Los Angeles. Il cadavere di Santa Monica ep.1

Le persone presenti videro il corpo di un uomo avvolto in un sacco che stava per essere caricato sul furgone del coroner. Le generalità erano ignote, i motivi del decesso altrettanto. L’unica cosa certa era che quel giorno pioveva ed anche parecchio, così da costringere gli agenti della polizia a fare piuttosto in fretta nel rimuovere quel cadavere. L’acqua che scendeva fitta sulla banchina del Santa Monica Pier comunque non ostacolava la curiosità dei turisti che non persero occasione per fare qualche foto a quella che sembrava la scena di un film. I più audaci andarono subito a ricercare altri indizi tra le scalinate in prossimità del ritrovamento.
Una volta chiusi i portelloni del furgone la sagoma scomparve agli occhi dei curiosi.
Chi mai poteva essere quell’individuo?
La prima ipotesi è la seguente.
La mattina presto un turista americano di una sessantina d’anni si sveglia di buonumore. Sedendosi sul materasso sistema faticosamente un cuscino dietro la schiena, indossa gli occhiali da vista e controlla velocemente i messaggi presenti sullo smartphone. Scorre le email e le foto di sua figlia assieme ai nipotini. Di tanto in tanto si gira a guardare benevolmente sua moglie ancora distesa mentre si gode il dormiveglia. Le da un bacio sulla guancia ricevendo in cambio un verso di disappunto. Lei vuole posticipare di qualche minuto il risveglio. Lui si alza e, prima di andare in bagno, scosta leggermente le tende offuscanti della finestra della camera dell’hotel. Scorge una giornata grigia e piovosa, ma si pregusta il fatto che sia a Los Angeles a festeggiare l’anniversario di nozze con la donna con cui ha condiviso gran parte della sua vita. Lei apre gli occhi definitivamente disturbata dallo scroscio dell’acqua del lavandino prima e dal ronzio del rasoio elettrico poi. Anche la signora guarda fuori e pensa che è la giornata ideale per starsene a letto a guardare tv crogiolandosi con stuzzichini e bicchieri di vino anziché uscire a visitare la città. Il marito si presenta all’uscio del bagno pulito e profumato come un bambino; sollecita la moglie a prepararsi in fretta per scendere a fare colazione. L’abbraccia avvolgendola con la sua corporatura piuttosto imponente, le stampa un altro bacio sulla guancia provancandone una scherzosa smorfia di disappunto e si reca nella sala ristorante dove sarà da lì a poco.
L’ombrello che stanno reggendo per ripararsi dalla pioggia è rigirato dal vento così che i due devono ripararsi in uno store in prossimità del cartello stradale che indica la fine della Route 66. Scattano alcune foto mentre le nuvole si appropriano definitivamente del famoso luna park che tante volte è stato protagonista delle scenografie di numerosi film. I bambini approfittano del maltempo per riempire la sala giochi. Loro due si siedono invece a consumare un hamburger all’interno di un locale e, tra un morso e l’altro al panino farcito, si scambiano qualche chiacchiera. Lui progetta un altro viaggio, magari nel vecchio continente. Non è mai stato in Francia, o in Spagna. Certo nel Wisconsin non si vive male e si è vaccinati al maltempo, però passare qualche mese in Europa possibilmente al caldo sarebbe l’ideale. Lei non si lascia trasportare dall’entusiasmo e lo invita a godersi i momenti che stanno passando a Los Angeles. Sono lì da pochi giorni e la California è ancora tutta da esplorare.
La pioggia finalmente cala d’intensità ed i due decidono di passeggiare un pò. Lui è affascinato dall’Oceano e dalle onde che sbattono violente sui pali del molo rovesciando acqua salata a pochi centimetri dai loro piedi. C’é un istante in cui tra le fitte e scure nubi filtra un raggio di sole che richiama l’attenzione di entrambi. In quei momenti sembra che la natura riponga su di loro una benevola attenzione. Pare arrivare da un mondo lontano e sconosciuto anche il gabbiano che si posa sul parapetto a breve distanza da dove stanno contemplando il mare e la sua imponenza.
Poi la luce scompare oscurata da una cortina nera, il vento comincia a soffiare più forte e la pioggia riprende a cadere fitta. Il gabbiano si congeda librando le ali prima di spiccare il volo, lasciandoli soli nell’affrontare la tempesta. Lei invita il marito a correre nel cercare riparo ma dopo pochi passi l’uomo comincia ad accusare dei dolori al petto. La moglie ha preso qualche metro di vantaggio nella breve corsa che l’ha portata sotto una pensilina mentre l’uomo è fermo piegato in due con le mani sui fianchi e la faccia verso terra. La schiena esile di sua moglie si annebbia alla sua vista. Protrae la mano verso quella direzione.
