Los Angeles. Il cadavere di Santa Monica ep.2
La seconda ipotesi riguarda un uomo di mezza età, senza fortune, senza casa.
Da quando è cominciata la brutta stagione a Venice Beach ha più spazi dove potersi muovere. Può cercare riparo sotto le vedette dei bagnini, oppure infilarsi in qualche anfratto tra i muri delle case. Tutti i suoi averi sono un cumulo di cianfrusaglie avvolto da un telo cerato azzurro che ha recuperato in un parcheggio chissà dove. La polizia è più benevola nei suoi confronti data la scarsa presenza dei turisti. Vivere vicino alla spiaggia offre molte comodità, tra cui quella di usufruire delle docce pubbliche. Non è passato troppo tempo da quando sfoggiava un fisico scolpito ed una ragazza da copertina che lo accompagnava a cavalcare onde nelle spiagge più affascinanti degli States. Aveva tutto ciò che serve per alimentare il sogno americano. Un lavoro da dirigente in una catena di supermercati, una villetta in un tranquillo quartiere di periferia di Los Angeles, una macchina, la moto e l’inseparabile tavola da surf.
Il fine settimana era l’occasione per riunirsi con gli amici, bere e fare festa. Il matrimonio arrivò immancabile a suggellare una bellissima copia. Entrambi, come detto, sembravano dei modelli di riviste. Le cose andavano benissimo fino allo scoppio della bolla finanziaria che ha coinvolto milioni di americani tra cui lui ed i suoi familiari. Il crollo della catena di supermercati, il licenziamento, l’impossibilità di pagare il mutuo della casa, investimenti sbagliati. Una caduta libera che lo portò in pochi mesi ad un declino fisico e psicologico tale che costrinse la sua giovane moglie a chiedere la separazione. Rifiutandosi all’abbandono cercò conforto nell’alcool peggiorando ancora di più la situazione. Le denunce e gli avvocati della sua ex consorte avevano definitivamente sancito la sua fine. Poi la strada. I primi giorni furono alienanti, incredibili. Dalla vergogna di poter esser riconosciuto da qualche conoscente si era messo in cammino facendo scorrere dietro a sé tramonti ed albe fino a perdere l’interesse nel misurare il tempo con l’orologio che barattò subito per racimolare qualche soldo da poter spendere in alcool. Fu l’ultima volta che consumò una bevanda alcoolica. I primi tempi per vivere utilizzava i ragionamenti imposti dalla società attuale: compra, produci, vendi, compra, produci, vendi…
Ben presto si rese conto che non aveva più nessun mezzo per poterlo fare. Nonostante il suo impegno nel cercare di risalire la china giorno dopo giorno peggiorava tutto. La barba lasciava scoperte alcune rughe scavate che ben si evidenziavano sulle sue guance fino all’altezza degli occhi. La pelle era diventata a chiazze, vuoi per la scarsa igiene, vuoi per i funghi che l’avevano inevitabilmente contaminato. Si era dovuto adeguare anche ai discorsi che scambiava con altri homeless con i quali di tanto in tanto si perdeva in chiacchiere senza futuro. Un senzatetto vive solo di attimi presenti e gli apprezza come fossero lingotti d’oro. Una volta aver pensato di dover affrontare un futuro come questo sarebbe stato assurdo, pensare ora a ciò che aveva vissuto lo era ancor di più. Non si riconosceva più nella vita precedente. Non si riconosceva nemmeno nei suoi simili. Vivere in mezzo ad una strada lo stava avvicinando di più ad una specie animale che ad essere un umano al quale nemmeno si sforzava troppo di appartenere ancora. Quanti dialoghi con i piccioni, qualche cane… I gatti ricchi di Venice Beach. Non avere niente non significa dover odiare qualcuno anche se di motivi per farlo ne avrebbe avuti.
Cammina lungo la spiaggia quando un uomo in divisa gli si avvicina. Gli allunga benevolmente dieci dollari invitandolo con aria fintamente severa a comportarsi bene. L’uomo accetta e sfoggia un sorriso senza qualche dente. Li accartoccia nella tasca della camicia. Un barbone che ha assistito alla scena cerca di sfilargli i soldi dalla tasca ma lui riesce a divincolarsi e camminare dritto. Il Santa Monica Pier è a mezz’ora di cammino e lo vuole raggiungere. Là troverà riparo dal vento che soffia sempre più forte e dalle nuvole in lontananza che non promettono nulla di buono. Spinge un vecchio carrello della spesa che trasporta il suo sacco. Usa parte del telo per ripararsi dalla pioggia che intanto ha cominciato a cadere fitta. In queste condizioni non basta una mezz’ora per raggiungere il molo ma passo dopo passo ci arriverà. Senza pensare a nulla; libero.
