Varsavia, vecchio regime e new economy
Atterrare durante la notte in città sconosciute è inaugurare un teatro con il sipario abbassato.
Le aspettative sono riassunte nelle poche pagine del libretto che ci viene metaforicamente consegnato durante le ricerche informative effettuate prima del viaggio; in attesa che si aprano le tende, nel caso specifico con l’apparir del sole, ci si guarda in giro attenti a carpire qualsiasi movimento o particolare possa nell’attesa modellare ciò che stiamo pregustando.
Durante il tragitto che separa il centro di Varsavia dall’aeroporto di Modlin, si percepiscono sensazioni contrastanti; ciò che si intravede sono numerosi capannoni commerciali molto ordinati e moderni che più ci ricordano di essere in un Paese consumistico occidentale piuttosto che in quello che fino a qualche anno fa era un avamposto minimalista sovietico. L’impressione non cambia una volta arrivati a destinazione dove il freddo pungente intima a coprirsi il volto ed alzare il bavero anche a scudo di passanti ubriachi e disinibiti poco rassicuranti. Di gomiti alzati la capitale polacca ne offre parecchi già nelle prime ore pomeridiane, che contrastano il quasi asburgico ordine e la sua meticolosa pulizia.
L’architettura del secolo è un perfetto amalgamarsi tra il vecchio regime e la new economy. Una combinazione di stili nostalgici ed ultramoderni che in entrambi i casi sembrano mantenere le distanze empatiche con il popolo polacco, apparentemente goffo di suo nella ricerca della propria bistrattata identità.
Davanti a palazzi che fino a qualche decennio fa ospitavano sedi di partiti di regime, oggi ci sono parcheggiate lussuose vetture quali Ferrari, Bentley, Porsche e via dicendo, spesso guidate da giovanissimi che scesi dalle automobili potrebbero tranquillamente essere scambiati per squattrinati ragazzini dalle adolescenziali voglie di cioccolato, ragazzine da conquistare e skateboard da domare.
I rigidi cappotti verdoni dell’esercito hanno presto lasciato spazio ai berretti disegnati dalle grandi visiere e maglie oversize da baseball, in emulazione dei loro ex antagonisti americani.
Fondamentale nel cambiamento è stata, e continua ad esserlo, aver mantenuto la propria moneta, ossia lo złoty. La Polonia è risultato essere luogo industriale fertile e ne sanno qualcosa le migliaia di persone nel resto d’Europa rimaste disoccupate in seguito alle delocalizzazioni delle aziende cui prestavano servizio, risucchiate dalle irrinunciabili condizioni polacche; un costo vita inferiore di quasi un terzo rispetto ai Paesi che adottano la moneta unica. Anche la manodopera polacca, poco incline a proteste o astensioni al lavoro e da sempre istruita a prendere schiaffi in silenzio in cambio di quattro soldi, favorisce l’installazione di nuovi stabilimenti da parte di imprenditori a volte esausti della burocrazia dei loro Stati di prov
enienza, spesso speculatori con pochi scrupoli.
Fatto sta che la nascita del nuovo regime economico cresce fertile e rigoglioso grazie anche alle ceneri concimanti di quello militare, mantenendo vive e rigide le regole comunitarie, oltrepassate spesso e solamente, da periodi di ubriacatezza e sostanze alienanti varie.
Se parte di Varsavia può riferirsi alla versione happy di Gotham City, il Palazzo della Cultura e della Scienza in particolare, con il centro storico dichiarato Bene della Comunità e sotto protezione dell’UNESCO che brilla in tutta la sua bellezza, la periferia mantiene lo stile sovietico nelle palazzine con il medesimo carattere architetturale e qualche lieve cenno di personalizzazione. Le ruspe sbuffano incessanti nuvolette di fumo nero mentre spianano terreni pronti ad ospitare moderni e lussuosi edifici che ben presto accoglieranno i primi eredi della fortuna capitalista riversata nella metropoli; molti dei quali alle prime luci dell’alba sorseggeranno il caffè ammirando da grandi vetrate lo spettacolo offerto dal fiume Vistola.
Varsavia però è anche Lazienki Park, dove coppie di innamorati passano le ore a scambiar promesse e guardare il cielo o dove le famiglie ritrovano i propri spazi ormai risicati e compressi nella frenetica vita quotidiana. All’interno del parco di 76 ettari è possibile ammirare l’omonimo palazzo in stile barocco neo classico, fu residenza termale, ed i bagni reali da cui prende nome. Da ammirare anche altre attrazioni tra cui un teatro risalente a fine 1700. Da sottolineare l’intelligenza artistica dei polacchi, indubbiamente inclini a queste iniziative, nello sfruttare la location con eventi culturalmente molto rilevanti anche di carattere scientifico e sportivo.
