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Bilbao. L’inutilità dell’arte

“Aspettami!”

Gridò all’amico con il fiato rimasto.

Con le mani ai fianchi e la schiena piegata implorò di fermarsi un attimo a respirare.

Il ragazzo davanti a lui lo accontentò rallentando la corsa e ritornando sui suoi passi.

“Ma come? Sei già stanco? Dai sediamoci un po’ qui” disse avvicinandosi ad una panchina. Si sedettero.

La giornata era umida ma ciò non impediva loro di godere del panorama lungo le rive del fiume Nerviòn.

Grazie alla riqualificazione urbana di Bilbao e la comparsa di una pista ciclabile molte persone si erano avvicinate all’attività sportiva.

Il ragazzo con il fiatone stava recuperando le sue forze.

“Stiamo andando troppo veloci per le mie possibilità. Oggi la salitella del Euskalduna mi ha sfiancato”

Si stava riferendo al ponte moderno che attraversava il fiume.

“Strano, di solito lo fai con le ridotte. A proposito di Euskalduna, ma M suona lì la prossima settimana?” divagò per un attimo il giovane meno provato dall’attività “Sì, sì” Rispose l’altro e continuò “E’ la prima volta che si esibisce in quel teatro… E’ molto emozionata”

“Beh c’è da capirla. Senti ma noi continuiamo invece? Che dici? Rientriamo per la passarella di Arrupe o vuoi attraversare il ponte di Zubizuri?”

Presero del tempo per pensarci un po’ su e decidere cos’era il meglio da fare.

“Di sicuro non mi metto a fare le scale del La Salve” Risero.

Una volta ristabilito il fiato ripresero la loro corsa. Questa volta mantennero un passo tale da consentire la chiacchiera.

“Ogni volta che passo davanti al Guggenhaim mi torna in mente New York; quando ricordo quella città è inevitabile un pensiero alla maratona. Chissà se un giorno la faremo”

A parlare era il ragazzo che aveva accusato meno fatica.

Rispose l’altro ansimante

“Ma va. Sei matto? Schiattiamo dopo 10K immagina a farne 42…”

“L’han fatta migliaia di persone non vedo perché noi non potremmo. Proprio bello questo palazzo

divagò passando davanti al museo.

L’amico non mancò di esprimere la sua opinione “Bello quanto inutile. Fondamentalmente l’arte è inutile” Lasciò una pausa di spazio al suo respiro, poi disse “Impara l’arte e mettila da parte”

“Da una persona che vive su una città affacciata al mare non mi aspettavo un’affermazione così strampalata!”

“Perché? Io adoro la concretezza. L’arte cos’ha di concreto?”

“Quindi anche il mare è inutile”

Si fermarono nuovamente appoggiandosi al parapetto del ponte Zubizuri

“Ma che c’entra il mare con l’arte scusa?”

“Anche il mare non porta benefici. L’acqua salata non può dissetarci, gli animali che lo popolano non sono necessari a sfamarci, la sabbia non è un terreno fertile. Insomma, anche il mare non ci serve a niente”

L’esempio non venne colto “Ma cosa c’entra il mare con l’arte? Stai paragonando la natura con qualcosa di superfluo. L’arte è una creazione dell’uomo”

“L’arte, come il mare, è indispensabile a stimolare i sensi dell’uomo. E’ nella nostra natura. Ascoltare musica o il suono delle onde, ci fa star bene. Fissare l’orizzonte ed ammirare un tramonto oppure un dipinto di alto valore artistico, provocano le stesse sensazioni. Sono valvole di sfogo indispensabili

L’amante del concreto ammorbidì la sua versione

“Beh quello che dici è ovvio. Io intendevo che parte dell’arte, come questa scala ad esempio, ha un’utilità relativa”

“Nel caso di Calatrava ti devo dar ragione” sorrisero “Un architetto pluri blasonato che progetta un pavimento sul quale bisogna applicare un tappeto antiscivolo brutto come questo è davvero da denuncia”

Ricominciarono a correre e salire le scale che portano alla Bizkidetasun Plaza.

