Vietri sul Mare. 47 e l’eredità

“Prego si accomodi, il dottore la sta aspettando”
La signora in sala d’aspetto in paziente attesa della convocazione, si alzò dalla sedia ed entrò nello studio del notaio. Salutò educatamente e colse l’invito a sedere nuovamente. Una pregiata scrivania in legno la divideva dal funzionario che reggeva tra le mani una busta da lettere sigillata. Lui teneva gli occhiali sulla punta del naso che si reggevano come equilibristi sulla fune e, ad ogni suo movimento, sembravano lasciarsi scivolare. Scrutava tutti i particolari con dovizia mentre alle sue spalle un ricercato orologio a muro scandiva i secondi che riecheggiavano nella stanza. I doppi vetri delle finestre la isolavano quasi completamente dai rumori provenienti dalla strada limitrofa.
Il notaio aprì la busta ed estrasse la lettera. Si mise a leggerla tra sé e sé, sussurrando di tanto in tanto qualche spezzone di parola contenuta nel testo. La sua testa lucida e pelata rifletteva la luce che filtrava nella penombra dello studio. La signora attendeva un riscontro da parte del funzionario intento ad interpretare lo scritto. Fino a che questi si pronunciò traendo le prime conclusioni.
“Dunque, la defunta pare abbia espresso in piena consapevolezza quanto riportato da lei stessa in questo manoscritto”
La signora era visibilmente dispiaciuta per la dipartita della conoscente. Si limitò ad ascoltare il notaio senza proferire parola che elencò le volontà della donna precisando da subito un particolare.
“Qui viene indicata come unica erede la nipote, tale signorina M.T., cui però legalmente grado di parentela non risulta in essere”
“No, infàtt a’ signurina…” Il notaio fece segno con la mano di aspettare, interrompendo sul nascere l’iniziativa della cliente “Dicevamo…” continuò “non è riconosciuta legalmente, però non ci dovrebbero essere problemi in tal senso. Che lei sappia c’è qualche parente interessato ad impugnare il testamento?”
“A’ poverà signòr nun ricevèv visitè ra tiemp immemorè. ra quantò ne so io, in tuttì chisti annì in cui ha abitàt int’a’ nostrà palazzìn nun si è maje presentàt nisciuno a farlè visità. Tantu menò lei ha maje fatto cennò a’ parentì, poi nun credò chè…” Nuovamente il notaio fece cenno zittendo la signora. Lesse qualche riga prima di riprendere il discorso.
“Dunque parrebbe che l’unica persona che aveva a cuore era questa ragazza che lei chiama affettuosamente nipote ed alla quale ha dato disposizione di lasciare tutto”
La signora dinanzi al notaio riprese timidamente parola.
“Vere era na’ persòn assaie solitarià e l’unìc persòn a cui sembràv da’ na’ certà confidènz è statà mia figlià. Fin ra piccolà. pure a’ mia criatura stavà simpatìc a’ signorà, tànt’è ca’ capitàv spessò ca’ andàss a farlè visità e’ pomeriggì. A vote’ si fermàv a studiàr ra leì” il notaio ascoltava e lasciava proseguire il discorso con lo sguardo vigile e severo “Povèr signorà, era assaie coltà e e’ frequènt aiutàv mia figlià a fa’ e’ compitì. E’ prestàv e’ librì. Parlavàn tantu assiemè. Forsè l’unà e l’àltr avevàn trovàt e’ figurè e’ nonnà e nipotè ca’ entràmb nun hannò maje avutò”
“Capisco signora. Però già le dico che la situazione qui è piuttosto complicata. Sua figlia dove si trova adesso?”
“Mia figlià fatica all’esterò. nun ha fatto nimmanco in tiemp a tornare ppe o’ funeralè. Ci tenevà davvèr tantu a salutàrl un’ultìm voltà. Era affrànt”
Il notaio annuì, poi finalmente posò la lettera sulla scrivania.
“Quindì cosà pòzzo comunicàr a mia figlià? Lei nun si nullà e’ chesta cosà. nimmanco io me immaginàv ca’ a’ signòr e’ lasciàss chillu pocò ca’ avevà. Poverinà. Sicuramènt decidèrà e’ donarè mobilì e vestìt in beneficenzà. Magarì si tèrrà cacc librò e’ ricòrd”
Il notaio fece una smorfia di disappunto.
“Ma allorà davvèr nun si e’ cosà stiamo parlànd?”
La signora non capì.
Leggo testualmente.
Il notaio riprese in mano il documento e cominciò a leggere ad alta voce.