Moto che passione. Mugello.
La giusta location per ambientare una storia di passione e motori non può che essere una porta di garage aperta ed uno sparuto gruppo di ragazzini con la maglietta macchiata d’olio che smontano, modificano, rimontano pezzi di motorini che non riescono a mantenere intatte le loro sembianze originali per più di qualche giorno. Tra una martellata e l’altra tanti sorrisi, qualche brugola che cade, accenni di imprecazione in dialetto romagnolo, una passata del braccio a spargere fuliggine di scarico e sudore sul viso e poi ancora in sella a sgasare e testare i mezzi. Le cose che ci fanno innamorare di un pilota non sono l’intervista, la villa, l’auto lussuosa o lo yacht ormeggiato a Montecarlo; è lo sguardo deciso e l’eterna sfida a dimostrare di avere la padronanza del mezzo, sia una Vespa o un go kart, una Porsche o una moto da cross, l’esser capaci di sfidare il tempo, di guardare negli occhi la propria donna e tradirla con il mezzo meccanico nel mentre fa l’occhiolino alla morte, spesso fortunatamente accantonandola, altre volte purtroppo abbracciandola. Le corse amplificano gli eventi della vita soffiandoli poi attorno attraverso il rombo del motore.
Questo è quello che si respira al Mugello una domenica mattina come tante altre, senza riflettori delle tv e privi del passo cadenzato delle lunghe gambe delle ragazze ombrellino; la sola presenza di appassionati, quelli che hanno cominciato a smontare un Benelli in un garage di periferia, che a Natale non gradivano una felpa; piuttosto al freddo ma con i risparmi investiti in un silenziatore Polini montato sullo scarico.
Gente non completamente normale che ha trasformato la passione per i motori in uno stile di vita che coinvolge tutta la famiglia. Le moto che sfrecciano sul rettilineo non sono quelle di team ufficiali o frutto di sponsorizzazioni miliardarie; sono sudore e fatica, rinuncia e duro lavoro. Il venerdì sera non ci sono i meccanici a caricare le moto sul carrello, né gli chef a preparare il menù; spesso ci sono le compagne di questi centauri a tenere a bada, come al solito, la minuscola parte razionale di un mondo completamente strampalato, se visto dal di fuori. Madri che dal dover assistere i loro figli al cambio di pannolini si ritrovano a tirare su la zip di una tuta che lì vestirà eternamente. Difficile per la mamma spiegare ad u
n bambino che la moto del padre, anche se in gruppo, non combatte per la posizione ma contro il tempo; oggi non ci sono gare, solo prove. Meno difficile farlo divertire facendolo girare in sella ad una mini moto. Al resto della crescita ci penseranno fattori quali l’odore di gomme, olio e carburante che come feromoni diventeranno richiamo di vita per l’ignaro e predestinato fanciullo.
Questa in fondo è la passione italiana, il fascino che scaturisce dalla fantasia ed a volte improvvisazione, un’arte che si tramanda di generazione in generazione. Una domenica come tante altre è bello vedere che nel paddock a fianco della BMW Motorrad ufficiale ed in mezzo a decine di lucidi motorhome ed auto di grossa cilindrata con targa tedesca ci sia una porta di garage con all’interno un gruppo di ragazzini che smontano, modificano, a volte imprecano in romagnolo e rimontano pezzi di superbike. Apparentemente hanno i capelli brizzolati e qualche ruga in più in viso, ma racchiudono un cuore che batte forte e l’animo da ragazzaccio per bene.
Cose da garage.
Giordania: cultura contro pregiudizio
Finalmente pubblichiamo anche l’articolo riguardante un Paese davvero sorprendente qual’é la Giordania. Luogo nel quale ci si arriva fondamentalmente dopo aver scelto di visitare la fù capitale dei Nabatei, Petra. Una delle sette meraviglie al mondo moderno, patrimonio dell’umanità dell’Unesco e facente parte dell’area dichiarata parco nazionale archeologico, Petra la fa da padrona incontrastata dei luoghi più simbolici da visitare.