“Tu che fai, prosegui ancora o rientri?”

“Farò ancora qualche chilometro.”

I due amici si salutarono lasciando alle spalle un’arcata del ponte Zubizuri.

Il più atleta ed artistico dei due si immise nella calle Ercilla Kalea e corse tra i caseggiati e negozi nel cuore della città fino ad arrivare a Plaza Moyua.

Si fermò al centro della piazza ed ammirò i giardini in fiore.

Lo scroscio dell’acqua che zampillava dalla fontana trasmetteva un rassicurante senso di quotidianità.

L’arte si esprimeva attorno a lui circondandolo di sentimenti di ogni tipo.

Il colore dei fiori, gli ornamenti delle facciate dei palazzi, il brusio di qualche insetto.

Tutto faceva parte di un disegno divino. Meditò.

 

“Quando l’uomo rimane da solo e chiude gli occhi di fronte all’avvenire, e al sogno, gli si rivela l’abisso spaventoso dell’eternità.”
Miguel de Unamuno

 

 

 

 

Malaga. Problemi di cuore

Stavo affrontando l’imperiosa salita che mi avrebbe fatto raggiungere il Castello di Gibralfaro. La giacca che indossavo risultava inadatta alla giornata calda e soleggiata così che dopo un centinaio di metri, infatti, la tolsi. Man mano che salivo si aprivano nuovi scorci e la vista della città dall’alto si faceva sempre più emozionante. Feci una prima sosta presso un punto panoramico lungo la muraglia. Avevo già individuato il teatro romano ai piedi dell’Alcazaba;  lì fumai una sigaretta, scattai alcune foto e ripresi la salita.

Non sono mai stato un gran sportivo e quella passeggiata lo evidenziava ulteriormente.

Incontrai altri turisti lungo il cammino. Le coppie anziane mi fanno sempre tenerezza; di loro invidio la complicità e la caparbietà con la quale esplorano il mondo. Spesso calzano scarpe della stessa marca; significa che gli acquisti vengono decisi assieme. Poi c’è uno dei due che ha da lamentarsi dell’altro. Borbottano frasi comprensibili solo a loro e così anche il linguaggio che utilizzano è un’ esclusività di coppia.

Venni sfiorato da un corridore che vestito in maglietta e pantaloncini tecnici sembrava pratico di quella strada. Stava salendo piuttosto disinvolto e, a differenza mia, era notevolmente allenato. Infatti sparì dalla mia vista dopo pochi secondi.

Il caldo aumentò ed il mio respiro divenne affannoso. La stanchezza cominciava a farsi sentire più che sulle gambe, nel petto. Avevo cominciato a respirare faticosamente e quindi mi fermai ancora una volta. Sedetti sul muretto medievale al Belvedere di Gibralfaro. Sorseggiai un po’ d’acqua e guardai ancora una volta il paesaggio che offriva Malaga. Rinunciai alla sigaretta e maledii il mio vizio . La linea blu del mare contrastava con l’azzurro del cielo. Una grossa nave bianca di tanto in tanto suonava la sirena per avvisare l’equipaggio che da lì a poco sarebbe salpata. Le città sul porto le ho sempre considerate le più affascinanti in assoluto perché mi trasmettono un impagabile senso di libertà.

Lentamente passò al mio fianco anche una famiglia di persone distinte. I due coniugi parlavano in arabo mentre i figli, almeno sembrava lo fossero, si rincorrevano scherzosamente intorno a loro schiamazzando in spagnolo. Il padre, un signore alto e robusto, con un cenno fermò uno dei due ragazzini riportandolo alla calma. La sua consorte era silenziosa e minuta, portava il chador e sembrava abbastanza più giovane di lui.

Proseguì il mio cammino a qualche passo di distanza da quella famiglia.

Il corridore mi sfiorò nuovamente mentre affrontava la discesa come una furia.

