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Mekong. Noi ed il fiume

Il Mekong attraversa impetuoso e scuro il vasto territorio asiatico partendo dall’altopiano tibetano, bagnando poi Cina, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia ed infine il Vietnam.

Certo riesce improbabile descrivere a sole parole le emozioni che il fiume trasporta con sé. Sarebbe più adeguato trascriverle in uno spartito ove comporre una sonata; dove far esprimere orchestre e musicisti per replicare, forse comunque inappropriatamente, le tante sfumature di pulsante vita che giornalmente si anima tra le acque del Mekong.

1Un gigante sole infuocato si spegne nell’orizzonte di Cần Thơ, oscurando minuto dopo minuto il ponte che collega la città sulle sponde del Delta del Mekong a Vĩnh Long. Due piccole realtà che si affacciano sull’undicesimo corso d’acqua più lungo del mondo. L’imponente fiume dettò gli scambi commerciali fino alla comparsa delle prime autostrade che hanno modificato la vita quotidiana di molte persone. Il grigio ed innaturale cemento si prende carico delle migliaia di automezzi pesanti che trasportano i loro materiali tra nuvole di gasolio e la lenta levigazione di enormi pneumatici. La protagonista della nostra storia indossa il tipico copricapo chiamato dai vietnamiti nón lá; vive in una capanna di legno e lamiera, come tante, ai bordi del corso d’acqua. A condividere la casa con lei non ci sono più uomini, ma solo una foto in bianco e nero sbiadita che ritrae suo padre da giovane ed un’alta foto a colori stropicciata ai bordi in cui compare abbracciata a suo marito.

Nel cuore di tutte le notti si alza, mette sul fuoco qualcosa da mangiare e si prepara per la lunga giornata che dovrà affrontare.

A Cần Thơ intanto il laconico monumento dedicato al già leader Ho Chi Minh svolge il suo compito, focalizzare l’attenzione dei turisti sul glorioso e difficile passato vietnamita. Ma le statue rimangono inermi e passive dinanzi alla realtà che scorre inesorabile come il Mekong. Dal buio del fiume e tra le aiuole della passerella che lo costeggiano, fanno fugaci ma inquietanti comparse giganti ratti neri a caccia di cibo. Intorno ambiziose costruzioni moderne e luminose che attirano la curiosità dei turisti che inesorabili proseguono la ricerca del selfie.

DSC_7667La barca carica di merce della donna è già in navigazione da diversi minuti ed il sole compare timidamente; riesce difficile pensare sia la stessa stella che la sera precedente ha infuocato e dipinto d’arancio il cielo. Il silenzio viene scalfito dal progressivo crescendo dei motori delle imbarcazioni dirette al mercato.

Il fermento degli scambi commerciali è tenuto in vita dalla respirazione bocca a bocca praticata dai tour organizzati e da una generazione troppo compassata per aderire al cambiamento. Mentre anche lei si dirige al mercato è cullata dalle onde provocate da enormi natanti di rientro; questi nella notte hanno rifornito i piccoli grossisti. Ad accompagnarli nel tragitto le centinaia di industrie che sono spuntate come funghi negli ultimi vent’anni. Riversano indisturbate i loro liquami contenenti metalli pesanti ed arsenico nel Mekong trasformandolo in una trappola mortale per migliaia di esseri viventi tra cui l’uomo stesso.

2La barca della donna si affianca ad un barcone più grande del suo e cominciano le contrattazioni. Deve fare presto altrimenti non avrà tempo a sufficienza per sistemare al meglio il banco al mercato.

E’ tra quei banchi che pesci di ogni genere e tipo, rane, molluschi e crostacei si abbandonano inermi al loro ultimo respiro, pronti ad essere sacrificati in nome della culinaria.

4Al mercato di Cần Thơ non ci si preoccupa di vendere e cibarsi di cibo altamente inquinato così come nessuno fa cenno alla costruzione della diga idroelettrica in Cina che potrebbe sancire la definitiva chiusura del sipario del Mekong vietnamita e di tutti i suoi componenti che oggi a gran fatica lo compongono.

Il prezzo da pagare in nome dello sviluppo e della crescita è altissimo.

5Ma chissà quali sono i pensieri degli ultimi sopravvissuti della strage modernista e capitalista. Resistono oasi di silenzio, scanditi dalle pagaiate armoniose delle rematrici vietnamite che di quel luogo ne custodiscono il fascino. Inconsapevoli che l’essenzialità dei loro gesti è l’unica via d’uscita del finale già scritto.

