Invenzioni

Il Prof. J.B. nacque a Lafayette il 2 marzo 1833.
La sua vita per lunghi anni fu monotona e solitaria.
Ogni mattina si recava nella sua scuola dove insegnava storia da quasi 40 anni.
In una di queste mattine del 1888, il Professore si presentò in aula come sempre e, dopo aver aperto il registro delle presenze, cominciò a fare il solito appello. Qualche alunno ricorda d’esser stato chiamato con un nome sbagliato quel giorno, così come per tutta la durata dell’anno scolastico. Ma c’era da capire, il professore era ormai vecchio e stanco. Era anche deluso di quello che fin’ora la vita gli aveva riservato.
Ai tempi dell’Università J.B. era forte e robusto, oltre che a scuola era considerato un primo della classe anche negli sport.
Egli praticava il calcio, nuoto, corsa, salto in alto ed in lungo e qualche volta si dilettava in qualche torneo di pindul pandul. Alto, moro, dal fisico scolpito, era un ragazzo molto ambito dalle sue coetanee e non.
Così, all’età di 20 anni s’innamorò perdutamente di C.O., una ragazzina di Youngsville che frequentava il suo stesso corso di letteratura presso l’Università di Lafayette. Anche per lei sbocciò l’amore ma per i due fu impossibile frequentarsi. I genitori di lei l’avrebbero voluta a fianco di un uomo dello spettacolo, possibilmente un pagliaccio, mentre i genitori di J.B. lo costringevano a studiare giorno e notte per diventare un professore stimato e ricercato come il padre W., direttore di una scuola elementare e come la madre S.T., insegnante di storia presso il liceo.
La distanza tra Lafayette e Youngsville fece il resto.
J.B. rimase solo fino a 58 anni, mentre si dice che la povera C.O. morì a 24 anni investita da un autobus di linea guidato da un autista ubriaco. (Si dice messicano)
Persi in seguito anche i genitori, anche loro investiti da un autobus di linea, si dedicò anima e corpo agli studi.
Viveva da solo nella buia casa ereditata dai compianti e passava ore intere a correggere i compiti nell’ampio salone dove tutto era rimasto identico per lunghi anni. Gli stessi mobili, gli stessi quadri, le stesse foto. Amava ascoltare musica classica di sovente e raramente invitava qualche studentessa nella sua abitazione per dare ripetizioni. Dicono fosse davvero bravo. Preferiva accogliere studentesse minorenni, le quali, dopo qualche lezione, passavano gli esami con voti stratosferici.
Una di queste rimase addirittura incinta durante degli studi di anatomia. Tutti gridarono al miracolo, in quanto la ragazza era vergine e single.
Il tempo intanto passava, il mondo si evolveva, cominciavano delle guerre e finivano delle altre.
Accanto a lui, la sera, davanti al camino, riposava la sua amata gatta Greta (in onore di Greta Garbo). Un gatto nero che più di una volta era scampata al peggio. Per ben due volte finì infatti investita dall’autobus di linea, ma ne uscì miracolosamente illesa.
In una di queste sere, mentre il professore rileggeva un suo scritto, avvenne la svolta.
Greta infatti miagolava ripetutamente fino al punto di infastidire il docente. Cercò di farla smettere dando lei del cibo, ma la gatta non ne volle sapere. Il professore allora la mise in una bacinella, con la speranza di farla addormentare. Nulla. Escogitò allora un altro sistema. Prese uno scatolone e ci ripose all’interno la bacinella con la gatta dentro. Poi chiuse.
I miagolii erano finiti.
J.B. però si preoccupò di tutto quel silenzio e volle accertarsi che la gatta si fosse effettivamente addormentata. Ritagliò allora nella scatola un foro abbastanza grande da poterne vedere l’interno e lo chiuse con una lastra di vetro per far si che il gatto non uscisse. Poi ripiegò la bacinella in verticale in modo tale da poter vedere il gatto.
Il gioco era fatto. Aveva scoperto un modo per isolare i miagolii del gatto, pur vedendolo dall’oblò ricavato nella scatola. Passarono i minuti, le ore e il professore si addormentò.
Il suo risveglio fu angosciante. Greta non dava segni di vita. Cercò di scuotere la scatola ma niente. Urlò forte e disperato il nome del gatto, ma ancora niente. Prese allora una caraffa d’acqua e la gettò all’interno dello scatolone.