Una volta faticosamente raggiunto il traguardo, ossia l’interno delle mura del castello di Gibralfaro non persi tempo nel riammirare Malaga e tutto ciò che aveva da offrire. La cosa più evidente da quella posizione era la Plaza de Toros, conosciuta come Malagueta e costruita nel 1847. In quel luogo così crudele ed arido anche l’artista per eccellenza Pablo Picasso prese spunto per molte delle sue opere tra cui la tauromachia. Sarei andato a far visita anche al museo a lui dedicato, magari nel pomeriggio. Il vento mi spense più volte la fiamma dell’accendino prima che potessi godermi finalmente anche la mia meritata sigaretta.

Non prestavo più attenzione al respiro affannoso e da qualche decina di minuti si era anche acutizzato un dolore al petto ed al braccio sinistro. La colpa era di quella maledetta salita e di me idiota non più abituato a fare sforzi prolungati.

Decisi che era meglio entrare per qualche attimo all’interno del museo. L’ingresso era gratuito e la stanza era decisamente più fresca rispetto alla temperatura esterna.

Ricordo d’aver osservato con cura la divisa militare risalente al 1800 ed indossata da un manichino.

Poi il buio.

Mi risvegliai non so quanto tempo dopo e la prima figura che si materializzò davanti a me era quella del padre di famiglia con cui avevo condiviso parte della camminata. Man mano che passavano i secondi realizzavo sempre più quello che capitava intorno a me. Le sagome si facevano più nitide. Quell’uomo mi stava tenendo il braccio destro e misurando il battito cardiaco mentre io vedevo la stanza di un soffitto. Chiesi dov’ero e mi venne intimato in non so quale e quante lingue di starmene tranquillo.  Attorno a noi c’era un gruppetto di persone che ci accerchiavano ad una certa distanza. Potevo riconoscere anche la moglie del signore che mi stava prestando soccorso mentre teneva per mano i due bambini. Il più piccolo la guardava di tanto in tanto alla ricerca di qualche spiegazione su ciò che stava accadendo. Poi le sirene di un’ambulanza e nuovamente uno stato confusionale che non mi permise di ricordare altro.

Dopo una serie interminabile di esami finalmente riuscì ad avere un colloquio con un medico che qualche parola di italiano la parlava anche, così che non fu troppo arduo capire la diagnosi, facilmente intuibile anche per un comune mortale come me:  si trattava di infarto.

Il giovane e gesticolante dottore dal candido camice bianco mi comunicò che ero stato parecchio fortunato ad essere stato immediatamente soccorso da una persona competente. Personalmente ricordavo l’accaduto in modo piuttosto frammentato e confuso, quando d’un tratto mi venne in mente l’immagine della prima persona che vidi da sdraiato una volta riaperti gli occhi. Era quel omone che avevo seguito durante la salita al castello. Mi venne detto che era un cardiologo molto noto in città, così che mi fu facile recuperare il suo indirizzo se non altro per ringraziarlo del suo operato.

Così feci e lo contattai qualche giorno dopo, una volta dimesso dall’ospedale. Al numero dello studio rispose una ragazza con un timido timbro della voce ed estrema pacatezza. Parlava molto bene l’inglese, cosa che non mi favoriva minimamente. Provò a comunicare in spagnolo, ma la lingua che a noi italiani sembra così simile e facile da capire, al telefono risultava impossibile da decifrare. Decisi quindi di recarmi personalmente nell’ambulatorio medico del mio salvatore. Il rosso sole infuocato di un tramonto mozzafiato rifletteva le lucenti sfumature sulla targa dorata con inciso il nome del cardiologo, come indicato chiaramente dalla dicitura. Nome di origine araba, non certo spagnola. Una volta entrato dovetti aspettare qualche istante prima di poterlo incontrare. Riconobbi la donna silenziosa e minuta che mi fece accomodare in sala d’attesa. Mi sorrise educatamente.

Stavo osservando i quadri e delle riviste mediche quando sentì un braccio avvolgermi le spalle.

“Allora come va? Passato lo spavento?”