Dopo qualche ora la sua anima era in balia di un destino migliore abbandonando un corpo martoriato dalle condizioni atmosferiche, gli stenti della fame, l’usura degli eccessi passati e la fatica di sopravvivere.
Prima che il corpo fosse messo nel sacco nero la polizia notò che in testa presentava una ferita lieve ma non volle farci caso. In fin dei conti a chi importava della vita di un homeless. Nelle tasche dei suoi indumenti non furono mai trovati nemmeno i dieci dollari che qualche ora prima gli erano stati donati da un agente. (continua)
Dio perdona, la maratona no
Ultimamente sempre più persone si stanno avvicinando alla corsa.
Il perché è facile da dirsi: è un gesto primordiale, apporta numerosi benefici al nostro metabolismo, stimola la mente, è pratico ed economico rispetto ad altri sport, professionisti ed amatori gareggiano contemporaneamente.
In passato questa disciplina era abbastanza snobbata dal marketing che di suo si limitava ad offrire agli atleti una canotta di cotone, un pantaloncino ed un paio di scarpe da ginnastica standard mentre oggi giorno assistiamo ad un vero e proprio boom commerciale legato al running. Il primo passo, come sempre, l’avevano fatto gli americani promuovendo la sfera benessere sotto forma di jogging. La fatica richiesta per questo tipo di attività era ed è abbastanza blanda rispetto al running e tale da non spingere utenze ed aziende alla ricerca di prodotti particolarmente performanti.
Partecipare a gare vere e proprie a fianco di atleti professionisti, implica sicuramente uno stimolo maggiore sia per i podisti amatoriali che per le case produttrici di articoli sportivi che infatti stanno cavalcando l’onda alla grande, sfornando un prodotto avveniristico dietro l’altro e rendendo la corsa, come detto, uno sport sempre più praticato.
Fatto sta che se qualche anno fa correre una maratona era vista come un’impresa biblica riservata a pochi eletti anche a causa della marginalità tecnica offerta, oggi siamo vicini al passo successivo, dove la vera sfida pare essere diventata l’Ultramaratona con la 42K declassata a gara di velocità anziché endurance. Per chi non lo sapesse, una qualsiasi maratona dista sempre la stessa distanza, ossia 42,195 Km, con il superamento di questa si definisce Ultramaratona che invece parte generalmente dai 50K, per arrivare ai 100 ed oltre.
Personalmente credo che la moda della corsa stia creando un po’ di fraintendimenti. L’idea che un’amatoriale, addirittura un dilettante, possa correre assieme ai professionisti è sicuramente affascinante, ma da lì a sentire che i primi citati ritengano la maratona un obiettivo troppo comune che li induca poi a partecipare ad un’Ultra è abbastanza discutibile.
A mio avviso infatti non si possono ignorare i tempi di gara. Guardando parte della classifica della mia maratona di New York, ad esempio, ho notato che sono stato preceduto da sessantenni che, con tutto il mio infinito rispetto per loro che saranno stati vecchie glorie o persone particolarmente allenate, mi hanno fatto particolarmente incazzare. Chiaramente non per la loro performance, ma per la mia. Qualcuno penserà che l’importante è partecipare; dispiace ma non la penso così. Perché avere la possibilità di correre una maratona è impegnarsi a raggiungere i propri limiti e, quando questo non succede o non ci vai nemmeno vicino, ti girano. Non è una questione di podio o di medaglia, è una sfida personale. Di mezzo ci sono allenamenti sotto il sole e la pioggia, al caldo e al freddo, con il vento e con la neve, mattina, pomeriggio e sera. Non per arrivare primo, ma per arrivare al meglio delle proprie possibilità. Quando ciò non accade per diversi motivi, spesso per un infortunio ed una serie di allenamenti sbagliati o trascurati, ecco che si verificano casi e persone le quali si rifugiano in qualcosa di ancora più impegnativo. Per poter magari dire al sessantenne cazzuto che ti ha preceduto alla maratona, sì però io ho corso l’Ultra, tu no. Cazzata assoluta, perché anche aumentando il grado di difficoltà che riduce il numero di partecipanti si andrebbe incontro ad un’ulteriore insoddisfazione personale senza il raggiungimento di un risultato decoroso. Mi spiego meglio: se il primo classificato termina un’Ultramaratona di 100K in 7 ore arrivare con 11 ore di ritardo ha davvero un senso più logico che non si limiti al finisher stampato sulla t-shirt celebrativa? Massimo rispetto per tutti, ma qui ci si pone davanti ad una distinzione piuttosto netta tra atleti adeguatamente preparati e martiri semi incoscienti alla ricerca di sé stessi. Lo stesso vale anche nelle maratone: ha senso finirne una in 8 ore camminando per la maggior parte della gara? Naturalmente mi riferisco a persone potenzialmente in grado di sostenere un carico di lavoro che possa poi permetterti di completare le competizioni correndo al massimo delle proprie possibilità (o quasi) dall’inizio alla fine.