Intanto ci facciamo trasportare convinti d’esser soli. Noi ed il fiume.

 

Guardare il fiume fatto di tempo e d’acqua
e ricordare che il tempo è un altro fiume.
Sapere che ci perdiamo come il fiume
e che passano i volti come l’acqua.
(Jorge Louis Borges)

7

Colonia. Cado giù

Buio pesto e silenzio.

Cado giù.

Il barile di latta in cui mi trovo continua la sua corsa verso il fondale del Reno.

Il rumore delle eliche delle chiatte che navigano il fiume penetrano l’involucro in cui sono forzatamente rannicchiato e si mischiano ai miei affannosi respiri che soffiano il mio terrore.

Più la morte si avvicina e più il tempo si dilata. I secondi diventano gommosi; si allungano senza mai spezzarsi. I minuti diventano eternità. Frame di vita che si accavallano come album di foto. Intanto il sangue confluisce verso gli organi vitali: il cuore, la testa, l’inguine. La sensazione corporea è pari ad uno shutlle sparato verso la luna; durante il tragitto si perdono pezzi e sul satellite atterra solo l’involucro principale.

Intanto tremo. Dal freddo. Dalla paura.

C’è da dire che come fine e proprio una fine del cazzo. Diciamocelo.

Un tonfo accompagna il mio rallentato atterraggio sull’alveo dove scorre il grande fiume. Fine della mia corsa.

Le saldature che stagnano il barile non fanno filtrare l’acqua ma nemmeno l’aria. Anche quella sta per finire. Il mio cervello è annebbiato, i miei ultimi lucidi pensieri stanno lasciando spazio ad evoluzioni surreali. Un altro modo magnificamente splendido che il corpo umano utilizza per proteggerci dalle sofferenze. Dalle torture. Dall’addio.

Nonostante l’assopimento e la paura, forse alimentato dalla rassegnazione, proietto le ultime immagini vissute a Colonia. Che poi a me la Germania ha sempre fatto cagare. Non ho manco mai avuto queste grande simpatie per i tedeschi. Lei però era bellissima. I suoi capelli scendevano sulla sua schiena come le onde bagnano le bianche sabbiose spiagge dei Caraibi; il suo sguardo profondo e scuro forse proprio come il fondale su cui mi sono adagiato poco o tanto tempo fa.

Con lei ho passato fugaci momenti a parlare sulle scalinate della Kennedy Ufer. Le mani che adesso nemmeno sento più mi erano servite ad accarezzarle il volto; le dita per sfiorarle le labbra rosse che rispetto alla pelle chiara sembravano così esageratamente dipinte. L’ultima sera non era finita benissimo. Avevo litigato con un tunisino, egiziano o robe simili. Ormai quello è territorio loro. Fumano il narghilè, mangiano, si ubriacano, lasciano immondizia ovunque. Sono quelle generazioni post adolescenziali ribelli figli di disgraziati migranti che nemmeno il rigore tedesco può educare. Poi loro non si sentono tedeschi e non vogliono esserlo. Giusto così. In fin dei conti anche gli italiani sono fieri di mantenere vive le loro radici ed identità. Ma identità o meno quello era proprio un’idiota.

Avevamo continuato parte della serata isolati tra la gente ed il vociare di una birreria a Deutz. I nostri bicchieri continuavano a riempirsi mentre i discorsi erano sempre più conditi da parole inappropriate e prive di senso. Ad ogni stupidaggine corrispondeva un abbraccio. Qualche bacio.

Eravamo usciti da là dentro frastornati dalla confusione e dall’afa; dopo qualche passo stavamo rimpiangendo le calde temperature della birreria ma apprezzavamo il silenzio che ci stava accompagnando verso il ponte Hohenzollern, il ponte ferroviario più famoso di Colonia che specialmente la sera offre uno scorcio spettacolare. Arrivando dalla nostra direzione il complesso architettonico metallico sembrava indicarci la Cattedrale di Colonia e lei sembra dire: sono qui, guardatemi. Come la persona con la quale stavo condividendo quel momento. La donna che stava rubando i miei sguardi da ciò che ci circondava. Per quanto magnifico fosse tutto il resto, io vedevo solo lei. Non mi accorsi nemmeno dei treni che stavano passando uno dietro l’altro e del loro rumore. Attraversando il ponte scherzammo sulle persone che avevano voluto lasciare un segno tangibile della loro unione attaccando un lucchetto alle barriere che separano le rotaie dalla pedonal-ciclabile. Chissà se il nostro sarebbe rimasto integro negli anni oppure no.

