#Parigi Il turismo responsabile

In tempi storici decisivi sono state raccolte testimonianze profonde e sentenze solenni scritte da poeti, scrittori, religiosi, statisti e dagli stessi combattenti; visioni trascritte di un mondo martoriato vissuto attraverso le sbarre di una corazza o dall’oblò di navi da guerra e carri armati. Si sono evoluti i mezzi di comunicazione e sono aumentate le documentazioni, ma il messaggio che ne deriva dalle persone informate e credibili è uno ed inequivocabile: la guerra non porta altro che morte e distruzione.
In epoca moderna esistono anche i talk show ed Hollywood dove la linea del rispetto e del silenzio è sistematicamente oltrepassata dalla spettacolarizzazione di eventi tragici con conseguente tsunami di minchiate di ospiti dalla cultura sommaria e volutamente disinformati dei fatti.
Per evitare d’essere collocati in quest’ultima categoria ci limiteremo a fare delle considerazioni su come il turismo stia vivendo queste situazioni in cui regna l’incertezza; non tanto cercando delle conclusioni scontate vista l’evidenza di tali negatività, ma cercando di fotografare alcuni aspetti caratteriali dell’occidentale che spesso la propaganda casalinga tende a sminuire preferendo, come suo compito vuole, notare pagliuzze negli occhi del nemico senza soffermarsi sulle proprie travi.
Attualmente la maggioranza della clientela italiana è composta da persone anziane, ghiotte di mete low cost a corto raggio dove godere del clima mite e di buffet più o meno ricchi. Si esprimono in dialetto e sono paradossalmente ferventi sostenitori dell’ognuno stia a casa sua. L’atteggiamento verso gli indigeni con cui trattano i loro acquisti porta con sé i profumi della polenta o dell’impepata di cozze, sapori che amorevolmente tendono ad annientare qualsiasi cuscus locale o derivante. Questi signori usano spesso lamentarsi del fatto che nel luogo di villeggiatura in nessuno o pochi parlano il loro idioma, cosa inammissibile dato il flusso di denaro garantito che essi portano in dote al Paese ospitante. Le tradizioni religiose locali vengono osservate con distacco ed arroganza, spesso commentate con lo stupore di chi vive una quotidianità composta da un’alta civiltà e solidi valori umani.
Questi eserciti di turisti sono gli ambasciatori italiani che abbiamo nel mondo e che non distinguono i musulmani sciiti da quelli sunniti, ad esempio; che induisti o buddisti son la stessa roba. Ridono di chi prega con il culo in su ma sono devoti ad individui che predicano in costumi medievali ed accessoriati con gioielleria raffinata. Schierati dalla parte di politici imprenditori cui mantenimento milionario pesa sulla società di cui fanno parte, si complimentano per la ferrea legge del taglione adottata nel luogo di villeggiatura desertico. Si lamentano dei disagi provocati dai continui rovesci nelle loro umide e piovose zone e vengono ascoltati in silenzio da pazienti guide che invece ringraziano il cielo d’avere ancora l’acqua, finché dura.
Divisi tra gli amici degli americani che nella loro correttezza civile combattono guerre giuste con armi convenzionali intelligenti che colpiscono il solo nemico e risparmiano i civili nutrendolo con barrette di cioccolato, (dimenticandosi le bombe atomiche in Giappone ed il gas nervino in Vietnam), ed i compagni di vecchio stampo cresciuti con l’Unità ed il compiacimento politico per il terrorismo nostrano.
Nei gruppi l’assortimento tra egoisticamente consci e sbadati, tralascia il fatto che se prevalesse il credo ognuno stia a casa propria l’Europa non potrebbe garantire il carburante che utilizzano i corrieri per recapitare la Play Station ai loro nipoti o quello che alimenta i trattori che macinano terreno tra le vigne dato che il Vecchio Continente ha tanta civiltà ma poco petrolio.
Ma in fin dei conti ciò che chiede il turista responsabile è poca cosa e non riguarda disagi sociali o politica: sole, spiaggia, un ombrellone e qualcuno che parli italiano; per il resto facciano quello che gli pare.
A casa loro però.
Giordania: cultura contro pregiudizio
Finalmente pubblichiamo anche l’articolo riguardante un Paese davvero sorprendente qual’é la Giordania. Luogo nel quale ci si arriva fondamentalmente dopo aver scelto di visitare la fù capitale dei Nabatei, Petra. Una delle sette meraviglie al mondo moderno, patrimonio dell’umanità dell’Unesco e facente parte dell’area dichiarata parco nazionale archeologico, Petra la fa da padrona incontrastata dei luoghi più simbolici da visitare.