“L’unica pace di cui avevo bisogno l’ho ritrovata nei libri che ho letto in questi lunghi anni. Periodo in cui ho liberamente scelto di separarmi da ogni vincolo materiale. Poeti e filosofi sono state le guide che mi hanno accompagnato in questo lungo e tortuoso sentiero spirituale. Ho scelto di chiudere la porta dell’uscio e rifugiarmi in me stessa rifiutando qualsivoglia contatto con le persone che distrattamente per scelta loro, o meno, si destreggiano a vivere, forse sopravvivere, nel mondo là fuori. Ma questo è un lascito, non un giudizio. Puntando il dito rinnegherei gli insegnamenti di libertà cui sono stata fiera allieva. Di conseguenza la mia volontà che esprimo nel pieno possesso delle mie facoltà, è quella di agevolare la vita dell’unica persona che con la sua gioia, spontaneità e spensieratezza ha sempre illuminato la parte più buia di questa casa e di me stessa. Essere diventata nonna, senza i requisiti né la volontà d’esserlo, è stato il premio più bello che mi potesse capitare. Non sono credente e non ho un Dio specifico da ringraziare. Di concreto c’è la mia nipotina invece, cui dispongo di lasciare, i miei averi elencati di seguito e di cui lei ignora l’esistenza”
Alla signora spuntarono le lacrime agli occhi.
Il notaio fece un sospiro ed elencò i beni materiali. Tre appartamenti nel centro della città, alcuni terreni sulla costiera amalfitana, gioielli ed altri valori depositati presso una banca, mentre in un altro istituto titoli ed un cospicuo conto corrente.
Come avviene nelle piccole cittadine la voce si sparse velocemente tant’è che, come da previsione del notaio, i primi a fare causa all’ereditiera furono due sorelle della defunta ed i loro figli, quelli sì legalmente nipoti, che si fecero vivi per la prima volta. Si erano preparati al meglio “Poverà nonnà” versavano lacrime “leì ci scrivèv semprè. Ci riceva ca’ era costrètt a starsèn chiusà a casa ppe paurà ca’ e’ rubassèr tuttò. Ci parlàv e’ na’ uagliuncella ca’ avevà miso e’ uocchi sullè sue cosè. Ma chi pensàv andavà a ferni’ còsì? Tantà crudèltà è inimmaginabìl”
Anche il sindaco e qualche assessore non mancarono di far valere ragione “a’ signòr avevà assaie a core a’ sua cìttà. Spessò telefonàv o’ Comunè ppe informàrs sui lavorì e’ mantenimentò, sullò statò ra’ conservaziòn dei palàzz storicì” Chiaramente non era vero “Era attènt a’ cultùr e, ca’ io sappià, cacc semana prima e’ muri’ ci era giuntà vocè ra’ sua volòntà e’ donarè na’ cospicuà sommà indirizzàt e’ operè pubblìch“
Immancabilmente ebbe da dire la sua pure il prete che aveva speso malvolentieri qualche minuto del suo esercizio per cospargerla di acqua santa e dedicarle una preghiera al cospetto di una funzione deserta che, al pratico, significava l’assenza di offerte.
“Comm nun ave’ a core e’ sortì e’ chesta anema ca’ a modò suo seguìv a’ lucè ro’ Dio misericordiosò” disse stringendo un rosario ed il vangelo al proprio petto “unà femmena cui a’ presènz è sempe statà costànt o’ cospètt e’ nostrò Signorè. Song certò ca’ sul o’ pocò tiemp rimàst e o’ smarrimènt ra’ malattià e’ abbiàn impedìt e’ esprimèr a’ sua volòntà ca’ evidentemènt includèv nu’ generòs obolò a’ Chiesà”
Furono i più rappresentativi, ma non gli unici, a presentare le mani tese al cospetto del notaio ed alcuni di loro, come i nipoti ad esempio, ne ebbero convenienza.
Solo i libri non furono soggetti della disputa. L’eredità spirituale di quella donna finirono sugli scaffali della nipotina che fu l’unica tra tutti a non aspettarsi nulla ed a ricevere il dono più grande che la sua nonna acquisita potesse lasciarle in eredità: la conoscenza.
Non le case, i terreni, o i gioielli, ma la conoscenza fu la chiave della felicità di quella bambina che nel frattempo aveva imparato a splendere di luce propria.
E fu felice.
Si ereditano beni mobili o immobili. Si ereditano anche dei debiti. Tutto ciò che si eredita è sempre di una materia contabile. È possibile che non si possa ereditare, nemmeno dalle persone più care, un patrimonio che non sia venale? Ereditare sogni, pensieri sfusi, fantasie di vario genere; e poi spunti di romanzi o di romanze, dubbi filosofici, amori, certezze teologiche, brandelli di poesie, magari chiacchiere e bugie da tener buoni per le ore di solitudine. Questo si chiamerebbe ereditare.(Francesco Burdin)
Why do you fuckin run?