Non perdemmo altro tempo a fantasticare, perché tempo non ne avevamo.

Ci ritrovammo nella camera di un albergo a spogliarci, toccarci, guardarci, poi ancora toccarci. Ripetemmo per decine di volte il goffo gesto di fonderci l’uno all’altra, di unirci in un corpo solo, un’anima sola.

Mentre fuori i ragazzi ubriachi cantavano qualche stupida canzone tedesca e le luci colorate magnificavano la città.

Intanto mentre ti immagino, qui a Colonia, sto morendo.

Chi ama donna maritata, la sua vita tien prestata.
Proverbio

Gerusalemme: a cena con il nemico

Vivere nell’ombra dell’olocausto ed aspettarsi di essere perdonati di ogni cosa che fanno, a motivo della loro sofferenza passata, mi sembra un eccesso di pretese. Evidentemente non hanno imparato molto dalla sofferenza dei loro genitori e dei loro nonni

Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura 1998

 

Il buffet dal quale mi ero servito era essenziale, ma di qualità e pulito.

wallA tavola sarei stato raggiunto da lì a poco dalla guida J. che durante la giornata mi aveva accompagnato a visitare Gerusalemme.  Era impegnato a scegliere le pietanze; si muoveva con disinvoltura tra battute ai camerieri ed ammiccamenti ai turisti, palesando il fatto che quella che per me era un’esperienza unica e speravo, irripetibile, per lui fosse routine. L’ulteriore conferma, ce ne fosse stato bisogno, giunse durante il primo scambio di parole a biglie ferme, ossia quando anch’io gli porsi domande fuori dagli schemi che altrimenti la visita guidata impone di seguire.

Il suo fare superficialmente simpatico e minimizzatore era alquanto irritante al cospetto di una persona che tende a ragionare sui perché anziché subire tesi precotte che, in Israele, sono la specialità della casa.

Chiesi se c’era la possibilità di avere del vino, in risposta mi sentì dire da J. che Israele era un Paese democratico e che non c’erano alcune restrizioni in tal merito. Anzi, il vino era molto buono a detta degli esperti. Lui era astemio ovviamente e la mia domanda era una richiesta specifica e non un quesito sulle abitudini locali dato che le bottiglie ben esposte evidentemente erano in vendita.

muropiantoLa stanchezza che cominciava a salire non era dovuta allo sforzo fisico delle camminate per le caotiche vie della Gerusalemme antica della giornata appena trascorsa, quanto per la violenza psicologica subita durante gli estenuanti controlli il giorno prima, quando proveniente dalla Giordania attraversai il ponte confine Allenby/Re Hussein. Un nutrito gruppo di post adolescenti, uomini e donne, perlopiù in servizio di leva in abiti civili con interi arsenali bellici ornamentali, mi riempirono di domande, perquisendo ogni angolo della mia essenziale borsa da viaggio. Il sorriso stampato sulla loro faccia, apparentemente cortese, era espressione di baldanzeria. Persi moltissimo tempo, nulla in confronto ai palestinesi transfrontalieri.

L’avevo fatto presente a J. ancor prima che sul tavolo comparisse la bottiglia di Yatir Sirah del 2009 che nel frattempo avevo ordinato, provocando la prima reazione infastidita dell’uomo; questa era la conseguenza dovuta agli attacchi terroristici che Israele subiva giornalmente. La sua opinione.

L’aria che si respirava era pesante alla pari del profumo dozzinale impregnato tra la folla che ero costretto a respirare in quei giorni di visita, quindi decisi di allentare per qualche istante la pressione ripercorrendo nei ricordi le immagini della via Dolorosa, meglio conosciuta come via Crucis, il percorso che fu costretto a fare Gesù Cristo per raggiungere il luogo dove sarebbe stato crocifisso. La Sua storia è nota a quasi tutti.

crucisAnche in quel caso non riuscì a fingere e nascondere la delusione per l’esperienza vissuta. Non sono un credente ma la formazione ricevuta in ambienti scolastici ecclesiastici, mio malgrado, decontestualizzava la realtà in cui mi trovavo. Immaginare Gesù Cristo camminare con una croce in spalla tra le vie del suq, tra bancarelle e gente urlante sapendo che in una stazione della via Crucis oggi sorge una pizzeria armena ed in un’altra un internet point, mi lasciava perplesso. Il Golgota, Calvario, brulla e desertica collina cui sabbia vide scorrere il sangue di Cristo, è ora inglobata da una cattedrale con un intensità sacrale pari al parco giochi Epcot ad Orlando. Luogo della crocifissione, Sudario e Sacro Sepolcro tutte circoscritte in pochi metri; è quello il posizionamento originario o si è semplificato per sfruttamento commerciale?