Non esistono scorciatoie per raggiungere i propri obiettivi. Le gambe vanno istruite a macinare chilometri, giorno dopo giorno, il cuore deve rafforzarsi e pompare il sangue necessario, lo stomaco va alimentato in modo corretto, la testa deve sostenere con pensieri positivi tutte le operazioni precedenti. Ogni allenamento saltato a causa di piccoli o grandi infortuni, svogliatezza o pigrizia, è una simbolica manciata di sassi che mettiamo nelle nostre tasche e che il giorno della gara sentiremo zavorrarci chilometro dopo chilometro fino allo sfinimento. Più alziamo l’asticella e più aumenta il grado di difficoltà in fase di preparazione. Non ci sono vie d’uscita. Lavoro, lavoro, lavoro.
Questo discorso sì che realmente accomuna tutti senza discriminante: dai professionisti agli amatori, dai più giovani ai più anziani, dalle donne agli uomini: per raggiungere il proprio massimo bisogna abituarsi a dare sempre il massimo.
Perché Dio perdona, la maratona no.
Nella corsa gli ultimi non sono certo meno degni dei primi. Anzi, per certi aspetti lo sono anche di più. Arrivano fino in fondo correndo molte ore in più di quelli che sono in testa. Arrivano fino in fondo anche se sanno fin dall’inizio che non avranno mai una medaglia al collo
Marco Olmo
Amatorialissimi: Intervista a Maurizio De Angelis
“Comincio a pianificare la gara con un vero atleta, Maurizio De Angelis, che mi propone di correre in coppia. Ma lui merita un capitolo a parte” scrivevo nel post precedente a questo.
Ed eccolo qui il capitolo a parte.
Correre in coppia… Stando alle sue aspettative avrei addirittura dovuto sostenerlo psicologicamente nella fase finale della 60ma Maratona di New York. Peccato che pochi secondi dopo il via Maurizio era già scomparso dai radar con un ritmo gara piuttosto spinto per i miei standard. Addìos. Ci siamo rivisti in serata nella hall dell’albergo dove abbiamo fatto una bella chiacchierata.
Di cosa ti occupi?
Sono un impiegato della ditta Cooperlat di Jesi, mi occupo di programmazione della produzione e turnazione dei dipendenti.
Quali sport pratichi?
Atletica, nuoto, ciclismo, triathlon, volley, kyte surf.
Pratichi sport da quando eri bambino? Quando sei passato all’agonistica/prime gare?
Si, sin da bambino pratico sport, a Falconara Marittima negli anni 60-70 la pallavolo dominava su tutti gli sport compreso il calcio. Infatti avevamo la squadra di volley maschile nel campionato di serie A. Ed io giocavo al volley, anche se non ero un gran giocatore, sino ai primi anni 90 con squadre di categorie inferiori.
La scoperta del podismo è stata casuale perché durante una delle tante preparazioni atletiche pre-campionato, correvamo con tutti i componenti della squadra, a loro rimaneva sempre difficile invece per me era di una facilità estrema. Da lì mi sono accorto di questo ed ho continuato a correre in solitaria abbandonando il volley (anche perché iniziavo ad avere una certa età).