“Dottore, non so come ringraziarla” risposi sorpreso nel rivedere il mio soccorritore. Lui sorrise mentre io continuai abbastanza imbarazzato “davvero, non vorrei offenderla ma se posso offrirle qualcosa, fare qualcosa per lei”

Ricevetti un’altra risposta spiazzante “Per me non serve che faccia niente grazie, piuttosto è per lei che dovrebbe fare qualcosa”

Intanto non feci caso che stavamo parlando la stessa lingua. “Ma lei dottore parla l’italiano…”

“Dai usciamo da qua” disse “andiamo a bere qualcosina qui alla cerveceria difronte. Sono chiuso qua dentro tutto il giorno. Sì, parlo un po’ di italiano perché ho fatto dei corsi di aggiornamenti in Italia.”

Si rivolse in arabo alla ragazza che rimase nello studio e ci chiuse la porta una volta usciti noi due.

“Parla arabo con la… signorina. L’arabo invece? Dal nome sull’insegna si direbbe…”

“Signora. Lei è mia moglie. Arriviamo dalla Siria. Siamo degli sfortunati siriani”

Le mie domande non lasciavano spazio a quelle riguardanti il sottoscritto. Erano a senso unico. Magari a lui nemmeno interessava più di tanto sapere chi fossi e cosa facessi a Malaga. Del mio eroe volevo invece sapere tutto.

Ci sedemmo e dopo mille altri ringraziamenti il discorso si fece un po’ meno formale. Ad un certo punto della conversazione si rivolse a me con tono severo “Scusi se mi permetto, ma quello che è successo non deve ripetersi. Questa volta è andata bene ma dovrà riguardarsi di più in futuro. Non è un campanellino d’allarme questo, questi sono i rintocchi di un campanile” Avevo già sentito le prediche diverse volte e glielo dissi in modo scherzoso “L’alcool da ridurre, il fumo da evitare, i grassi e gli zuccheri… Dottore di qualcosa si dovrà pur morire prima o poi!” Sul suo viso non comparve nessun cenno di compiacimento. Anzi, tutt’altro. “Lei può scegliere se aumentare le probabilità di morire di vecchiaia serenamente durante il sonno nel suo letto o in quello di un ospedale attaccato ad una bombola d’ossigeno fino a che nemmeno le macchine potranno garantirle gli ultimi respiri. In un caso o nell’altro morirà comunque, ma io preferirei farlo nel letto di casa mia”

Era piacevole parlare con lui. Mi raccontò molti aneddoti su Malaga e sulle opere esposte al museo Picasso. Imperversava anche il periodo del carnevale e mi invitò a partecipare alla festa che si sarebbe tenuta il giorno seguente tra le vie della città e culminante nella Plaza de la Merced. Trovò anche il tempo per raccontarmi sprazzi della sua vita. Aveva studiato in Siria ma fu costretto a scappare a causa della guerra “La mia casa è ancora in piedi e tra i miei familiari solo degli zii sono rimasti uccisi dai bombardamenti”  mi disse cercando di velare la commozione “Ma anche se la nostra casa ha resistito il resto della città è annientato. Gli edifici sono crollati, le strade sono impraticabili, mancano i beni di prima necessità… Come facevamo  a vivere così?” Continuò “Io e mia moglie, all’epoca non avevamo figli, abbiamo deciso di andarcene. A lei manca qualche esame per laurearsi in medicina ma ha dovuto abbandonare l’Università” Non mi sembrava il caso di aggiungere altro, lo fece lui “Abbiamo provato ad arrivare in Italia ma ci sono state chiuse le porte in faccia. Chissà, magari le aprono solo a quelli che si presentano sulle barche o sui gommoni. La Germania invece vista la mia laurea ci ha accolti a braccia aperte. Però al freddo ed alla pioggia ho preferito il mare. Così eccoci qui”

Accidenti, pensai. Questa esperienza la devo trascrivere da qualche parte. Davvero incredibile.

Ci salutammo con la promessa che sarei ripassato a trovarlo e avremmo rifatto assieme la salita del castello.

