Mekong. Noi ed il fiume

Il Mekong attraversa impetuoso e scuro il vasto territorio asiatico partendo dall’altopiano tibetano, bagnando poi Cina, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia ed infine il Vietnam.
Certo riesce improbabile descrivere a sole parole le emozioni che il fiume trasporta con sé. Sarebbe più adeguato trascriverle in uno spartito ove comporre una sonata; dove far esprimere orchestre e musicisti per replicare, forse comunque inappropriatamente, le tante sfumature di pulsante vita che giornalmente si anima tra le acque del Mekong.
Un gigante sole infuocato si spegne nell’orizzonte di Cần Thơ, oscurando minuto dopo minuto il ponte che collega la città sulle sponde del Delta del Mekong a Vĩnh Long. Due piccole realtà che si affacciano sull’undicesimo corso d’acqua più lungo del mondo. L’imponente fiume dettò gli scambi commerciali fino alla comparsa delle prime autostrade che hanno modificato la vita quotidiana di molte persone. Il grigio ed innaturale cemento si prende carico delle migliaia di automezzi pesanti che trasportano i loro materiali tra nuvole di gasolio e la lenta levigazione di enormi pneumatici. La protagonista della nostra storia indossa il tipico copricapo chiamato dai vietnamiti nón lá; vive in una capanna di legno e lamiera, come tante, ai bordi del corso d’acqua. A condividere la casa con lei non ci sono più uomini, ma solo una foto in bianco e nero sbiadita che ritrae suo padre da giovane ed un’alta foto a colori stropicciata ai bordi in cui compare abbracciata a suo marito.
Nel cuore di tutte le notti si alza, mette sul fuoco qualcosa da mangiare e si prepara per la lunga giornata che dovrà affrontare.
A Cần Thơ intanto il laconico monumento dedicato al già leader Ho Chi Minh svolge il suo compito, focalizzare l’attenzione dei turisti sul glorioso e difficile passato vietnamita. Ma le statue rimangono inermi e passive dinanzi alla realtà che scorre inesorabile come il Mekong. Dal buio del fiume e tra le aiuole della passerella che lo costeggiano, fanno fugaci ma inquietanti comparse giganti ratti neri a caccia di cibo. Intorno ambiziose costruzioni moderne e luminose che attirano la curiosità dei turisti che inesorabili proseguono la ricerca del selfie.
La barca carica di merce della donna è già in navigazione da diversi minuti ed il sole compare timidamente; riesce difficile pensare sia la stessa stella che la sera precedente ha infuocato e dipinto d’arancio il cielo. Il silenzio viene scalfito dal progressivo crescendo dei motori delle imbarcazioni dirette al mercato.
Il fermento degli scambi commerciali è tenuto in vita dalla respirazione bocca a bocca praticata dai tour organizzati e da una generazione troppo compassata per aderire al cambiamento. Mentre anche lei si dirige al mercato è cullata dalle onde provocate da enormi natanti di rientro; questi nella notte hanno rifornito i piccoli grossisti. Ad accompagnarli nel tragitto le centinaia di industrie che sono spuntate come funghi negli ultimi vent’anni. Riversano indisturbate i loro liquami contenenti metalli pesanti ed arsenico nel Mekong trasformandolo in una trappola mortale per migliaia di esseri viventi tra cui l’uomo stesso.
La barca della donna si affianca ad un barcone più grande del suo e cominciano le contrattazioni. Deve fare presto altrimenti non avrà tempo a sufficienza per sistemare al meglio il banco al mercato.
E’ tra quei banchi che pesci di ogni genere e tipo, rane, molluschi e crostacei si abbandonano inermi al loro ultimo respiro, pronti ad essere sacrificati in nome della culinaria.
Al mercato di Cần Thơ non ci si preoccupa di vendere e cibarsi di cibo altamente inquinato così come nessuno fa cenno alla costruzione della diga idroelettrica in Cina che potrebbe sancire la definitiva chiusura del sipario del Mekong vietnamita e di tutti i suoi componenti che oggi a gran fatica lo compongono.
Il prezzo da pagare in nome dello sviluppo e della crescita è altissimo.
