Editoriale: Riecco il Titanic

Dall’oblò di questa nave non c’è nessun mondo da guardare. Al momento solo una sconfinata distesa di mare.
L’imbarcazione prosegue il suo viaggio in una giornata soleggiata, oscillando tra le onde.
Che all’esterno faccia freddo o caldo non mi è dato saperlo dato che non ho messo naso fuori dalla cabina da praticamente più di 11 ore. E’ un viaggio di rientro dopo l’ennesima stagione portata a termine tra alti e bassi come in ogni lavoro. Sono anni che utilizzo questo scomodo, dispendioso e lento mezzo di trasporto per raggiungere la destinazione, ma questa volta qualcosa mi ha davvero impressionato come mai in precedenza. Durante il tragitto iniziale con il primo traghetto, desideroso di sgranchirmi le gambe dopo alcune ore di immobilità, ho raggiunto il ponte. Lì generalmente si incontrano camionisti che fumano maleodoranti sigarette, bevono un caffè dietro l’altro e raccontandosi aneddoti cercano di ingannare il tempo; turisti suddivisi tra anziani possessori di camper che scorazzano per l’Europa in cerca di luoghi sereni e giovani con zaino e sacco a pelo affamati di conoscenza ed al culmine dell’eccitazione nel aggredire nuovi mondi inesplorati. Ma questa volta lo spazio comune non era occupato da queste persone, bensì da decine di famiglie e centinaia di individui provenienti dal Medio Oriente visti gli evidenti tratti somatici e l’idioma arabo con cui dialogavano tra loro. Sinceramente non so chi fossero e dove andassero di preciso, fatto sta che gli indumenti che indossavano, il forte odore acre che emanavano e gli atteggiamenti che assumevano non mi hanno dato l’impressione che si trattasse di un convegno di medici o di un gruppo di rappresentanti in viaggio premio con rispettive famiglie a seguito.
Quelle presenze mi hanno scosso. Ad un certo punto ho avuto anche timore, tant’è che sul ponte ci sono rimasto pochissimi minuti per rientrare velocemente nella mia cabina dove paradossalmente avrei trovato aria. La mia aria era, ed è, la sicurezza.
Attraccati nella notte ad Atene, mentre abbandonavo la nave, i fari della mia vettura squarciavano le tenebre e come in un film il loro fascio di luce sembrava proiettare immagini di centinaia di persone, silenziose, in fila, dirigersi verso uno o più luoghi a me sconosciuti.
Ma cosa sta succedendo là fuori? Fuori dalle nostre cabine, dal mondo virtuale e dai mass media che ci sciacquano periodicamente la testa? Chi sono tutte quelle persone? Da dove vengono? Perché erano imbarcate sulla mia nave a turbare la mia stupida normalità?
Riconoscendo d’esser stato uno studente non proprio brillante e sprovvisto di titoli d’alcunché, non posso comunque fare a meno di citare una frase in latino che spesso ripeteva un mio professore di italiano e storia: Historia est magistra vitae.
Durante quel periodo, il periodo delle scuole superiori, la mia mente navigava spensierata tra motociclette e canzoni di Lucio Dalla e Francesco De Gregori che spesso stridevano tra le mura di casa di famiglia, politicamente schierata dalla parte opposta rispetto i due cantautori. A me piacevano la musica ed i testi che parlavano di ideali, libertà nonché spesso d’amore, motore della vita e musa delle arti. Sinceramente di schieramenti politici non m’interessavo né ci capivo un granché. Premesso questo, proprio un brano del “Principe” De Gregori cui titolo è Titanic, era ed è la metafora perfetta del mondo in cui viviamo. Non è cambiato nulla.
Nell’epoca della sfortunata nave Titanic c’erano dei disperati che lasciavano la smembrata ed ancora fumante Europa dell’immediato dopoguerra in cerca non di fortuna come tanti erroneamente sostengono, ma di dignità. Con le loro valigie di cartone legate con lo spago, vestiti in modo approssimativo e sicuramente non profumati e curati come usciti dal barbiere facevano storcere il naso agli occupanti della prima classe che già irrigidivano i volti rivolgendo lo sguardo a quelli della seconda. Persone fisicamente fuggite alla morte in cambio della loro anima. Involucri umani svaligiati e bruciati visceralmente come le case da cui stavano scappando, forse spinti dall’ultimo desiderio di rendere la vita dei loro figli semplicemente normale. Erano le scomode vittime innocenti che aveva prodotto la società della prima classe e con cui obbligatoriamente stavano dividendo lo stesso mezzo di trasporto.
La storia si ripete, la storia siamo noi, la storia insegna. Quella vera però, perché spesso la storia ci viene presentata in maniera distolta e come in un equazione con valori sballati alla fine il risultato non torna, lasciando irrisolte domande che spesso vengono cavalcate in maniera opportunistica e fuorviante da chi ha interessi nel farlo.