La gatta si svegliò all’improvviso e dalla paura cominciò a correre come una forsennata cercando una via d’uscita. La scena che si presentò agli occhi del professore fu racapricciante: la gatta rinchiusa in una scatola che faceva roteare la bacinella come i criceti e lui inerme, che assisteva alla scena che gli si presentava nell’oblò.
Greta dalla paura lasciò uscire dal suo corpo qualche escremento e questo fu il lampo di genio.
Il professore si accorse che, nonostante tutto, la gatta era sempre più pulita. Giro dopo giro il nero di Greta era di un nero mai visto prima.
Ho inventato un lavagatti, pensò soddisfatto il vecchio professore. Pensò anche ad un nome da dare alla sua invenzione. Lavagatti era banale e scontato, ci voleva qualcosa di diverso. La sua Greta, la sua Greta Garbo, la sua meravigliosa attrice aveva ispirato tutto questo. Chiamò allora l’invenzione lava-attrice.
Il prof. J.B. cercò di brevettare l’idea, ma ricevette solo risate e derisioni anziché proposte di sviluppo e lavoro. Così fino alla fine dei suoi giorni, quando spirò in un bar vicino alla stazione degli autobus di linea di Lafayette. Correva il 1891 quando fu colpito da un infarto. Un presente, si dice messicano, avrebbe omesso di chiamare i soccorsi.
Solo anni dopo qualcuno si accorse che la scatola lava-attrice avrebbe cambiato le abitudini di milioni di persone. Non dovette far altro che sostituire i gatti con panni sporchi.
Si mormora sia stata proprio una delle ex allieve del professore a fare fortuna. Ulteriore indizio il fatto che riferendosi alla temperatura dell’acqua da mettere nello scatolone, la studentessa avrebbe dichiarato agli esperti: al professore piaceva a 90.
Infine l’errore nella trascrizione di lava-attrice che, omesse le doppie per ignoranza del responsabile brevetti, fu denominata lavatrice.
Non credo che la necessità sia la madre delle invenzioni – le invenzioni, a mio parere, nascono direttamente dall’inattività, probabilmente anche dall’ozio, forse addirittura da una certa pigrizia. Per risparmiarci fastidi.”
Agata Christie
Memphis. Negro League (cap.2)

any reference to facts or persons is purely coincidental
ORE PRIMA DEL FATTO.
Era da tempo immemorabile che la famiglia W, eccetto il padre che stava scontando gli ultimi anni, non si trovava a fare colazione riunita in sala pranzo.
Dopo il periodo buio passato a frequentare bande di spacciatori e gente poco raccomandabile, B, grazie anche all’aiuto del reverendo, era riuscito a rimettersi in carreggiata. Tornato a scuola, seppur perdendo un anno, i risultati erano soddisfacenti anche considerando l’istituto pubblico che frequentava, non certo tra i più rinomati di Memphis.
Da poco aveva ripreso a suonare la batteria suscitando subito interesse da parte degli MTown-Int un gruppo fondato recentemente dai due solisti che erano ragazzi che facevano coppia anche nella vita; lui un ragazzo di colore di Memphis, lei una ragazza bianca del New Jersey che si dilettava anche a comporre alcuni brani. Il sassofonista era invece un armadio dalla faccia da bambino, originario di New Orleans e di razza nera; il chitarrista era mingherlino e psichedelico stile David Bowie nella versione anni ’80 ed infine il bassista, un ragazzo di colore trasferitosi da poco a Memphis dal Mississippi per seguire il padre impegnato in un’azienda di gasdotti.
Illustrò il progetto con entusiasmo alla madre ed al fratello che lo stavano ascoltando con aria bonaria.
“Stasera suoneremo al BB King!”
Esclamò tra una forchettata di pancake zuppo di sciroppo d’acero e l’altra.
Masticando voracemente cibo e parole continuò
“Incredibile. Vi rendete conto? Cioè il merito è di V che è davvero brava. Mamma devi sentire come canta”
La madre lo redarguì amorevolmente
“Mangia piano, non ti ingozzare. Ma chi sarebbe questa V?”
Il ragazzo non diede minimamente retta al rimprovero e continuò con la bocca piena
“Ma come chi è? Te l’ho detto cento volte! La solista del nostro gruppo!”