Ma chissà quali sono i pensieri degli ultimi sopravvissuti della strage modernista e capitalista. Resistono oasi di silenzio, scanditi dalle pagaiate armoniose delle rematrici vietnamite che di quel luogo ne custodiscono il fascino. Inconsapevoli che l’essenzialità dei loro gesti è l’unica via d’uscita del finale già scritto.
Intanto ci facciamo trasportare convinti d’esser soli. Noi ed il fiume.
Guardare il fiume fatto di tempo e d’acqua
e ricordare che il tempo è un altro fiume.
Sapere che ci perdiamo come il fiume
e che passano i volti come l’acqua.
(Jorge Louis Borges)
Parafrasi di terremoto

A L’Aquila quasi tutti gli edifici sono coinvolti in opere di ricostruzioni. Alcuni ancora nascosti dalle reti di protezione, altri sostengono complesse impalcature, qualcuno è stato puntellato ed abbandonato a se stesso.
Sembra di camminare all’interno di un grande set cinematografico svuotato dagli attori protagonisti.
Sempre meno presenti, ma esistono ancora luoghi dove il tempo si è fermato pochi istanti dopo i crolli della notte del 6 aprile 2009. Si possono scorgere dei grossi monitor della saletta computer di un bar. La visione ci fa comprendere i passi da gigante che sta facendo la tecnologia, quasi voglia instaurare in rapidità un ampio e netto distacco dal tragico avvenimento. Affacciandosi alle vetrine di alcuni negozi evacuati si nota la merce giacente disordinata tra scaffali incrinati e pavimenti impolverati.
Camminando tra le vie della città questo è quello che si vede.
Le martellate, le accelerate delle betoniere, lo stridere dei trapani, i richiami tra muratori è quello che invece si sente. Attorniati da un irreale cuscinetto di silenzio.
Il rischio è focalizzarsi su quanto sopra descritto e piangere la parziale dispersione culturale ed architettonica anziché la perdita umana e comunitaria.
L’eruzione del Vesuvio a Pompei provocò la distruzione dell’insediamento umano immobilizzando e cristallizzando nella storia centinaia di persone. Resti a tutt’oggi riconoscibili che ci ricordano gli attimi di sorpresa e sofferenza subiti dagli abitanti. A distanza di duemila anni il ritrovamento di oggetti e resti appartenenti al nostro genere ci ricordano i drammi e le storie vissute all’epoca. Il centro dell’attenzione è rivolta all’uomo.
L’Aquila, a differenza della cittadina campana, sarà ripulita e tirata a lucido pronta per ripresentarsi al mondo come una delle più belle città europee e non solo. Esiste così il rischio che venga celata traccia della sofferenza subita da ogni cittadino. Persona per persona.
Il pericolo più grande è che dopo il caloroso abbraccio umanitario ricevuto in varie forme dagli aquilani, nel caso specifico, le vittime vengano dimenticate o abbandonate per procurata scocciatura. Le richieste d’aiuto protratte nel tempo, pur logicamente legittime, diventano scomode al resto delle comunità integre che non amano protrarsi nelle emergenze. Anche se irrisolte.
Nella storia il bar non porta i ricordi, ma i ricordi portano inevitabilmente al bar quello che si cerca di far emergere è il fatto che le cose si possono ricostruire. A tutto c’è una soluzione, tranne che alla morte. Simbolicamente il riferimento a questo detto è la serranda del bar del protagonista del racconto, tornata in asse dopo il sisma. Qualcosa di materiale che in mezzo alla distruzione addirittura si ripara.
Per chi resta in vita non rimane altro che adattarsi ai cambiamenti e confrontarsi con la nuova realtà.
Guardando negli occhi di queste persone si dovrebbe pensare a quello che hanno perso, a ciò che hanno subito. Negli Stati Uniti dopo il crollo doloso delle Twin Towers hanno individuato un nemico contro cui scagliare la loro rabbia. Tutti i desideri di rivalsa all’accaduto li stiamo pagando ancora oggi con l’aggiunta di altre vittime; anche tra uomini dell’esercito riversati nei luoghi dove si radicalizza il male. A loro detta.
