada ed in italiano, perché è la lingua che utilizziamo per comunicare tra noi. Penso che in prima superiore avevo il tre in inglese – e mezzo d’incoraggiamento diceva la mia prof – e mi fa sorridere il fatto che adesso faccia uso della lingua anglosassone quasi quotidianamente per lavoro ed ora per siglare questo legame. Ma quel mezzo d’incoraggiamento mi fa ancora incazzare.

Intanto solo l’ampiezza del deserto può contenere il vuoto delle persone che realmente avrei voluto fossero presenti. Le sento vicine.

Nelle mie promesse uso la parola normalità. Dico ad M che molti ci vedono come anormali. Forse siamo anormali a celebrare il matrimonio in un luogo così lontano, ad incominciare dalle nove ore di fuso orario che ci separano da chi da casa non potrà assistere. Anormali perché non abbiamo messo in moto tutto l’impianto organizzativo che contraddistingue le così dette persone normali. Per me, le dico, l’unica cosa anormale è non esserci sposati prima.

Ci scambiamo gli anelli e siamo entrambi un po’ commossi.

Se qualcuno m’avesse chiesto tempo fa di descrivere un ipotetico matrimonio non avrei mai immaginato una scena simile a quella che sto vivendo. Forse per questo è passato tutto questo tempo prima che io pronunci il . Ciò che per gli altri è normale per me è limitante. Ho deciso di sposare M anche per questo motivo. Ha sempre accettato il mio stile di vita e non solo: ha deciso di salire a bordo e di intraprendere questo meraviglioso viaggio alla scoperta del mondo e della vita assieme a me.

Gli spazi infiniti del deserto e del territorio americano ci ricordano quanto inutile sia piantare paletti attorno alle nostre poche sicurezze e convinzioni. In fin dei conti cosa ci offre la normalità? Una fastidiosa percezione di vincoli e rigidità limitanti e, a vederci bene, inutili al nostro benessere. La normalità è in fondo quella cosa che nei musei ci obbliga a stare in fila ed osservare a debita distanza quelli che reputiamo capolavori eseguiti da artisti che hanno aperto le porte della loro vita alla stravaganza, alla ricerca, alla curiosità, all’anticonformismo. I normali queste persone li chiamiamo geni.

Se anche queste persone avessero seguito il vociare, la massa, la critica, oggi saremmo orfani di chissà quante opere.

Magari anche di questo matrimonio che, almeno noi, consideriamo un nostro piccolo capolavoro.

La normalità è conformità alle aspettative collettive.
Robert Maynard Pirsig