Quest’ultima logica aveva contribuito ad aumentare la soglia di sopportazione nei miei confronti di J. che, da buon ebreo, si dimostrava poco coinvolto nel discorso mirato alle falde cattoliche, molto più intento a tingere nello zattar il suo marqūq; gli unici suoi inserimenti nel mio ragionamento si riferivano al fatto che Gerusalemme era un’ottima fonte di guadagno per molti, indipendentemente dal credo. Annuì.

mall-busLa conversazione si concentrò nuovamente sul cibo ma il vino che stavo bevendo cominciò a picconare sempre più violentemente il muro di ritegno che mi ero ripromesso di conservare nei confronti di J.; frantumato il mio muro eccone servito un altro, pensai: la barriera di separazione israeliana. Così chiamata in gergo politicamente corretto, migliaia di palestinesi vivono le loro vite rinchiusi in un lembo di terra circondato da mura di cinta alte 8 metri con restrittivi orari di ingresso ed uscita. Un campo di concentramento, fondamentalmente, delimitato dal muro della vergogna o apartheid e lungo ben 730km. Ingloba oltre alle persone, terreni coltivabili e pozzi d’acqua togliendo ancora una volta risorse a quelli che gli ebrei considerano i nemici arabi. La giustificazione di J. a ciò che stavo esponendo in modo piuttosto diretto e provocatorio, fu la stessa di prima: Israele era stata costretta a costruire quella protezione per difendersi dagli attacchi dei terroristi arabi. L’atteggiamento di J. cominciò a cambiare quando gli feci presente che anche l’ONU aveva condannato questa misura di sicurezza come fortemente penalizzante per la comunità araba del territorio e che se avessero liberato i territori occupati forse anche gli attacchi nei loro confronti sarebbero terminati. Negli atteggiamenti di J. spuntò all’improvviso la tipica autodifesa ebraica che sfocia nel vittimismo, con sospetti di antisemitismo rivolti all’interlocutore e tacita pretesa di inviolabilità intellettuale.

Si alzò quindi con fare seccato e si recò al buffet. Anch’io feci lo stesso, appesantito dal vino ma nello stesso tempo alleggerito dal rospo che gli avevo sputato nel piatto poco prima. Ripreso il nostro posto a tavola ci fu un prolungato silenzio che comunque non mi indusse in dovere di porgere le mie scuse; J., d’altro canto, mi parve troppo schiavo della sua storia e della sua ottusità per permettersi di indietreggiare.

Volli disintegrare completamente l’ultimo barlume di diplomazia rimasto, tanto dopo la frutta del dolce avrei anche fatto a meno e J. non l’avrei più rivisto, speravo. Adottai una nuova strategia per convincere il baldanzoso cicerone a scendere in battaglia dialettica. Nel frattempo che affilavo le armi feci lodi sperticate al pompelmo di Jaffa che stavo tastando con l’intento di dimostrare volontà di tregua. Certo, il rapporto era compromesso, ma la sua professionalità lo costrinse ad indossare i panni della persona accondiscendente, a recitare la parte e di portare a casa il salvabile. Ero pur sempre un ospite. Gli feci notare di quanta prosperità ci fosse nello Stato di Israele, davvero una terra prescelta tenuto conto che tutto attorno c’era il deserto. La bontà dei frutti e l’importanza che assumono nella voce export. A J. gli si illuminarono gli occhi; partì con un’ultima filippica riguardante l’ingegneria israeliana, vanto internazionale.

Quasi mi dispiacque far scattare la ghigliottina che da lì a poco avrebbe definitivamente staccato ogni nostro rapporto; gli chiesi se era a conoscenza del fatto che Israele aveva lasciato senza acqua la Giordania attingendo dalle acque del lago Tiberiade prosciugando di giorno in giorno il fiume Giordano che conseguentemente stava riducendo di diversi metri all’anno la profondità del Mar Morto in cui affluiva.

Non credo fosse rimasto fino a mia conclusione, sono invece sicuro che mi ritrovai a ristudiare l’etichetta della bottiglia ormai vuota di Sirah completamente solo.