La Giordania va vista con il cuore, prima che con gli occhi, sempre pronta a regalarci qualcosa di inaspettato dietro ad ogni angolo del suo pur contenuto territorio ed in grado di sorprenderci in continuazione. Più facile a dirsi che a farsi per molti turisti che non si vogliono staccare dagli affanni della loro quotidianità e che ormai si preoccupano più del segnale wifi che delle antiche realtà che hanno la fortuna di sfiorare. La confusione tra arabo e musulmano è uno dei primi grossolani errori che si compie nel giudicare il popolo giordano, la mancata distinzione tra musulmani sciiti e sunniti è il secondo e per finire l’atteggiamento di superiorità è il terzo. Tre elementi che generalmente ostacolano la buona riuscita della visita. La Giordania appartiene al ricchissimo territorio storico culturale chiamato la Grande Siria (Sham), che comprende la Siria, i territori occupati quale la Palestina, Libano, Iraq, fino ad arrivare al Kuwait. Confini creati in maniera alquanto maldestra e dei quali paghiamo oggi le conseguenze dalle varie colonie che negli anni hanno frammentato questi territori. Gli inglesi e Churchill con il suo righello sparti-territori in primis. “Noi siamo quello che mangiamo” recita un detto popolare che mai meglio si concretizza proprio in questo caso, dato che tutti i territori sopra citati sono anche accomunati da una cucina pressoché identica. Qualcuno starà attendendo la citazione del vicino Egitto, piuttosto che Tunisia o Marocco, tanto per buttare gli arabi nello stesso calderone; si persiste nell’errore, perché gli ultimi tre Stati citati ben poco hanno a che fare con gli arabi essendo popoli nord africani. Musulmani sì, ma non arabi.
Ed anche l’atteggiamento delle persone in Giordania si differenzia di gran lunga da altri popoli più o meno vicini: desta quasi sorpresa il fatto di poter attraversare un Suq (mercato) senza esser presi di mira e senza essere infastiditi dai vari commercianti. In Giordania il contatto con lo straniero non è gratuito, nessuna pacca sulla spalla, nessun “amico, amico, compra, compra”. L’ospitalità araba si basa sul rispetto dell’ospite. La prima cosa che disorienta l’arroganza occidentale è proprio questo atteggiamento apparentemente distaccato e fiero del popolo giordano che può vantare un laureato in ingegneria ogni quindici abitanti. Il livello di istruzione è decisamente alto grazie all’investimento culturale voluto fortemente dai regnanti capeggiati dal benvoluto Re Abdallah e la Regina Ranja, molto attiva sul piano dell’integramento sociale lavorativo (e non) da parte dei meno abbienti, in particolar modo donne e bambini. Chi si aspetta di trovare un popolo allo sbaraglio sbaglia di grosso: il dinaro, moneta locale, viaggia di pari passo con il dollaro e le banche proliferano come funghi grazie al flusso di soldi proveniente da Paesi esteri quali l’Arabia Saudita. La Giordania è una sorta di Svizzera del Medio Oriente per intenderci. Scuole ed Università coprono la stragrande maggioranza dei cittadini che una volta conseguita la laurea si spostano nel mondo ad esercitare la loro professione. Grazie a condizioni favorevoli che la Giordania offre loro, rimandano i capitali nel Paese d’origine.
Ecco perché gli italiani con il naso all’insù quando arrivano nella capitale Amman rimangono perplessi nel vedere scorazzare Porsche, Mercedes, BMW, Mustang ed Hammer come se piovesse. Sgomenti lo diventano quando vengono a sapere che le tasse sulle vetture fan lievitare il prezzo di quasi il doppio rispetto all’Italia, ad esempio. Fuori dalle finestre degli hotel di Amman il canto dei Muazzin provenienti dalle moschee si insinua tra la massa di milioni di mezzi che si muovono all’unisono verso le varie destinazioni di questa enorme città, originariamente costruita su sette colli sul modello di Roma e che ora ne conta diciannove.
Città che continua inesorabilmente ad espandersi verso ovest in contrapposizione con il silenzioso e maestoso deserto del Wadi Rum, scenario che ha svolto il ruolo da protagonista durante le numerose battaglie della rivoluzione araba capeggiate dall’irlandese Lawrence d’Arabia e sfociate nella liberazione dagli invasori turchi ed il colonialismo inglese. Wadi Rum che ancora oggi ospita gli abitanti del deserto, i beduini, definiti commerciali da qualche turista ignorante ma che, in realtà, hanno adeguato un pezzettino delle loro giornate alle invadenti visite, quelle sì commerciali, di ingombranti visitatori. Difficile capire per un occidentale che il beduino non ha bisogno di soldi per vivere; quando navighi con il tuo fedele dromedario tra la sabbia ed il sole cocente devi essere in grado di trovare la vita ovunque, anche nei posti più impensabili. Se non hai beni da acquistare a ben poco servono i soldi.
Così, nella terra dove manca l’acqua e dove il fiume Giordano, deviato dall’arrogante Israele per raffreddare le proprie centrali nucleari, è sempre più debole ed incapace di rigenerare il mar Morto che perde a sua volta un metro l’anno, viene ancora offerta la possibilità di fare un viaggio dentro al viaggio. Un viaggio verso le nostre origini.