Intervenne il fratello
“Non rivolgerti così a nostra madre. Portale rispetto”
Finito di redarguirlo si alzò dal tavolo, si pulì la bocca con una salvietta, baciò la mamma sulla guancia e si congedò. Dentro era finalmente sereno nel rivedere B con la vita in pugno, esternamente doveva mantenere l’aspetto autoritario che l’aveva accompagnato dal giorno in cui il padre era scomparso e cui figura si sentiva obbligato a sostituire
“Arriverò tardi in Beale Street ma non mi perderò il tuo primo concerto per nessuna cosa al mondo. Però adesso pensa a studiare testone e smettila di ingozzarti!”
Stava uscendo dalla porta di casa quando B lo chiamò
“Ehi fratellone senti… Ma se andassimo a trovare papà?”
La madre intenta a pulire qualche stoviglia rimase pietrificata.
Lasciò scorrere l’acqua dal rubinetto per qualche secondo fissando il muro piastrellato davanti a sé.
“Stasera dopo il concerto ne parliamo”
L’ULTIMO CONCERTO. IL FATTO.
B teneva gli occhi chiusi e mimava le battute del pezzo iniziale che avrebbe dovuto suonare la sera stessa al BB King. Nella sua cameretta si immaginava il locale, uno dei più famosi in Beale Street e vetrina non indifferente a disposizione dei musicisti. Non pensava più al mezzo disastro combinato quella stessa mattina a scuola durante l’interrogazione. L’insegnante aveva capito la situazione. Il ragazzo sembrava davvero consapevole di come aveva buttato via un anno della sua vita e questo rendevano i professori più benevoli nei suoi confronti. In fin dei conti era buono ed ingenuo e queste caratteristiche lo esponevano maggiormente ai pericoli che quotidianamente presentava il suo quartiere. Avrebbe compiuto diciannove anni tra qualche mese, quando argomentava felice le sue fantasie ne dimostrava quindici.
Le luci del giorno cominciarono a lasciar spazio all’imbrunire mentre la stanza di B rimbombava dei bassi dei brani di Buddy Guy. La madre non volle interrompere quel momento anche se aveva la sensazione che da lì a poco la casa sarebbe potuta crollare a causa delle vibrazioni.
Non era della stessa idea il vicino che imprecò prima contro il diavolo e poi verso il ragazzo che fece cenno di scuse dalla finestra spalancata e che chiuse pochi istanti dopo aver abbassato il volume.
Il vestito che indossava per l’occasione sembrava più adatto ad una cerimonia ecclesiastica piuttosto che ad un batterista di una boys band, fatto sta che l’aspetto del bluesman ce l’aveva tutto.
Scese velocemente le scale di legno facendo rimbombare pure quelle.
Sua madre scosse rassegnata la testa e poi lo accolse per un ultimo abbraccio.
Prima di andarsene si sentì in dovere di ringraziarla
“Senza un fratello rompipalle ed una mamma come te non so se sarei riuscito a fare quello che sto facendo. Grazie. Salutami lo zio se lo senti!”
La madre rimase sulla porta a guardarlo andare via mentre la casa diventò improvvisamente muta.
B raggiunse la fermata del tram che l’avrebbe portato fino in Beale Street. Era passato parecchio tempo dall’ultima volta che era stato nella zona considerata la più turistica di Memphis.
Mentre attendeva l’arrivo del caratteristico mezzo pubblico notò passare lentamente dall’altra parte della strada una Mercedes e ne riconobbe subito il proprietario. Fece finta di niente dirigendo il proprio sguardo verso uno dei tanti murales che caratterizzano la città. La macchina scomparve nel buio della notte.
Passarono pochi istanti prima che le luci della lussuosa berlina illuminassero il tratto di strada dove si trovava B. Il finestrino oscurato del lato passeggero posteriore si abbassò facendo comparire metà faccia di K che non esitò a rivolgersi a lui arrogantemente
“Guarda chi si rivede… Ti pensavo morto fratello…”
Il ragazzo non riuscì a trattenere l’imbarazzo e non proferì parola
“Dove devi andare di bello? Non avrai mica paura di me? Dai sali su fratello che ti accompagno io”
Mentre lo invitava a salire K era stuzzicato da due appariscenti ragazzine sedute accanto a lui e cui vestiti lasciavano poco spazio alla fantasia. In quella macchina erano tutti fatti di coca e chissà che altro.