La prima gara podistica, una 15K cittadina con un po’ di salita, poi via via tante gare podistiche del circuito marchigiano e della mia prima maratona nel 97′ senza aver mai fatto un lungo più di una 21K. 3 ore e 13 minuti a Roma. Nel 98′ feci il mio personale nella maratona con 2.51’23” a Venezia.
Nel frattempo scoprì anche il nuoto per cercare al fisico di dargli un po’ di respiro e purtroppo mi innamorai anche del nuoto master e iniziai a partecipare a diversi meeting.
Nuotavo ma soprattutto correvo tutti i giorni ormai era diventata la mia prima passione e con un altro mio collega di squadra decidemmo di coronare la corsa iscrivendoci alla Marathon des Sables nel 2004 (corsa sulla distanza di 240K che si svolge interamente nel Sahara marocchino ndr)
Quante ore della settimana dedichi all’allenamento? (bici/corsa/nuoto)
Ora pratico sport tutti i giorni ma vario almeno in una settimana: il lunedì corro e nuoto, martedì bici in estate ed in inverno un’ora di rulli, mercoledì corsa in pista, giovedì corsa e nuoto, venerdì riposo, sabato bici e nuoto, domenica bici o gara di triathlon d’estate
Che sensazione provi ad indossare un pettorale?
Indossare il pettorale è come prendere la scossa di 220 volt…. mi scuote il torpore che qualche volta si posa dentro di me… e scaturisce in adrenalina, ogni volta che partecipo ad una manifestazione mi prometto sempre di rispettare il passo… invece se fisicamente sto bene cerco sempre di sfiorare il massimo. (me ne sono accorto… ndr) Sono consapevole di sbagliare ma è più forte di me.
Sei molto competitivo? Consideri la gara una sfida verso gli altri o verso te stesso?
Si mi sento molto competitivo come avrai capito da quello che ho risposto sopra. È una competizione solo ed esclusivamente contro me stesso. Non mi interessa del tempo degli altri, nella gara sono solo punti di riferimento “in quel frangente” altrimenti con altri atleti c’è sempre uno scambio di info o altre volte ci si aiuta negli allenamenti e addirittura nella gara. Cito un segmento della mia esperienza della Marathon des Sables quando in una tappa io ed il mio compagno di squadra abbiamo aiutato un altro italiano a terminare la tappa senza interessarci alla nostra posizione finale e questo è stato un bellissimo gesto. (non è scontato durante una gara)
C’é una gara alla quale hai partecipato che hai particolarmente a cuore? Aneddoti a riguardo?
La mia prima maratona a Roma nel 1997 , il mio personale a Venezia nel 1998 , Marathon des Sables nel 2004 resterà sempre nel mio cuore perché è stata una gara di endurance e sopravvivenza, aneddoti. Di quella c’è ne sono vari da raccontare, come ho già accennato sopra io con il mio compagno di viaggio abbiamo aiutato un ragazzo di Treviso che era in difficoltà; essendo disidratato non aveva più la forza di continuare una tappa, il mio zaino che pesava 13 kg e quello di Marco Olmo che ne pesava 6 …ed alla fine ho diviso il mio cibo con Marco.
La più faticosa (anche nella preparazione)
La più dura è stata la Maratona di Milano il 9 aprile scorso… dopo 12 anni dall’ultima maratona ho deciso di cimentarmi ancora con la regina dell’atletica, non è tanto la fatica fisica ma la costanza degli allenamenti e la paura di non riuscire ad arrivare con la forma per affrontare un obbiettivo prefissato (a 57 anni non è come a 40 che tutto è scontato) comunque è uno stress psicologico più che fisico.
Solitario o social?
Mi piace condividere sui social i miei obbiettivi, sia dei “Trionfi” che delusioni comunque il raggiungimento di un obbiettivo. Ho un profilo su FB ed Instagram, molti amici sportivi e mi interfaccio con loro.
Il tempo dedicato allo sport ti porta benefici anche nel campo lavorativo o allenarsi frequentemente è un impegno ingombrante?
Gli allenamenti portano benefici in tutti i campi: familiare, lavorativo e sportivo chiaramente; alla sera mi sento equilibrato vedo le cose nella maniera giusta questa è la dimensione dopo un allenamento. Mi alleno dopo le 17.30 quando esco dal lavoro
Progetti futuri?