Nel caso nostrano non c’è un nemico da affrontare. Esiste chi punta il dito verso le autorità competenti che non hanno prevenuto niente di ciò che si è verificato, gli orfani delle Chiese semidistrutte che evocano punizioni divine, altri che si appellano alla fortuna o sfortuna.
Ciò che è stato è un evento naturale. Vedendolo da un punto di vista naif e fantasioso una scrollatina del globo terrestre forse annoiato nel sopportare milioni e milioni di puntini che lo modificano quotidianamente estraendo minerali, producendo scorie, lasciando residui ovunque e divorando tutto ciò che si muove tra terra, acqua ed aria.
Anche questa teoria però devia la traiettoria dell’intento della storia dell’uomo del bar che, se ancora non si fosse capita, vuole indirizzare l’attenzione alle persone toccate dall’evento e non alle cose.
Le cose sono fatte per essere usate.
Le persone sono fatte per essere amate.
Il mondo va storto perché si usano le persone e si amano le cose.
Gli scorci di Pavia raccontati da… (II parte)

Alle persone che sceglieranno di raggiungere Pavia in automobile suggeriamo di programmare il navigatore indicando come punto d’arrivo via Nazario Sauro che è in area Cattaneo a pochi metri dal mercato. Quest’ultimo si pratica in Piazza Petrarca il mercoledì ed il sabato. Numerose le bancarelle che lo caratterizzano e che trattano, come in tutti i mercati d’altro canto, salumi, formaggi, pesce, dolciumi ed altre specialità mangerecce, oltre vari soggetti che possono variare dall’indumento all’articolo per la casa. Specie il fine settimana l’atmosfera è festosa, gioviale e si svolge in tutta sicurezza.
Vagando per la città si è spesso costretti a rivolgere lo sguardo verso l’alto, rapiti dalla bellezza delle numerosi torri che si trovano un po’ ovunque. Durante il periodo medievale Pavia veniva chiamata infatti la città delle torri in quanto se ne potevano contare più di cento; ai giorni nostri ne rimangono una trentina.
Proprio non distante dall’Università di Giurisprudenza, dove tra gli altri si è laureata pure la nota conduttrice autrice Maria De Filippi, svettano imponenti le tre torri di piazza Leonardo Da Vinci, costantemente tenute sotto controllo per evitare che subiscano crolli come già avvenuto con la torre Civica accanto al Duomo venuta giù nel 1989.
Un salto nel medioevo lo si fa anche visitando l’imponente castello Visconteo che è unico nel suo genere in quanto ricoperto da un tetto costruito in tempi moderni e che ne preserva le merlature. All’interno del castello vengono allestite diverse mostre di pittori di fama internazionali sia permanenti che momentanee.
Tra le tante eccellenze pavesi voglio anche menzionare la fondazione CNAO che è il Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica per il trattamento dei tumori, esempio mondiale per la cura della malattia del secolo. Già approfondito in maniera efficiente e scrupolosa da Report di Milena Gabbanelli, avrei voluto dare il mio piccolo supporto visitando la sede del CNAO. Non ho avuto l’occasione di organizzarmi per tempo ma prima o poi mi impegnerò in tal senso.
Non è sicuramente una meta turistica ambita, ma evidenziare le realtà che contribuiscono a migliorare la qualità della vita credo sia compito di tutte le persone che in un modo o nell’altro occupano degli spazi con pretese informative come nel caso dei blog.
Lasciando quindi in sospeso motivazioni che variano dalla cucina tradizionale ad argomenti ben più seri, non rimane che salutare Pavia e le persone che mi hanno aiutato ad assaporarla in modo piacevole e privilegiato.
#StayTuned
Steve McCurry a Monza: fotografo d’anime
Il fotografo artista Steve McCurry espone le sue immagini in una mostra di altissimo livello a Monza presso l’altrettanto spettacolare Villa Reale, dal 30 ottobre 2014 al 6 aprile 2015. I primi scatti professionali di Steve McCurry avvengono all’età 19 anni in qualità di reporter in un piccolo giornale in Pennsylvania e che nessuno, lui compreso, avrebbe immaginato si sarebbero evoluti fino a tal punto. La fantastica parabola ascendente deriva dal fatto che il successo professionale è accompagnato passo dopo passo da quello umano, lato che in ogni sua foto è imprescindibile, in alcuni tratti commovente. L’umiltà e la voglia di mettersi in gioco davanti alle persone ed alle situazioni che ha immortalato scatto dopo scatto durante i suoi innumerevoli reportage, sono stati indispensabili per raggiungere l’eccellenza.