_20160915_024327Mi diedi una pulita alla bocca, lasciai un ultimo segno sul tovagliolo bianco ed uscì dalla sala. Prima di andarmene però il mio occhio cadde su una tavola che era stata poco prima abbandonata da un gruppetto di ragazzi ebrei ; evidenziava un enorme spreco di cibo mischiato e disordinatamente abbandonato su tutto il tavolo. Decine di piatti accatastati l’uno sul altro, sostanze colanti e residui sul pavimento. Tra tutto questo schifo fu la quantità enorme di pane abbandonato e scalfito con ditate e coltellate che più mi infastidì. Il nostro pane quotidiano, recita la preghiera.

Forse quelli erano nipoti o figli degli stessi che durante la seconda guerra mondiale sopravvissero mangiando briciole raccolte tra le fessure dei pavimenti di legno dei campi di sterminio.

Sempre vittime; dell’involuzione della specie, questa volta.

Pensai.

Bruges: Aime moi peu, mais continues

fiumeL’ho incontrata per caso, per chi crede nel caso, in un piccolo bar dove mi ero chiuso per ripararmi dal freddo. Ero a Bruges per scrivere un pezzo e la persona che attendevo da oltre tre ore in piazza Markt non si era fatta viva all’appuntamento. Evidentemente aveva trovato di meglio da fare.

Che io fossi uno straniero probabilmente lo si capiva dal fatto che all’interno del tiepido locale ero l’unico infreddolito a vestire il giubbotto, mentre il secondo palese indizio era che a scaldarmi le mani non ci fosse una bevanda calda, ma un bicchiere di birra ambrata. Belga ovviamente.

kunstLei era seduta da sola in disparte a fianco alla vetrina. I passanti che dalla strada limitrofa sbirciavano dentro la sala videro una figura parzialmente nascosta dall’insegna del bar. La scritta era formata da caratteri liberty dorati. Sul suo tavolino una tazza di fumante tenuta tra le pallide mani di ragazzina. Nonostante l’atteggiamento indicasse la voglia di non apparire, il volto luminoso la rispecchiava quasi ovunque. Tra gli specchi del locale, nel bancale contente dolci e cibarie varie, nella vetrina di prima e, sono sicuro, anche nella piccola superficie di circoscritta nella tazza che di tanto in tanto portava alle sue sensuali labbra rosse. Mentre lo sorseggiava, di riflesso porgeva lo sguardo in un punto fisso. Guardava fuori. Finito, appoggiava la tazza e riprendeva a guardare un po’ di qua, un po’ di là. Disinteressata.

La osservavo nei movimenti, ne seguivo lo sguardo. C’erano degli abiti appesi all’ingresso, chissà se un lungo cappotto color crema ed un berretto in lana dalle larghe maglie fossero stati posati lì da lei al suo ingresso. Poteva essere, perché il maglione che indossava si abbinava perfettamente al resto. Anzi, era proprio così; a pensarci bene erano suoi per forza.

legoCominciò lei la conversazione. Se non ricordo male mi chiese se Bruges era di mio gradimento. Preso alla sprovvista non brillai certo nella prima risposta. Migliorai in quelle successive, dove la banalità della descrizione degli edifici medievali, i negozi di cioccolata onnipresenti, il turismo di massa e la qualità della birra lasciarono posto a considerazioni più profonde. Mi piace parlare con le persone che danno slancio al discorso, che utilizzano le parole come operai in un cantiere impegnati a costruire qualcosa di solido ed importante. Parlare con lei, a Bruges, con questi toni, aveva un significato ancora più simbolico. In fin dei conti un buon narratore ha molte similitudini con una città medievale; Possiede forti mura a protezione dei suoi beni e delle sue convinzioni;  l’interno della città deve essere vitale, aperta a nuove idee, in movimento costante e pronta ad espandersi e difendersi, se necessario. Mantenendo lo stile, senza stravolgere le origini; come il suo grammaticalmente perfetto inglese, cadenzato da un’andatura in levare francese.

kruispoortIl treno per Bruxelles non m’avrebbe di certo aspettato e, francamente, una giornata a Bruges sarebbe stata più che sufficiente per vedere ciò che avrei utilizzato per descriverla. Il colloquio con lei era piacevole anche se spesso perdevo dal mio carro dell’attenzione qualche sacco di sue rivelazioni, inevitabilmente distratto dai suoi occhi verdi e dal passare del tempo.