“Allora sali o no?”
Gli fecero eco le ragazze ammiccando e dispensando stupidi sorrisini
“Dai vieni qui con noi che c’è spazio per tutti”
L’ingenuità prevalse ancora una volta al buonsenso e B cedette alle insistenze del suo scomodo conoscente.
Gli occupanti della macchina si fecero stretti mentre B cercava di occupare meno spazio possibile sul sedile di pelle pregiata. Le ragazze nel frattempo gli erano piombate addosso come prostitute in cerca di clienti.
Nessuno si preoccupò di chiedere la destinazione a B tant’è che la macchina deviò per tutt’altra direzione.
“Ma dove mi state portando? Dai per favore, mi aspettano in Beale Street. Se non volete andare là almeno fatemi scendere. Dai ti prego”
Nessuno lo stava ascoltando. Gli occupanti della Mercedes, B escluso naturalmente, vivevano nel loro mondo parallelo.
K si sparse della polvere bianca sul dorso della mano che fece scomparire nelle sue narici dopo qualche istante, poi ci pensò una delle due ragazzine a ripulirne ogni traccia leccandogliela.
Fu in quel istante che il suono della sirena ed i lampeggianti rossi e blu riportarono alla realtà i balordi.
“Che cazzo facciamo adesso?” gridò terrorizzato il conducente che accennò a fermarsi.
“Non lo so. Continua a guidare. Continua a guidare. Accelera. Fammi pensare. Tu accelera cazzo!” ordinò K.
Anziché fermarsi la Mercedes cominciò a prendere velocità.
La spavalderia delle due ragazzine aveva lasciato spazio ad urla isteriche.
I due ragazzi, K e B si guardavano senza dire nulla. Il primo sapeva che quella sera sarebbe finita male per lui, il secondo che la fortuna ancora una volta gli aveva girato le spalle a pochi centimetri dalla felicità.
L’inseguimento terminò dopo poche miglia quando la macchina finì su un albero.
Il guidatore del mezzo aveva preso una bella botta ma se l’era cavata con una spalla lussata e qualche escoriazione in faccia dovuta allo scoppio dell’airbag. Fece una fatica immonda nell’aprire lo sportello della macchina e lasciarsi cadere sul prato di una graziosa villetta delimitato dal recinto in legno che aveva appena sfondato.
Le volanti della polizia nel frattempo si erano triplicate e si erano posizionate a qualche decina di metri dalla berlina fumante.
“Scendete dall’auto con le mani bene in vista!”
Urlavano gli agenti brandendo le armi in direzione della vettura
Le due ragazze utilizzarono la porta posteriore sinistra per scendere, tra grida stridule e fastidiosi lamenti. Non si erano fatte nulla.
Dalla parte destra della vettura invece scese K spogliato di tutta la sua arroganza e privo di espressività.
L’unico ad essere rimasto all’interno della Mercedes era B che fissava il cofano accartocciato abbracciato all’albero, il parabrezza frantumato, le schegge di vetro sui sedili.
Le luci blu e rosse dei lampeggianti della polizia schiarivano ad intermittenza le immagini avvolte dal buio della notte ed il fumo del radiatore.
Ad un tratto, come volesse svegliarsi da un incubo, si ricordò del concerto.
“Mi stanno aspettando, devo andare” disse tra sé e sé.
Balzò fuori dall’auto e sfilando K che era lì fuori, in piedi, immobile, vicino al portellone con le braccia alzate, sussurrò ancora.
“Mi stanno aspettando”
Cominciò a correre più veloce che poteva.
Le luci, le grida, il buio della notte, il suo respiro…
“Fermati, dove vai, così ci fai ammazzare!”
Poi uno sparo ed un calore improvviso attraversò il suo corpo.
Il primo battito alla gran cassa.
Un altro colpo. Più ovattato. Ancora calore nella schiena. Il charleston.
Altre esplosioni. Il tocco di frusta sul piatto ride. Il respiro sempre più affannoso.
Gli ultimi passi come battute di quattro quarti sui tom tom.
Un rullante che accompagna gli ultimi respiri.
La caduta. Il crash.
Il suo giro di batteria si era compiuto.