Fu la madre dell’uomo a trovare questo scritto tra le pagine di un quadernetto. Il vizio del fumo l’aveva accompagnato fino a quando il cuore decise che poteva bastare. La luce si spense dopo due interminabili giorni e due interminabili notti di faticosi e dolorosi respiri.

 

 

Non sappiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi.
(Tito Livio)

 

Sposarsi in USA

Nelle prime ore del mattino mi trovo nell’ascensore del hotel. Sto scendendo. Lo condivido con due ospiti della stessa struttura con i quali scambio due battute. Deve essere bello andare a correre a Las Vegas a quest’ora, dice un po’ sorpreso uno dei ragazzi. Il campanellino del piano suona, si aprono le porte, saluto ed esco ad allenarmi. Una piccola corsetta per tenermi in forma in vista della maratona di Los Angeles a cui parteciperò tra sei giorni. Mentre percorro la Stewart Ave. mi guardo in giro, ascolto musica, penso che tra qualche ora passerà l’autista a prendere me e M per portarci alla Valley of Fire, il luogo che abbiamo scelto per sposarci. Molte persone hanno ironizzato benevolmente sulla scelta del luogo, magari citando improbabili scene di film in cui il celebrante è un sosia di Elvis e gli sposi sono completamente sfatti; altri hanno probabilmente lasciato libero sfogo a commenti meno amichevoli alle nostre spalle. Fa parte del gioco. D’altronde basta fare una ricerca in rete per avere delle dritte sui documenti necessari per assolvere la parte burocratica in cui si possono leggere poche indicazioni utili ma tanti giudizi ironici a seguire. L’ironia se utilizzata in modo intelligente sta sempre bene ovunque. Se filtriamo con ironia un matrimonio tradizionale in Chiesa, ad esempio, fa sorridere il fatto che il celebrante sia un uomo vestito con la talare e parametri sacri che tanto ricordano il carnevale. L’usanza di prendersi manciate di riso in faccia è stata schernita anche dal regista Francesco Nuti nel film cult Caruso Pascoski di padre polacco. La fascia tricolore indossata dal sindaco non è altrettanto ridicola? Si sta varando una nave o inaugurando un auditorium forse? Queste considerazioni dovrebbero non dico far tacere, ma almeno far riflettere, i provinciali paladini delle verità assolute.

Ciò premesso non nascondo che durante la breve fila che abbiamo fatto il giorno precedente presso il Clark County Marriage License Bureau, l’ufficio di Clark ave. e che ha il compito di rilasciare le licenze matrimoniali, abbiamo notato delle coppie abbastanza singolari e non abbiamo potuto fare a meno di stereotipare sia loro che noi. Torno nella stanza, mi tolgo gli indumenti della corsa ed ho tutto il tempo di farmi una doccia rigenerante e di occuparmi del resto per presentarmi al meglio all’appuntamento. E’ un giorno importante, eppure lo viviamo entrambi abbastanza tranquillamente. Almeno all’apparenza. I nostri vestiti sono appoggiati su uno dei due letti presenti nella camera d’albergo. Arriva la prima email di conferma che l’autista sarebbe arrivato nell’orario prestabilito. Gli americani, popolo dai molti difetti, dal punto di vista organizzativo sono impeccabili.

Cominciano gli ultimi preparativi, ci vestiamo, imbustiamo le poche cose che ci serviranno a completare la serata. Il mio vestito sembra un abito di sartoria confezionato apposta per l’occasione. In effetti è stato scelto appositamente di quel colore e materiale per essere indossato nel deserto. Anche le misure sono fortunatamente perfette. Lei invece l’ha dovuto scegliere all’ultimo momento dato che quello acquistato, neanche farlo apposta in un negozio di Los Angeles, non ha fatto tempo ad arrivare (e mai arriverà). Peccato perché era un bel vestito.

Chissà se un giorno M avrà modo di opinare il fatto che non le abbia dato la possibilità d’indossare un abito da sposa tradizionale. O magari io stesso mi rinfaccerò di non averglielo concesso. Lo meriterebbe sicuramente di più rispetto a certi fenomeni da baraccone che si vedono in giro.