Mi anticipò di qualche minuto, con un congedo sorprendente quanto l’introduzione. Si alzò, salutò frettolosamente ma con garbo, indossò gli abiti che le avevo assegnato d’intuito, senza bisogno di aiuti galanti.

Mi ero riseduto e lei non c’era più.

Non conoscevo il suo nome e spinto dalla curiosità lo chiesi al gestore del locale che, indaffarato nel passare lo straccio sul banco, non mi rivelò nulla. Pare non l’abbia mai vista prima. Anzi, ne era sicuro.

orsettoSalutai, prima di aprire la porta chiusi bene il giubbotto,  indossai guanti e berretto, quindi uscii, diedi uno sguardo a sinistra e destra per evitare d’essere investito da onnipresenti biciclette o carrozze trainate da cavalli ed in men che non si dica mi trovai nuovamente catapultato nel freddo di Bruges. Dopo tanto romanticismo avrei dovuto fare in fretta a ricordarmi le coordinate per arrivare alla Station Brugge, il più veloce possibile appunto.

Ci riuscì e solo dopo qualche minuto di viaggio a bordo del mio treno pensai che non sapevo nemmeno il nome di lei, eppure per qualche istante l’avevo amata.

Per poco, ma l’avevo amata.

Ogni volta che ricorderò quei momenti l’amerò, mi dissi.

Per poco, ma continuerò ad amarla.

 

Dedicata a Bruges

 

Tilos: laboratorio d’artisti

campanileAscoltare il silenzio senza timore, nell’epoca attuale risulta quasi impossibile. Per molti.

L’indigestione di informazioni, tra le tante inutili e fittizie, cui siamo sottoposti quotidianamente, inghiottite alla stregua delle oche da foie gras, altrettanto gonfiate a suon di mangimi sparati in gola da tubi poco cortesi, ci ha disabituato ad assaporare la libertà del nulla, la leggerezza dell’ascoltare senza dover giustificare o rendicontare. L’ossessionante condivisione del tutto, ci ha lasciato privi di apprezzare attimi in cui il vero tutto è rappresentato da momenti di niente apparente.

Introduzione decisamente importante e forse troppo pretenziosa per chi magari cerca solamente qualche spunto in più per visitare Tilos, penserà qualche lettore, ma necessaria a comprendere a fondo la spiritualità dell’isola greca; il turismo e tutto il ramificato folclore che ne consegue, lì, non ha piantato radice alcuna.

scaleAttraccati al porto principale di Livadia passano pochi secondi dalla piccola calorosa accoglienza ed adunanza dei vari albergatori mentre recuperano i loro ospiti al ritorno alla quiete. L’istantanea confusione si dissolve tra l’accelerata di qualche furgone e le conseguenti nuvolette di fumo presto scolorite tra l’azzurro del cielo. Come il botto finale ad indicare la fine dei fuochi d’artificio è il motore del traghetto a silenziarsi man mano che questo si perde all’orizzonte verso la sua prossima meta.

Ti ritrovi solo. A guardarti in giro.

I pochi noleggiatori di poche auto e pochissimi scooter aspettano, senza avvicinare o disturbare i nuovi arrivati che tanto, come le api attratte dal pistillo dei fiori prima o poi arriveranno a loro.

Grazie a questi mezzi comincia l’esplorazione di Tilos ed i suoi ampi spazi battuti da un sole incessante e raffiche di vento caldo che non attenuano di niente le temperature soffocanti.

rovineArrampicarsi su quelle che una volta erano mulattiere ed osservare l’isola dai punti più alti, in solitudine, già ci racconta molto sulla spiritualità del luogo. Così come l’antico villaggio abbandonato Mikrò Choriò dove trovano rifugio dal sole che picchia incessante sia le capre che qualche volenteroso signore intento a restaurare la Chiesa o qualche edificio che forse non accoglierà mai nessuno. Le strade sono deserte e la stazione di servizio è aperta solo mezza giornata. In caso di emergenza i supermercati del piccolo centro cittadino vendono carburante in tanica, impensabile ai giorni nostri.

Seguendo le viewsegnalazioni turistiche si raggiungono i luoghi indicati come più interessanti da visitare, tra cui il museo che ospita lo scheletro di un elefante nano; ma l’edificio è abbandonato a se stesso, chiuso ed in balia di qualche vandalo e tante capre che lo usano come riparo. Molte spiagge sono poco frequentate ed interessanti punti d’attracco di barche a vela di passaggio.