Mi sono iscritto ad un Ironman completo a Klagenfurt a luglio 2019. Per chi fa triathlon e un sogno terminarlo, dato che 3.600 mt di nuoto, 180K di bici e 42K di corsa alla fine credo che per uno sportivo “normale” siano abbastanza duri. Speriamo bene.
Sogno (o sogni) nel cassetto?
Sogni nel cassetto …si con il mio allenatore di nuoto abbiamo deciso che quando avrò 80 anni e lui 50, mi accompagnerà ai mondiali di nuoto master per fare i 1500mt in vasca lunga. Non è uno scherzo.
Segui una dieta particolare?
No, non seguo nessuna dieta, mangio tradizionale una dieta mediterranea, non mi faccio mancare niente, a 57 anni se sacrifico anche il cibo alla fine lo stress aumenta. Chiaramente non bevo liquori, né vino; bevo birra con un’ottima pizza, un bel dolce a fine pasto, non mi faccio mancare niente sempre nei limiti.
Hai avuto (o hai) un atleta di riferimento?
No non avuto nessun riferimento non ho un idolo
Un suggerimento/incoraggiamento a chi vorrebbe incominciare a praticare uno sport quali nuoto/bici/corsa o tutti e tre assieme
Consigli, suggerimenti ne infondo tanti… a Falconara che è una cittadina di pochi abitanti ci si conosce e i falconaresi mi vedono sempre correre per le strade della cittadina e sono il loro riferimento per la corsa, nuoto e bici.
…ed il kite surf. Ma quella è un’altra storia ancora.
La Maratona di New York (vista da dentro)
Anche la melodia della sveglia pare diversa questa mattina.
Le luci esagerate a Time Square non hanno lasciato spazio al buio della notte così come incessanti suonano tra le mie orecchie le sirene dei mezzi di soccorso che transitano tra le vie di New York.
Sulla sedia della scrivania davanti al mio letto ho disposto tutti gli indumenti che dovrò indossare. Un gesto che non si limita alla praticità; è un rito spirituale che serve a riordinare le idee e che i maratoneti conoscono bene. Sistemare con cura pantaloncini, calze, integratori… Spillare il numero sulla canotta e poi osservarlo pensieroso per qualche minuto.
Mi lavo i denti guardandomi allo specchio e stamattina quel banale gesto assume una forma di solennità.
Finiti i preparativi esco dalla camera dell’albergo.
Già la colazione svela un’infinità di differenze tra coloro che prenderanno il via alla 60ma edizione della New York City Marathon.
Non riesco a fare a meno di sbirciare nei piatti delle persone. Siamo quello che mangiamo, diceva qualcuno; nello specifico penso che mangiamo come corriamo.
Fuori la temperatura è fresca, ma non gelida. Non si intravedono nuvole e si prospetta una bella giornata a differenza dell’anno precedente.
L’organizzazione ha già cominciato a sistemare le transenne sotto gli occhi vigili della polizia. Le sirene delle volanti ruotano ad intermittenza illuminando con fasci luminosi blu la base dei grattacieli. Grossi automezzi azionano ad ogni manovra acuti segnali acustici ritmando il frenetico ed ordinato lavoro dei volontari ed operai dai caschi gialli e giubbini catarifrangenti.
Mi sento un puntino perso nell’Universo nell’assistere a ciò che sta avvenendo. Sembra così fantastico prenderne parte.
I bus giungono al molo e le persone infreddolite attendono di salire sul traghetto.
Manhattan indossa ancora il suo bellissimo abito da sera mentre scorre tra le finestre dell’imbarcazione che ci sta accompagnando alla partenza. Non ho con me nulla per poter immortalare ciò che vedo. In un primo momento ho qualche rammarico, ma prevale l’intimità del momento. Sarà il mio cuore, supportato dalla mia memoria, a ricordare ciò che sto vivendo. Ormai non c’è dubbio che la giornata è una parentesi meteorologicamente perfetta e l’alba che si riflette tra le acque del fiume Hudson, che stiamo navigando, lo sigilla. Anche la Statua della Libertà si concede fiera e vanitosa ai nostri sguardi.
Non manca molto per arrivare a Staten Island. C’è del tempo per parlare di esperienze personali, materiali tecnici, integratori. È un modo per conoscere nuove persone ed ingannare l’emozione. Tra non molto sarò parte del colorato movimento che scandisce l’avvio della manifestazione al quale fino a pochi anni fa non davo alcun significato.