Nell’ascensore dell’albergo il maratoneta ha lasciato spazio a due novelli sposini ed anche gli altri occupanti non sono i due ragazzi della mattina. Incrociamo qualche sguardo, non dicono nulla.

In una provincia dove si svolgono circa trecento matrimoni al giorno l’ultima delle cose che suscita curiosità è quella di vedere due promessi sposi mentre si avviano all’appuntamento. L’autista ci sta aspettando e ci apre le porte della lucida sedan nera dai vetri oscurati.

Durante l’ora e mezza di viaggio che stiamo affrontando io e M riavvolgiamo il nastro che ci ha portato fino a lì; verifichiamo che le promesse che diremo non saranno le stesse. Spesso ci capita di pensare o dire le stesse cose senza volerlo. Ci incoraggiamo e ci togliamo le ultime ansie da prestazione. Lei scopre di aver dimenticato i trucchi in albergo ma è ovviamente troppo tardi per trovare soluzioni alternative. Certo, come ci aveva insegnato un caro amico in Giordania, servisse solo la terra rossa c’è un deserto a disposizione per procurarsela. Peccato che non ci abbia mai svelato i metodi naturali per produrre rossetto e contorno occhi. Se esistono. Il panico, perché per una donna trovarsi senza trucco il giorno del matrimonio è il peggior incubo della vita, svanisce quasi del tutto quando sdrammatizzo dicendole che avrà una storia nella storia da raccontare. Probabilmente evita di mandarmi a fanculo proprio perché è il nostro giorno. Intanto fuori dai finestrini oscurati scorrono le immagini del meraviglioso parco naturale chiamato Valley of Fire, nella provincia di Overton, nello Stato del Nevada.

Ad aspettarci non ci sono genitori, né parenti, né amici, né cerimonie pompose, né pranzi, né orchestre, balli e cene. Ci sono invece la funzionaria ed il fotografo che per l’occasione è anche il testimone. Si fermano a curiosare dei turisti, che assistono parte della cerimonia in rispettoso silenzio e debita distanza.

La giornata è meravigliosa. Il cielo è terso ed il deserto sembra accoglierci sotto la sua protezione consapevole, ne sono convinto, che un altro deserto ci ha fatti incontrare.

Le persone che nascono e vivono in luoghi estremi spesso sono dirette, sincere. Non necessitano di firme e documenti per siglare accordi. Basta una promessa, una stretta di mano. Anche sorseggiare un o un caffè assieme sono gesti che ufficializzano delle decisioni importanti.

Io e lei ci teniamo per mano, ci guardiamo, approviamo le significative parole della celebrante e poi pronunciamo gli vow. In inglese, per rispettare le regole del Nevada ed in italiano, perché è la lingua che utilizziamo per comunicare tra noi. Penso che in prima superiore avevo il tre in inglese – e mezzo d’incoraggiamento diceva la mia prof – e mi fa sorridere il fatto che adesso faccia uso della lingua anglosassone quasi quotidianamente per lavoro ed ora per siglare questo legame. Ma quel mezzo d’incoraggiamento mi fa ancora incazzare.

Intanto solo l’ampiezza del deserto può contenere il vuoto delle persone che realmente avrei voluto fossero presenti. Le sento vicine.

Nelle mie promesse uso la parola normalità. Dico ad M che molti ci vedono come anormali. Forse siamo anormali a celebrare il matrimonio in un luogo così lontano, ad incominciare dalle nove ore di fuso orario che ci separano da chi da casa non potrà assistere. Anormali perché non abbiamo messo in moto tutto l’impianto organizzativo che contraddistingue le così dette persone normali. Per me, le dico, l’unica cosa anormale è non esserci sposati prima.

Ci scambiamo gli anelli e siamo entrambi un po’ commossi.

Se qualcuno m’avesse chiesto tempo fa di descrivere un ipotetico matrimonio non avrei mai immaginato una scena simile a quella che sto vivendo. Forse per questo è passato tutto questo tempo prima che io pronunci il . Ciò che per gli altri è normale per me è limitante. Ho deciso di sposare M anche per questo motivo. Ha sempre accettato il mio stile di vita e non solo: ha deciso di salire a bordo e di intraprendere questo meraviglioso viaggio alla scoperta del mondo e della vita assieme a me.