La Giordania va vista con il cuore, prima che con gli occhi, sempre pronta a regalarci qualcosa di inaspettato dietro ad ogni angolo del suo pur contenuto territorio ed in grado di sorprenderci in continuazione. Più facile a dirsi che a farsi per molti turisti che non si vogliono staccare dagli affanni della loro quotidianità e che ormai si preoccupano più del segnale wifi che delle antiche realtà che hanno la fortuna di sfiorare. La confusione tra arabo e musulmano è uno dei primi grossolani errori che si compie nel giudicare il popolo giordano, la mancata distinzione tra musulmani sciiti e sunniti è il secondo e per finire l’atteggiamento di superiorità è il terzo. Tre elementi che generalmente ostacolano la buona riuscita della visita. La Giordania appartiene al ricchissimo territorio storico culturale chiamato la Grande Siria (Sham), che comprende la Siria, i territori occupati quale la Palestina, Libano, Iraq, fino ad arrivare al Kuwait. Confini creati in maniera alquanto maldestra e dei quali paghiamo oggi le conseguenze dalle varie colonie che negli anni hanno frammentato questi territori. Gli inglesi e Churchill con il suo righello sparti-territori in primis. “Noi siamo quello che mangiamo” recita un detto popolare che mai meglio si concretizza proprio in questo caso, dato che tutti i territori sopra citati sono anche accomunati da una cucina pressoché identica. Qualcuno starà attendendo la citazione del vicino Egitto, piuttosto che Tunisia o Marocco, tanto per buttare gli arabi nello stesso calderone; si persiste nell’errore, perché gli ultimi tre Stati citati ben poco hanno a che fare con gli arabi essendo popoli nord africani. Musulmani sì, ma non arabi.
Ed anche l’atteggiamento delle persone in Giordania si differenzia di gran lunga da altri popoli più o meno vicini: desta quasi sorpresa il fatto di poter attraversare un Suq (mercato) senza esser presi di mira e senza essere infastiditi dai vari commercianti. In Giordania il contatto con lo straniero non è gratuito, nessuna pacca sulla spalla, nessun “amico, amico, compra, compra”. L’ospitalità araba si basa sul rispetto dell’ospite. La prima cosa che disorienta l’arroganza occidentale è proprio questo atteggiamento apparentemente distaccato e fiero del popolo giordano che può vantare un laureato in ingegneria ogni quindici abitanti. Il livello di istruzione è decisamente alto grazie all’investimento culturale voluto fortemente dai regnanti capeggiati dal benvoluto Re Abdallah e la Regina Ranja, molto attiva sul piano dell’integramento sociale lavorativo (e non) da parte dei meno abbienti, in particolar modo donne e bambini. Chi si aspetta di trovare un popolo allo sbaraglio sbaglia di grosso: il dinaro, moneta locale, viaggia di pari passo con il dollaro e le banche proliferano come funghi grazie al flusso di soldi proveniente da Paesi esteri quali l’Arabia Saudita. La Giordania è una sorta di Svizzera del Medio Oriente per intenderci. Scuole ed Università coprono la stragrande maggioranza dei cittadini che una volta conseguita la laurea si spostano nel mondo ad esercitare la loro professione. Grazie a condizioni favorevoli che la Giordania offre loro, rimandano i capitali nel Paese d’origine.
Ecco perché gli italiani con il naso all’insù quando arrivano nella capitale Amman rimangono perplessi nel vedere scorazzare Porsche, Mercedes, BMW, Mustang ed Hammer come se piovesse. Sgomenti lo diventano quando vengono a sapere che le tasse sulle vetture fan lievitare il prezzo di quasi il doppio rispetto all’Italia, ad esempio. Fuori dalle finestre degli hotel di Amman il canto dei Muazzin provenienti dalle moschee si insinua tra la massa di milioni di mezzi che si muovono all’unisono verso le varie destinazioni di questa enorme città, originariamente costruita su sette colli sul modello di Roma e che ora ne conta diciannove.
Città che continua inesorabilmente ad espandersi verso ovest in contrapposizione con il silenzioso e maestoso deserto del Wadi Rum, scenario che ha svolto il ruolo da protagonista durante le numerose battaglie della rivoluzione araba capeggiate dall’irlandese Lawrence d’Arabia e sfociate nella liberazione dagli invasori turchi ed il colonialismo inglese. Wadi Rum che ancora oggi ospita gli abitanti del deserto, i beduini, definiti commerciali da qualche turista ignorante ma che, in realtà, hanno adeguato un pezzettino delle loro giornate alle invadenti visite, quelle sì commerciali, di ingombranti visitatori. Difficile capire per un occidentale che il beduino non ha bisogno di soldi per vivere; quando navighi con il tuo fedele dromedario tra la sabbia ed il sole cocente devi essere in grado di trovare la vita ovunque, anche nei posti più impensabili. Se non hai beni da acquistare a ben poco servono i soldi.
Così, nella terra dove manca l’acqua e dove il fiume Giordano, deviato dall’arrogante Israele per raffreddare le proprie centrali nucleari, è sempre più debole ed incapace di rigenerare il mar Morto che perde a sua volta un metro l’anno, viene ancora offerta la possibilità di fare un viaggio dentro al viaggio. Un viaggio verso le nostre origini.