Il villaggio pre-gara accoglie i partecipanti in modo estremamente ordinato. L’ennesimo controllo di sicurezza e poi l’attesa. Bevo un tè caldo, indosso il regalo di uno sponsor preso in uno stand, ossia una cuffia colorata prevista per avvolgere il pensatoio capelluto dalle disattese rigide temperature, approfondisco qualche conoscenza. Comincio a pianificare la gara con un vero atleta, Maurizio De Angelis, che mi propone di correre in coppia. Ma lui merita un capitolo a parte.
C’è gente in ogni dove; un agglomerato di ogni genetica possibile immaginabile e quasi mi stordisce osservare tutta la varietà di persone e comportamenti.
Il tempo scorre e si avvicina il momento fatidico per cui le migliaia di persone presenti si sono preparate da mesi, forse anni. Mentre mi spoglio dall’economica tuta presa per l’occasione dedico un pensiero a chi non ha potuto esserci per svariati e sfortunati motivi. Sono centinaia le persone iscritte che rinunceranno alla maratona ed a loro auguro di far parte ad una delle prossime edizioni.
Il tonfo sordo della prima cannonata oltre a sancire la partenza dei primi atleti preoccupa un po’ tutti gli altri. Gli elicotteri sorvegliano la zona e lo spiegamento di forze di sicurezza è imponente.
Le onde colorate si susseguono velocemente fino al momento in cui è chiamata in causa quella verde di cui faccio parte.
In un attimo mi trovo a correre sul ponte di Verrazzano con una vista su Manhattan che toglie il fiato. Sono attimi che racchiudono un turbinio di emozioni e di energia che nessuno si preoccupa di nascondere. Per la gioia del momento qualcuno ride, qualcun altro urla, c’è chi piange. Poi il silenzio cadenzato dal pulsante suono di migliaia di scarpe ed altrettanti cuori.
Ho studiato abbastanza bene il percorso che sto affrontando per la prima volta e non voglio forzare già alla prima salita. Ho scelto una strategia conservativa.
Nel frattempo il mio cronometro perde il segnale gps e mi riporta valori di passo completamente sballati.
Non è la prima maratona a cui partecipo e vedermi superato dopo poche centinaia di metri da un signore che corre con i mocassini ed un peruviano in costume Inca con tanto di piume in testa non dovrebbe preoccuparmi. Comincio invece a pensare che sto esagerando con il risparmio energetico. Non c’è pubblico fino al terzo chilometro. I lati delle strade di Brooklyn già strabordano spettatori che esibiscono cartelli e tifano come fossero tutti nostri parenti. Grazie alle loro animazioni la lunga e noiosa strada che porta al 13K in prossimità del Brooklyn Academy of Music è scorrevole e divertente. Ci sono gruppi musicali e persone festanti. Scelgo di aumentare un po’ il ritmo ma mi ritrovo nuovamente davanti ad una salita. La strada in questo caso si restringe e la folla è ancora più presente. Cancello dalla mente le strategie distratto dagli incoraggiamenti di centinaia di bambini e dall’onda viola e chiassosa di un magnifico coro gospel organizzato sul marciapiede davanti ad una chiesa. A rendere l’atmosfera silenziosa ci pensa il Quartiere ebraico di Williamsburg dove la partecipazione all’evento è inesistente. Riposo le orecchie. La mezza maratona è fissata nel Queens dove pochi chilometri dopo è presente il famigerato Queensboro Bridge, rinomato per il vento che soffia gelido di traverso sui maratoneti. Una volta attraversato sarò di nuovo a Manhattan. La giornata è talmente bella che veniamo graziati dal meteo così che il ponte non presenta nessun pegno da pagare. Evento unico in 60 anni di Maratona di New York, giurano i partecipanti più esperti. Siamo intorno al 25K e mi rammarica vedere un ragazzo fermarsi per un problema al polpaccio. Non faccio in tempo a pensarci che mi ritrovo a percorrere la curva alla fine del ponte animato da un foltissimo pubblico che festeggia il nostro ingresso a Manhattan come fossimo i primi del gruppo, transitato almeno un’ora prima. La stanchezza e la botta di energia che mi arrivano dritti in faccia quasi mi commuovono.