Passano pochi secondi e la signora alza lo sguardo per verificare che la tettoia funga da riparo. Poi si gira verso il marito per sollecitarlo a fare in fretta ma dietro a sé vede la sua sagoma a terra.
L’uomo con la quale aveva condiviso ventanni della propria vita è riverso sul pavimento senza vita.
Forse era lui la persona dentro al sacco?
La seconda ipotesi riguarda un uomo di mezza età, senza fortune, senza casa. (continua)
New Orleans. Immagini e parole (parte terza)

Ehi, adesso ti dico qual è il problema dell’America. Potrebbe essere il più grande paese della Terra. Davvero. C’è tutta questa gente diversa che viene per fuggire all’oppressione e alla povertà, in cerca di una vita migliore. E poi cosa fanno? Rimangono attaccati alle cose che li hanno messi nei guai. Continuano a combattere le stesse guerre e odiare le stesse persone del loro vecchio mondo. Vogliono essere italiani o greci, irlandesi o polacchi o russi, africani o vietnamiti o cambogiani o che altro… E a quello restano appiccicati. Stanno con quelli della propria razza e dubitano di tutti gli altri e perché…? Cultura? Storia? Che diavolo è, un mucchio di roba che i tuoi ti hanno detto di credere per tutta la vita? E quindi è tutto vero? Hitman
”Perché della cucina non ne vogliamo parlare?” Disse con aria severa mentre staccava i jack dell’amplificatore dal suo basso. “E’ una forma d’arte anche quella. Cioè scegli gli ingredienti, che sono le note e ci componi un brano bilanciato ed armonico. Poi pensa che a disposizione non hai solo sette note…” Lo ascoltavo mentre passavo lo straccio sul sassofono. “Ti dirò di più… In certe jam session facciamo friggere gli strumenti come delle padelle incandescenti” Continuò senza alzare lo sguardo concentrato com’era a riporre il basso nella custodia “Cioè a me piace la varietà delle cose. L’alternarsi del gusto, dei colori e delle note. Quindi mi spieghi che cazzo ne può capire un razzista della Jambalaya? Cioè mi spieghi come fa un razzista ad ordinare una Jambalaya?”
Nel giornaliero slalom di distinzioni c’è spazio anche per il contrasto tra filosofi e pratici, antipodi che battagliano spesso per lo scalpo della ragione. I pratici hanno parecchie componenti per formare il loro nutrito esercito da schierare nella battaglia per aggiudicarsi lo scettro del più indispensabile del pianeta. Sostengono che senza il loro sudore quotidiano il mondo sarebbe una bolla di idee e niente di più. D’altro canto l’esercito delle menti affila le armi nel sostenere che senza concepimento logico nessun oggetto potrebbe prendere vita. In questo tiro alla fune le forze si equilibrano rendendosi indispensabili l’un l’altra.
La cosa bella della musica è che fondamentalmente è anarchica. Tutti, ma proprio tutti, possono ascoltarla e suonare lo strumento che gli pare. Ci sono eccezioni anche in questo caso, vero, ma più che sociali sono fisiche. Il benestante è esclusivista nel acquistare un pianoforte a coda o un’arpa che sono strumenti parecchio costosi, vero, ma esistono alternative anche per chi è impossibilitato a farlo. Basta suonare una tastiera elettronica o un piano a muro, i tasti non cambiano. Il silenzio invece è sempre più difficile da comprare. E’ difficile godere del silenzio in un palazzo condiviso da più famiglie; una villa singola ed isolata è inaccessibile per la maggior parte delle persone. Il meno abbiente fatica a trovare silenzio anche durante gli spostamenti, costretto ad usare rumorosi mezzi pubblici. Il ricco può scegliere e spesso preferisce muoversi autonomamente su auto sempre più insonorizzate. Ecco nella musica non c’è questa disparità. Una ragazza può scegliere di suonare il suo violino per strada o in un’orchestra. Ricca o povera essa sia, poco conta.
”Ehi uomo fammi il favore, sali dietro e reggi la scala. Non vorrei la perdessimo durante il tragitto” “Ok uomo ma sei sicuro d’averla assicurata bene? Non vorrei cadesse la scala con me sopra” “Santo dio… Certo che l’ho legata bene.” “Senti uomo, ma se sei così sicuro d’averla fissata come dio vuole mi spieghi che senso ha che io mi ci sieda sopra?” “Dannazione uomo è solo una forma di sicurezza in più. Serve a farmi stare più tranquillo.” “Ehi uomo fa stare più tranquillo te ma non me. Devo proprio salirci?” “Ehi uomo sali su quella cazzo di scala” “Ok uomo, se lo dici tu ci salgo. Ok”
Una casa non è una questione di mattoni, ma di amore. Anche uno scantinato può essere meraviglioso.
(Christian Bobin)
Why do you fuckin run?