Un laboratorio d’artisti, ecco cosa potrebbe essere e cos’è forse a giudicare da qualche insegna affissa su case isolate. La misticità ed il silenzio di questa isola schiva e riservata rispetto alle sue rumorose ed iperattive sorelle più illustri, la rendono luogo perfettocampana per scultori intenti a modellare opere di creta con le mani mosse dai liberi pensieri e ed il fruscio del vento o scrittori che a Tilos concedono il corpo e la sua statica presenza, ma non la mente, fluttuante in chissà quale altro luogo o palcoscenico frutto della fantasia. Magari semplici accordi di un brano che un musicista donerà alla stessa comunità che mai potrebbe cogliere l’aspetto embrionale dell’arte, spesso fiorente nel nulla, entusiasta nel glorificarne l’aspetto finale, svilito in stanze affollate.

Oppure ispirazione di un poeta, osservatore del mare e dei pescatori, dei gabbiani e delle onde che giorno dopo giorno cullano il mistero di quel profondo blu, che come inchiostro non cambia la sostanza ma entusiasma con nuove forme.

Questi spicchi di mondo, in fin dei conti, sono loro stessi poesia.

 

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La Mezza Maratona di Varsavia

screenGrazie alla Mezza Maratona di Varsavia molte persone approfittano di  unire la passione dello sport a quella del viaggio raggiungendo così una meta altrimenti non troppo ghiotta agli occhi del turista.

La facilità dell’iscrizione alla gara che non richiede certificati medici sportivi obbligatori, come in quasi tutto il mondo tranne che in Italia ovviamente, facilita inoltre l’adesione di molti corridori amatoriali che, si spera per loro, provvedono comunque  a monitorare costantemente la propria idoneità fisica.

La quota partecipativa è molto contenuta, vuoi per il cambio favorevole, vuoi per la modesta attenzione mediatica dell’evento stesso che, con tutto il rispetto dovuto, non può essere certo paragonato a gare svolte a Barcellona, Parigi, Berlino e via dicendo. Non troppo facile da trovare il luogo ove ritirare il pettorale, niente di impossibile s’intende, con il personale un po’ confusionario come da copione. Le incomprensioni derivano più probabilmente dal contorto lessico polacco ed i suoi grumi di consonanti che volano liberamente interrotte di tanto in tanto da raffiche di tag (significa )

bridgeI gadget sono interessanti, ma è il cotone a farla da padrone a discapito di materiali tecnici o inesistenti campioncini di integratori o altre utili diavolerie che in Spagna riempiono la sacca. D’altronde non è una gara di shopping ad attenderci anche se per l’occasione non mancano centinaia di espositori specializzati. L’incognita della corsa, nonostante la primavera incombente, è la temperatura; molto rigida la sera e la notte a livelli invernali, più mite il giorno con picchi di caldo quelli sì primaverili per qualche ora. La mattina si soffre il freddo per raggiungere il punto di partenza con abiti da gara che durante la corsa a tratti si rivelano pesanti per poi essere considerati leggeri nelle tratte in cui si alza un vento gelido come durante l’attraversamento del moderno Ponte Swietokrzyski.

Come in tutte le manifestazioni podistiche non manca il folclore e l’esibizionismo specie qualche minuto prima del via, con gli atleti professionisti concentrati nelle attività di riscaldamento limitate a distensive corse intervallate da brevi recuperi di camminata e da atleti non professionisti autori di gag  involontarie tra improbabili esercizi di fitness estremo e scoordinati balli di gruppo. La voglia di risultare simpatici dei polacchi vela a tratti la loro mancanza di humor, rendendo l’atmosfera tutto sommato gioviale.

Il percorso di gara è abbastanza veloce ma non proprio una passeggiata, specie al 19K dove ad ormai arrivo quasi raggiunto ed a compimento dell’attraversamento del Parco di Lazienki, spunta un’impervia salita di circa 800 mt che miete parecchie vittime impreparate costrette a superare l’ostacolo camminando.

Per i maratoneti risulta comunque un buon allenamento in vista dei 42K, mentre per gli specialisti potrebbe essere una buona occasione per strappare un buon tempo o fare il personale.

Il pubblico è presente ai bordi delle strade ad incitare a modo loro, certo nessun paragone con i popoli latini in alcuni frangenti fin troppo invasivi mentre il panorama che si offre agli occhi dei podisti in gran parte coinvolge vicoli di quartieri di periferia abbastanza grigi e tristi di loro.