Gli interminabili sali scendi dell’infinita 1st ave sono la rampa di lancio per cercare di abbassare il mio tempo che è molto al di sopra delle mie possibilità. Sinceramente non sto correndo per fare il mio personal best o per dimostrare niente a nessuno ma voglio dare un senso agli allenamenti svolti durante tutta l’estate. Comincio a sentire bruciore all’interno coscia di entrambe le gambe a causa di un ripetuto sfregamento dei pantaloncini. Per fortuna ai lati delle strade ci sono i volontari che oltre a liquidi ed alimenti distribuiscono anche vaselina spalmata su stecchi simil ghiacciolo. In teoria servirebbero ad evitare l’abrasione ai capezzoli che è una delle cose più dolorose che possono capitare quando corri. Non è facile riuscire a prendere un bastoncino in corsa e cercare di convincerli che sei consapevole di quello che stai facendo. In molti, infatti, scambiano la vaselina per cibo commestibile e se la mangiano. Di conseguenza i ragazzi sono esageratamente premurosi e prevenuti nel concedertene uno. La spalmo e dopo un immediato bruciore mi sento sollevato.
Entro ad Harlem.
Una carica emozionale fortissima mi dà un ulteriore spinta per aumentare il ritmo. Stavolta mi metto a correre seriamente senza dedicare tempo a dare il cinque ai bambini ai bordi delle strade o concentrarmi sulle meraviglie che mi circondano. Mancano circa 10K per entrare a Central Park e mettere fine alla gara più suggestiva che ho corso fino ad ora. È bello accelerare il passo alla fine perché c’è la cosiddetta raccolta dei cadaveri. Quelli che hanno dato tutto nella prima parte di gara e che ora sono in panne. Ne supero davvero tanti ma per recuperare il tempo perso nei primi 30K dovrei viaggiare alla velocità di Kipchoge. Vengo colto dai crampi quasi all’altezza del punto dove l’anno precedente mi ero posizionato per fare foto agli atleti. Impreco, rallento, dialogo con i muscoli, penso alla fortuna che ho questa volta ad essere dalla parte giusta della transenna e mi riprendo in fretta. L’ingresso a Central Park è spettacolare e l’incitamento che non è mai mancato per quasi 35K è commovente. Trovo le ultime motivazioni nella sfida con un altro italiano. Entrambi ne traiamo beneficio tagliando il traguardo con dignità.
C’è qualcosa nell’aria di New York che rende il sonno inutile.
(Simone de Beauvoir)
Un sincero ringraziamento ad Antonio ed Annalisa di Terramia che mi hanno concesso questa fantastica opportunità.
Huế: pioggia sulla città proibita
La pioggia è incessante e sul vetro opacizzato traccio distrattamente dei segni con il dito.
Fisicamente sono in una stanza, forse in Francia.
La mente è nella città imperiale di Huế.
Anche ad Huế capitava spesso di stare seduti sotto i portici ad ascoltare la pioggia. Guardarla scendere sui volti fieri dei miei avi e dei loro valorosi guerrieri scolpiti nel bronzo. Le anime e le gesta di queste potenti figure sembravano rivivere con i fischi del vento; inghiottite e poi risputate dalle bocche dei dragoni erti a proteggere la famiglia imperiale e coloro che la servivano.
A filtrare la crudeltà della realtà umana agli occhi di un bambino, quello cui ero all’epoca, ci pensavano i monaci. Loro provvedevano alla mia istruzione. Il compito di insegnare al figlio dell’Imperatore ciò che è il mondo, il suo mondo, non è facile impegno. Le loro parole sapevano sempre essere opportune e delicate. La strada del sapere che mi prepararono era lunga, contorta, fatta di piccoli inganni, nessuna scorciatoia ed un velo di soffici piume che mi accompagnarono passo dopo passo. Chiesi anche della guerra. I monaci prediligevano affrontare la mia curiosità nelle giornate più cupe e nuvolose. Pioveva sulla città proibita e, forse, il sangue veniva lavato per sempre dalle mura e dalle coscienze. Faceva bene al loro spirito pensarlo.
I racconti di ciò che avveniva là fuori erano innumerevoli. Per me e per l’Imperatore, mio padre, era sufficiente la nostra sacra dimora protetti dalle mura. Da adolescente, nel poco tempo di gioco e solitudine, appoggiavo le orecchie sull’umido muro che mi sovrastava. Ascoltavo quello che il mondo mi sussurrava dall’altra parte. Sui libri avevo letto e visto, dai racconti dei monaci sentito, di enormi distese d’acqua, di giganti creature marine e uomini coraggiosi che le sfidavano a bordo di piccole imbarcazioni ricavate da tronchi d’albero; di invalicabili montagne ricoperte da fitta boscaglia ed animali pelosi dalle grandi zanne predati da valorosi combattenti armati di arco e frecce.