La domanda è posta da un ragazzo ubriaco trasportato da uno sfuggente pick up nella parte del cassone, in piedi, mentre si regge alla barra metallica posta a ridosso del cabinato: “Why do u fuckin run? Why?” Intuibile il significato, che comunque possiamo tradurre in “Perché minchia corri? Perché?”
L’involontario destinatario è un signore di 42 anni suonati che di corsa sullo stesso versante di strada sta intraprendendo la discesa che coincide con gli ultimi 4 km di percorso appena beatamente e pacificamente svolto.
Non trovano immediata risposta né uno, né l’altro.
Il primo probabilmente già dopo qualche metro avrà evaporato attraverso il suo sguardo ebete l’immagine di un distinto signore con due dita medie alzate a lui rivolte, il secondo, riacquisita la forma più consona agli sportivi che non agli ultrà, ha riflettuto a lungo sul: “Perché corro?”
Naturalmente di primo acchito i pensieri postumi si focalizzano a ripetere la scena con il finale più adeguato, come nei film riguardanti il conflitto tra yankee e viet cong in Vietnam, ad esempio, dove gli americani nella finzione si rimodellano vincitori morali o di battaglie di una guerra che nella realtà hanno sonoramente perso su tutti i fronti. Nello specifico il finale più adeguato sarebbe forse stato un bel “fatti i cazzi tuoi!”.
Anche in questo caso però sarebbe andato perso il piccolo patrimonio concesso da qualcuno che manovra i fili dall’alto e che quella mattina, forse stanco di pensare a cose più impegnative, ha deciso di mettere sulla strada del riservato e silenzioso omino un disturbatore filosofo. (L’omino ultimamente di squinternati ne incontra parecchi tra l’altro)
Se niente è per caso, lo stesso dicasi del meraviglioso libro “L’arte di correre” di Haruki Murakami, che è stato regalato al runner di mezza età da un suo caro amico, con il quale condivide anche questa piccola grande passione e che mai suggerimento di lettura migliore avrebbe potuto fare; perché tra i vari piacevoli e scorrevoli versetti dell’ebook (o libro cartaceo) c’è la chiave per trovare risposta al cerebroleso ubriaco che si è fatto inconscio interprete della domanda che si pongono migliaia di persone; siano esse appassionate di corsa, sportive o meno.
Corro perché mi va. Semplicemente.
Ci possono essere altrettante migliaia di motivazioni per spingerci a correre, ognuno avrà la sua personale.
I più giovani saranno alla ricerca di record da battere o per modellare il proprio fisico, i meno giovani per tenersi in forma, eliminare la pancetta e forse regolarizzare la propria vita, altri ancora lo faranno per avvicinare mete spirituali, chi lo fa per scaricare tensione o per respirare aria pura e via dicendo.
Motivazioni che, condivido con lo scrittore e maratoneta giapponese Haruki Murakami, devono nascere dal profondo di noi stessi.
Ecco perché d’istinto la risposta che scaturisce nei pochi secondi che seguono la domanda dell’ubriaco che te lo chiede alla sprovvista difficilmente sarà diversa da un vaffanculo. Un’autodifesa del nostro ego più profondo che è appena stato colpito e proprio durante il culmine dell’approfondimento.
Ma non è la risposta giusta. Quella corretta è: corro perché mi va.
A differenza della prima cavernicola reazione, questa risposta per se stessa infonde tranquillità, sicurezza e fa sì che appaia anche un sorriso a chi la pronuncia. Sorriso che è consigliato mantenere stampato sulla faccia proprio durante le ultime fatiche di una gara o esercizio in quanto aiuta a rilassare i muscoli del corpo ed inspirare più aria, che è la prima energia vitale del corridore.
Consapevolezza e libertà sono parole di grande intensità e significato ma non tutti colgono occasione per catturare lo stato di forma che questi elementi determinano.
Se ci pensiamo tutti gli uomini sono in eterno movimento spirituale, chi camminando o chi di corsa, tutti quanti percorriamo un percorso lungo e tortuoso dal finale ignoto.
Ognuno è libero di scegliere come arrivare al traguardo. L’esperienza accumulata suggerisce che scorciatoie ed artifizi non portano mai al raggiungimento di grandi risultati, qualcuno prima o poi lo coglie, qualcun altro no. Pazienza.