New Orleans. Immagini e parole (parte terza)

Ehi, adesso ti dico qual è il problema dell’America. Potrebbe essere il più grande paese della Terra. Davvero. C’è tutta questa gente diversa che viene per fuggire all’oppressione e alla povertà, in cerca di una vita migliore. E poi cosa fanno? Rimangono attaccati alle cose che li hanno messi nei guai. Continuano a combattere le stesse guerre e odiare le stesse persone del loro vecchio mondo. Vogliono essere italiani o greci, irlandesi o polacchi o russi, africani o vietnamiti o cambogiani o che altro… E a quello restano appiccicati. Stanno con quelli della propria razza e dubitano di tutti gli altri e perché…? Cultura? Storia? Che diavolo è, un mucchio di roba che i tuoi ti hanno detto di credere per tutta la vita? E quindi è tutto vero? Hitman
”Perché della cucina non ne vogliamo parlare?” Disse con aria severa mentre staccava i jack dell’amplificatore dal suo basso. “E’ una forma d’arte anche quella. Cioè scegli gli ingredienti, che sono le note e ci componi un brano bilanciato ed armonico. Poi pensa che a disposizione non hai solo sette note…” Lo ascoltavo mentre passavo lo straccio sul sassofono. “Ti dirò di più… In certe jam session facciamo friggere gli strumenti come delle padelle incandescenti” Continuò senza alzare lo sguardo concentrato com’era a riporre il basso nella custodia “Cioè a me piace la varietà delle cose. L’alternarsi del gusto, dei colori e delle note. Quindi mi spieghi che cazzo ne può capire un razzista della Jambalaya? Cioè mi spieghi come fa un razzista ad ordinare una Jambalaya?”
Nel giornaliero slalom di distinzioni c’è spazio anche per il contrasto tra filosofi e pratici, antipodi che battagliano spesso per lo scalpo della ragione. I pratici hanno parecchie componenti per formare il loro nutrito esercito da schierare nella battaglia per aggiudicarsi lo scettro del più indispensabile del pianeta. Sostengono che senza il loro sudore quotidiano il mondo sarebbe una bolla di idee e niente di più. D’altro canto l’esercito delle menti affila le armi nel sostenere che senza concepimento logico nessun oggetto potrebbe prendere vita. In questo tiro alla fune le forze si equilibrano rendendosi indispensabili l’un l’altra.
La cosa bella della musica è che fondamentalmente è anarchica. Tutti, ma proprio tutti, possono ascoltarla e suonare lo strumento che gli pare. Ci sono eccezioni anche in questo caso, vero, ma più che sociali sono fisiche. Il benestante è esclusivista nel acquistare un pianoforte a coda o un’arpa che sono strumenti parecchio costosi, vero, ma esistono alternative anche per chi è impossibilitato a farlo. Basta suonare una tastiera elettronica o un piano a muro, i tasti non cambiano. Il silenzio invece è sempre più difficile da comprare. E’ difficile godere del silenzio in un palazzo condiviso da più famiglie; una villa singola ed isolata è inaccessibile per la maggior parte delle persone. Il meno abbiente fatica a trovare silenzio anche durante gli spostamenti, costretto ad usare rumorosi mezzi pubblici. Il ricco può scegliere e spesso preferisce muoversi autonomamente su auto sempre più insonorizzate. Ecco nella musica non c’è questa disparità. Una ragazza può scegliere di suonare il suo violino per strada o in un’orchestra. Ricca o povera essa sia, poco conta.
”Ehi uomo fammi il favore, sali dietro e reggi la scala. Non vorrei la perdessimo durante il tragitto” “Ok uomo ma sei sicuro d’averla assicurata bene? Non vorrei cadesse la scala con me sopra” “Santo dio… Certo che l’ho legata bene.” “Senti uomo, ma se sei così sicuro d’averla fissata come dio vuole mi spieghi che senso ha che io mi ci sieda sopra?” “Dannazione uomo è solo una forma di sicurezza in più. Serve a farmi stare più tranquillo.” “Ehi uomo fa stare più tranquillo te ma non me. Devo proprio salirci?” “Ehi uomo sali su quella cazzo di scala” “Ok uomo, se lo dici tu ci salgo. Ok”
Una casa non è una questione di mattoni, ma di amore. Anche uno scantinato può essere meraviglioso.
(Christian Bobin)