La porta d’ingresso principale della città non veniva spalancata frequentemente. Era riservata all’Imperatore ed egli non amava allontanarsi troppo. Da quelle laterali ho visto comparire persone da ogni provenienza. Il mio contatto con gli estranei si limitava ad essere visivo. Loro non potevano rivolgersi a me, io a loro. Un giorno mio padre mi volle seduto accanto a lui ed a mia madre durante l’accoglienza di uno di questi signori. All’epoca non avevo mai visto, se non disegnato sui libri, un viso dalle caratteristiche così diverse dalle nostre. Quello che era un generale dell’esercito francese allora mi risultava essere una simpatica caricatura. Mi faceva ridere quasi come fosse un grande pupazzetto vivente. I suoi lineamenti squadrati, gli occhi e la bocca così piccoli. Quel cappello rotondo che inglobava tutta la sua testa. La lingua che parlava mi era nota; era stata introdotta nei miei studi qualche anno prima. I toni tra l’Imperatore ed il generale erano cortesi ed i nostri servi continuavano a riempire le tazze del tè e far dono di oggetti preziosi. Il generale tra le varie cose regalò a mio padre un orologio ed egli apprezzò il gesto. Quell’istante significò la svolta della mia vita. Smisi di ridere dentro e cominciai a diventare adulto. L’arroganza dell’uomo nel voler controllare il tempo era racchiusa dentro quelle scatoletta. La mia visione della città proibita e dell’Imperatore cominciò a scricchiolare vittima dei colpi inferti dai miei dubbi.
Le lancette degli orologi francesi da lì a poco avrebbero cominciato a scandire tempi sempre più cupi per la famiglia reale e gli abitanti di Huế. La persistenza delle battaglie e forti ed impreviste alluvioni avevano sbiadito la potenza dell’Imperatore che cominciò ben presto a manifestare i primi segni di cedimento. Mio padre negli ultimi anni della sua vita si era avvicinato a me. Mai al punto di confidarsi.
I nostri ruoli ci imponevano freddezza, distacco e sobrietà in qualsiasi avvenimento pubblico, tant’è che finimmo per applicare il protocollo anche nei rari momenti privati. Cresceva in me la voglia di evadere da quelle mura dorate, di guardare con i miei stessi occhi ciò che avveniva là fuori. Un primo goffo tentativo di fuga lo feci da adolescente. Mi ritrovarono i monaci mentre camminavo tra la gente di Huế. Un’esperienza meravigliosamente scioccante.
In un primo momento la povertà mi aveva inorridito. Vedere tutte quelle persone semplici dalle mani sporche e rugose tirare pesanti carri colmi del raccolto giornaliero. Le loro modeste dimore. Il linguaggio così rude e primitivo. Le urla e la frenesia dei mercati. Non dormì alcune notti ripensando alle condizioni di vita dei nostri sudditi. Così come non dormì, molti anni dopo, in attesa di comunicare la scelta a mio padre: volevo girare il mondo. La sua risata, la sua disapprovazione.
Ma le cose andarono così.
Dopo la sua morte il nostro Regno terminò e grazie ad un accordo con i francesi l’esilio della nostra famiglia avvenne in sicurezza e con rispetto. La città imperiale ci era stata negata. Inaccessibile. Adesso la città era proibita a me ed alla mia dinastia.
Ricordo il forte battito del cuore quando varcai le sue mura per l’ultima volta. L’affannoso respiro ed il pensiero cupo che si contrapponeva alla gioia di esplorare il mondo che non avevo mai visto.
Ricordo la città Imperiale sotto una pioggia torrenziale.
Anche allora, come adesso, tracciavo sul vetro opacizzato dei segni con il dito.
Fisicamente ero in un auto, ad Huế; la mente nel nuovo mondo che avrei esplorato.
Per fare ciò che si vuole bisogna nascere re o stupidi.
Lucio Anneo Seneca



