Se l’ebete ubriaco non poneva la domanda (quando scrivo ebete non si senta coinvolto Renzi), probabilmente l’omino avrebbe continuato a correre senza sapere fondamentalmente il perché, cercando risposte illuminanti che spesso e volentieri si trovano tra i versetti delle frasi a concorso pubblicate nelle riviste specializzate o in qualche aforisma dettato da filosofi della Magna Grecia.
Invece…
“Perché minchia corri? Perché?”
“Perché mi va”
Com’è bello ciaspolar
Amanti della montagna contro estimatori del mare, due partiti che generalmente apprezzano o una cosa o l’altra.
In realtà i canoni fissi delle emozioni riguardano le sensazioni positive o negative che ogni individuo percepisce dal momento e dal luogo che frequenta, indipendentemente quale.
Con la giusta compagnia ed una piccola dose di buona volontà capita così di ritrovarsi in fila indiana su sentieri innevati ad ammirare incantati bianchi paesaggi illuminati dalla luna piena, interrompendo la passeggiata di tanto in tanto per immortalare momenti unici o semplicemente per scambiare qualche parola. Già, proprio quel tipo di approccio umano che a causa della dirompente tecnologia social è sempre più raro da trovare e che mal si sposa con la filosofia montana che, gelosa delle sue tradizioni, scherma ed annulla ogni segnale wifi o telefonico che sia, proteggendo invece la sacralità del luogo. 
Smettiamo però di filosofeggiare ed indossiamo le ciaspole che, per chi non lo sapesse, altro non sono che racchette da neve. Una volta fissate ai piedi consentono di aumentare la superficie calpestata e di conseguenza distribuire il proprio peso in modo da consentirci il galleggiamento sulla neve fresca che è lo stesso principio cui si basano anche i fachiri.
Come con tutti gli attrezzi indossati la prima volta bisogna adattarsi agli ingombri che in un primo momento donano incerte movenze stile piedistallo giocatore da subbuteo, ma prendere dimestichezza con le racchette da neve è passo breve. Di passi in effetti se ne possono fare pochi o tanti per raggiungere le tappe intermedie dei nostri percorsi e che ci vedono ospiti di case montane riscaldate da calorose stufe a legna e dall’ospitalità delle persone presenti, sempre alle prese con vin brulé, salsicce arrostite su scoppiettanti griglie e polente in imponenti pentole fumanti.
Dopo le breve parentesi ristoratrici ci si rimette al cammino, galvanizzati dai primi traguardi ed incoraggiati dall’aumento di grado alcolico che sicuramente aiuta lo spirito ed in parte camuffa la fatica. Ovviamente in un contesto iperprotettivo ed attività di quasi esclusivo carattere ludico e leggermente sportivo, tutto proporzionale al livello di difficoltà delle iniziative: aperitivo ciaspolando o ciaspolata con cena evidentemente sono strutturate con scopi mangerecci e beverecci e non certo per raggiungere quote ove piantare bandierine e respirare con la maschera dell’ossigeno… Riescono comunque a dare sapore di grande impresa ai partecipanti più piccoli che dimostrano caparbietà e forza nello scalare le salite che non di rado lasciano il fiatone agli adulti, dimostrando così ancora una volta che i limiti che ci poniamo spesso sono mentali e non fisici. I bambini non hanno pensieri temporali definiti per cui camminano effettivamente fino a che il fisico regge senza attivare i blocchi psicologici auto conservativi di cui gli adulti invece ricorrono perlopiù inconsapevolmente.
Blocchi psicologici o meno, impronta su impronta, di già o finalmente, la fila di persone e le loro lampade da testa che illuminano gli ultimi tornanti tra le torce infuocate e che accendono a loro volta l’ombrosa e fitta boscaglia, si snoda fino al comparire dell’ultimo rifugio che consacra la riuscita finale. 
Tra una rincuorante ed amichevole pacca sulla spalla e l’altra si riprende fiato e ci si scambiano le prime opinioni su quella che è stata un’esperienza gratificante e che è destinata a rinvigorire il proprio appeal tra le panche di una calda stanza, dove a breve sui tavoli verranno accomodati rustici piatti di goulash, ossubuchi, polenta, crostate e chi più ne ha più ne metta con abbondanti annaffiature di vino fino all’immancabile grappa ed i conseguenti cori alpini praticati da signoroni in camicia con il naso rosso ed il calice alzato. 
Alla fine che sia mare o montagna quel che conta e trovare equilibrio con se stessi e con le persone che ci circondano che inevitabilmente e nuovamente inciteranno la nostra mente a filosofeggiare ed a pensare che in fondo la vita è così bella nella sua semplicità.
“Sulle montagne si trova la libertà! Il mondo è perfetto ovunque, salvo quando l’uomo arriva con i propri tormenti” (Friedrich von Schiller)
