Fatto sta che la gara alla fine della fiera è piacevole, i punti di ristoro adeguati, la medaglia molto bella e l’organizzazione eccellente ma soprattutto, oltre ai chilometri nelle nostre scarpe, avremo aggiunto altra esperienza e poesia nei nostri cuori.

 

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Polac…chi?

miltiNell’ipotetico ed irreale incontro storico tra i giorni nostri e gli anni ’50 d.C. , un viaggiatore e cronista dei tempi quale era Plinio il Vecchio, avrebbe probabilmente descritto i polacchi come “uomini poco inclini al sarcasmo, dalle rotondità del capo pronunciate e chiari grandi occhi come sesterzi a guardare il loro mondo”. Naturalmente l’ipocrita benpensantismo attuale non avrebbe di certo accolto le parole che assurdamente ed ipoteticamente abbiamo messo in bocca, ad ovvia insaputa, dell’illustre predecessore.

Fatto sta che i polacchi, ci scusino lo stereotipo, sono un popolo piuttosto particolare, vuoi per il freddo che devono sopportare per lunghi mesi, vuoi soprattutto per le vicende storiche che hanno profondamente condizionato il loro essere. La Polonia, trovandosi in una posizione strategica, è sempre stata terra di conquista, tra l’altro facile, da parte di Paesi oppressori che non hanno mai rispettato la cultura esistente con l’apice storico in cui prima della ritirata nazista, Varsavia venne rasa al suolo dai tedeschi, con l’Armata russa a pochi metri ferma a guardare l’ennesimo scempio perpetrato.

L’azzeramento dello sense of humor e l’attaccamento  alla bottiglia sono probabilmente conseguenze storiche che i polacchi si portano dietro. Così come l’onda incerta tra la voglia di emergere e l’alone oscurantista che copre le velleità di rivalsa di questa nazione fondamentalmente poco considerata dal resto del mondo.

sellerEppure sono passati i tempi in cui le autostrade ospitavano goffe famiglie a bordo di sbuffanti e squadrate automobili sovraccariche, dalle giganti targhe nere con grandi numeri bianchi e gli adesivi PL in bella mostra sul vetro posteriore; oggi, come già detto, la new economy ha riversato il suo danaroso sguardo sulla Polonia, cambiando molte delle abitudini e concedendo loro nuove risorse. Certo dal punto di vista turistico, nonostante le tantissime cose interessanti da visitare, il Paese non sembra raggiungere il desiderato appeal e malgrado sia facilmente raggiungibile con voli low cost che come torce nelle tenebre aprono spiragli di luce su luoghi di indiscusso interesse storico come Varsavia o Cracovia.

popeLuce divina quella invece riversata sul Paese dal promoter più importante della Polonia, il Santo che pasteggiava a champagne, Papa Giovanni Paolo II all’anagrafe Carol Woytila, che dal 1978 al 2005 ha sicuramente contribuito in modo esorbitante a far conoscere a milioni di seguaci i suoi luoghi di provenienza, incrementando a dismisura se non altro il turismo religioso, ancora oggi propenso a pellegrinaggi in terra papale.

Ed è la voce del Santo Padre ad echeggiare tra le mura delle case e dei palazzi in occasione del anniversario della scomparsa, il 2 aprile, divulgata dagli altoparlanti delle chiese cattoliche e dai numerosi megafoni posti ai sit in organizzati nelle piazze tra fiori, lumini ed immagini proiettate sulle facciate.

L’intrinseca freddezza espressa nei palazzi di regime così come nella permalosità diffusa delle persone però mal si incontrano con le esigenze del turista mediterraneo, più propenso alla festa ed al dialogo, spesso futile tra l’altro, rispetto alla sorta di muro che si è costretti ad affrontare ad ogni affondo umano.

carPoco umane anche le condizioni su cui si basa e fiorisce il nuovo mercato libero che, come detto, trova terra fertile nella terra polacca grazie al carattere storicamente sottomesso dei suoi cittadini, rivali in miseria di altri impiegati mediterranei, abbandonati in braghe di tela dalla fuga dei loro datori di lavoro; importanti aziende familiari, acquistate da multinazionali, smembrate e ricollocate in Paesi più flessibili tra cui la Polonia appunto.

Di questo sarebbe stato bello parlarne con qualche polacco a Controviaggio Channel sul canale You Tube ma purtroppo è più facile trovare un quadrifoglio nel deserto di Wadi Rum che un polacco disponibile.