La domanda è posta da un ragazzo ubriaco trasportato da uno sfuggente pick up nella parte del cassone, in piedi, mentre si regge alla barra metallica posta a ridosso del cabinato: “Why do u fuckin run? Why?” Intuibile il significato, che comunque possiamo tradurre in “Perché minchia corri? Perché?”
L’involontario destinatario è un signore di 42 anni suonati che di corsa sullo stesso versante di strada sta intraprendendo la discesa che coincide con gli ultimi 4 km di percorso appena beatamente e pacificamente svolto.
Non trovano immediata risposta né uno, né l’altro.
Il primo probabilmente già dopo qualche metro avrà evaporato attraverso il suo sguardo ebete l’immagine di un distinto signore con due dita medie alzate a lui rivolte, il secondo, riacquisita la forma più consona agli sportivi che non agli ultrà, ha riflettuto a lungo sul: “Perché corro?”
Naturalmente di primo acchito i pensieri postumi si focalizzano a ripetere la scena con il finale più adeguato, come nei film riguardanti il conflitto tra yankee e viet cong in Vietnam, ad esempio, dove gli americani nella finzione si rimodellano vincitori morali o di battaglie di una guerra che nella realtà hanno sonoramente perso su tutti i fronti. Nello specifico il finale più adeguato sarebbe forse stato un bel “fatti i cazzi tuoi!”.
Anche in questo caso però sarebbe andato perso il piccolo patrimonio concesso da qualcuno che manovra i fili dall’alto e che quella mattina, forse stanco di pensare a cose più impegnative, ha deciso di mettere sulla strada del riservato e silenzioso omino un disturbatore filosofo. (L’omino ultimamente di squinternati ne incontra parecchi tra l’altro)
Se niente è per caso, lo stesso dicasi del meraviglioso libro “L’arte di correre” di Haruki Murakami, che è stato regalato al runner di mezza età da un suo caro amico, con il quale condivide anche questa piccola grande passione e che mai suggerimento di lettura migliore avrebbe potuto fare; perché tra i vari piacevoli e scorrevoli versetti dell’ebook (o libro cartaceo) c’è la chiave per trovare risposta al cerebroleso ubriaco che si è fatto inconscio interprete della domanda che si pongono migliaia di persone; siano esse appassionate di corsa, sportive o meno.
Corro perché mi va. Semplicemente.
Ci possono essere altrettante migliaia di motivazioni per spingerci a correre, ognuno avrà la sua personale.
I più giovani saranno alla ricerca di record da battere o per modellare il proprio fisico, i meno giovani per tenersi in forma, eliminare la pancetta e forse regolarizzare la propria vita, altri ancora lo faranno per avvicinare mete spirituali, chi lo fa per scaricare tensione o per respirare aria pura e via dicendo.
Motivazioni che, condivido con lo scrittore e maratoneta giapponese Haruki Murakami, devono nascere dal profondo di noi stessi.
Ecco perché d’istinto la risposta che scaturisce nei pochi secondi che seguono la domanda dell’ubriaco che te lo chiede alla sprovvista difficilmente sarà diversa da un vaffanculo. Un’autodifesa del nostro ego più profondo che è appena stato colpito e proprio durante il culmine dell’approfondimento.
Ma non è la risposta giusta. Quella corretta è: corro perché mi va.
A differenza della prima cavernicola reazione, questa risposta per se stessa infonde tranquillità, sicurezza e fa sì che appaia anche un sorriso a chi la pronuncia. Sorriso che è consigliato mantenere stampato sulla faccia proprio durante le ultime fatiche di una gara o esercizio in quanto aiuta a rilassare i muscoli del corpo ed inspirare più aria, che è la prima energia vitale del corridore.
Consapevolezza e libertà sono parole di grande intensità e significato ma non tutti colgono occasione per catturare lo stato di forma che questi elementi determinano.
Se ci pensiamo tutti gli uomini sono in eterno movimento spirituale, chi camminando o chi di corsa, tutti quanti percorriamo un percorso lungo e tortuoso dal finale ignoto.
Ognuno è libero di scegliere come arrivare al traguardo. L’esperienza accumulata suggerisce che scorciatoie ed artifizi non portano mai al raggiungimento di grandi risultati, qualcuno prima o poi lo coglie, qualcun altro no. Pazienza.
Se l’ebete ubriaco non poneva la domanda (quando scrivo ebete non si senta coinvolto Renzi), probabilmente l’omino avrebbe continuato a correre senza sapere fondamentalmente il perché, cercando risposte illuminanti che spesso e volentieri si trovano tra i versetti delle frasi a concorso pubblicate nelle riviste specializzate o in qualche aforisma dettato da filosofi della Magna Grecia.
Invece…
“Perché minchia corri? Perché?”
“Perché mi va”