Nell’epoca del digitale in cui siamo inflazionati da foto di ogni genere e tipo, tra tanta puerilità e mediocrità presente sui social, è davvero gratificante perdersi nel mondo del McCurry che ci porta per mano, anzi, per occhio, non solo tra i mondi considerati meno fortunati e martoriati da guerre o povertà, ma tra le persone che li popolano, vivono e caratterizzano, facendo notare con discrezione e palpabile garbo i sentimenti contrastanti che essi portano nel cuore e nell’anima. Nelle sale espositive di Palazzo Reale le foto sono esposte senza criterio geografico o temporale ed è davvero piacevole ritrovarsi dall’Afganistan all’India, dallo Yemen al Brasile piuttosto che Giappone, da New York a Roma nel giro di pochi passi. Spaziando nel tempo che i più attenti collocheranno con esattezza storica senza l’ausilio delle targhette identificative (ovviamente presenti) dato che è sufficiente guardare con attenzione la grana della pellicola per distinguere quali furono scattate in Kodachrome da quelle più recenti, digitali. Un abisso tecnologico facilmente riconoscibile.
Tra i tanti volti sconosciuti e veri protagonisti della mostra spicca quello stranoto di Robert De Niro, scelto per simboleggiare la città di New York ed immortalato nell’ultima pellicola kodachrome allora disponibile; foto sviluppata e stampata nell’ultimo piccolo laboratorio esistente al mondo che ancora trattava pellicole prima dell’inevitabile estinzione. Un omaggio di Steve McCurry a questa fantastica pellicola prima di concedersi definitivamente alla tecnologia digitale.
Per dimostrare che niente è per caso e che Steve è un predestinato, un fuoriclasse del reportage fotografico, rimaniamo proprio a NY, dove nel 2001 in occasione di uno dei più tragici eventi mai accaduti ossia il crollo delle Twin Towers, dove oltre al fatto curioso che possedesse un ufficio con vista sul World Trade Center si aggiunge quello che ci fosse tornato proprio un giorno prima da un lungo viaggio, il 10 settembre; come se l’appuntamento con la documentazione di fatti epocali fosse stato scritto sulla sua agenda vitale e come se il destino aspettasse ogni volta quest’uomo per farsi immortalare un’ultima volta prima di cambiare corso alla storia. Davvero incredibile.
D’altronde per essere delle persone uniche e speciali, dei fuoriclasse, non basta il talento, la volontà o qualche colpo di fortuna ma un concatenarsi di astri favorevoli ed avvenimenti che attimo dopo attimo si intreccino con la vita del prescelto in un eterna e formidabile unione di azioni e conseguenze esclusive ed irripetibili.
Oltre all’utilità delle audioguide indispensabili in alcune foto per svelare retroscena, significati ed anche prospettive, che per Steve McCurry saranno anche naturali ma per il comune visitatore sarebbero ardue da focalizzare, l’ausilio di brevi resoconti filmati in cui l’autore racconta vari aneddoti e storie da lui vissute risultano essere molto piacevoli ed altrettanto efficaci nello scopo di integrarci completamente con lo spirito dell’interprete e diventare a nostra volta, con una semplicità disarmante, protagonisti delle storie e luoghi riprodotti dal fotografo.
La lezione che ne deriva, indipendentemente se rivolta ad aspiranti fotografi, professionisti o meno è che con l’umiltà, la passione ed il rispetto verso il prossimo, il mondo ramificherà sotto i nostri piedi infinite strade verso il successo che, come in questo caso, faranno apparire quasi come dettaglio ininfluente la Nikon che ha tecnicamente eseguito lo scatto ma che senza l’ausilio di un grande spirito ad indirizzarla nel cogliere il momento ideale, altro non sarebbe che un prezioso ed inutile oggetto.
Mostra assolutamente da non perdere. Bellissima. “Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te“. (Steve McCurry) Instagram: @McCurryStudios
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