Gli spazi infiniti del deserto e del territorio americano ci ricordano quanto inutile sia piantare paletti attorno alle nostre poche sicurezze e convinzioni. In fin dei conti cosa ci offre la normalità? Una fastidiosa percezione di vincoli e rigidità limitanti e, a vederci bene, inutili al nostro benessere. La normalità è in fondo quella cosa che nei musei ci obbliga a stare in fila ed osservare a debita distanza quelli che reputiamo capolavori eseguiti da artisti che hanno aperto le porte della loro vita alla stravaganza, alla ricerca, alla curiosità, all’anticonformismo. I normali queste persone li chiamiamo geni.

Se anche queste persone avessero seguito il vociare, la massa, la critica, oggi saremmo orfani di chissà quante opere.

Magari anche di questo matrimonio che, almeno noi, consideriamo un nostro piccolo capolavoro.

La normalità è conformità alle aspettative collettive.
Robert Maynard Pirsig

Tilos: laboratorio d’artisti

campanileAscoltare il silenzio senza timore, nell’epoca attuale risulta quasi impossibile. Per molti.

L’indigestione di informazioni, tra le tante inutili e fittizie, cui siamo sottoposti quotidianamente, inghiottite alla stregua delle oche da foie gras, altrettanto gonfiate a suon di mangimi sparati in gola da tubi poco cortesi, ci ha disabituato ad assaporare la libertà del nulla, la leggerezza dell’ascoltare senza dover giustificare o rendicontare. L’ossessionante condivisione del tutto, ci ha lasciato privi di apprezzare attimi in cui il vero tutto è rappresentato da momenti di niente apparente.

Introduzione decisamente importante e forse troppo pretenziosa per chi magari cerca solamente qualche spunto in più per visitare Tilos, penserà qualche lettore, ma necessaria a comprendere a fondo la spiritualità dell’isola greca; il turismo e tutto il ramificato folclore che ne consegue, lì, non ha piantato radice alcuna.

scaleAttraccati al porto principale di Livadia passano pochi secondi dalla piccola calorosa accoglienza ed adunanza dei vari albergatori mentre recuperano i loro ospiti al ritorno alla quiete. L’istantanea confusione si dissolve tra l’accelerata di qualche furgone e le conseguenti nuvolette di fumo presto scolorite tra l’azzurro del cielo. Come il botto finale ad indicare la fine dei fuochi d’artificio è il motore del traghetto a silenziarsi man mano che questo si perde all’orizzonte verso la sua prossima meta.

Ti ritrovi solo. A guardarti in giro.

I pochi noleggiatori di poche auto e pochissimi scooter aspettano, senza avvicinare o disturbare i nuovi arrivati che tanto, come le api attratte dal pistillo dei fiori prima o poi arriveranno a loro.

Grazie a questi mezzi comincia l’esplorazione di Tilos ed i suoi ampi spazi battuti da un sole incessante e raffiche di vento caldo che non attenuano di niente le temperature soffocanti.

rovineArrampicarsi su quelle che una volta erano mulattiere ed osservare l’isola dai punti più alti, in solitudine, già ci racconta molto sulla spiritualità del luogo. Così come l’antico villaggio abbandonato Mikrò Choriò dove trovano rifugio dal sole che picchia incessante sia le capre che qualche volenteroso signore intento a restaurare la Chiesa o qualche edificio che forse non accoglierà mai nessuno. Le strade sono deserte e la stazione di servizio è aperta solo mezza giornata. In caso di emergenza i supermercati del piccolo centro cittadino vendono carburante in tanica, impensabile ai giorni nostri.

Seguendo le viewsegnalazioni turistiche si raggiungono i luoghi indicati come più interessanti da visitare, tra cui il museo che ospita lo scheletro di un elefante nano; ma l’edificio è abbandonato a se stesso, chiuso ed in balia di qualche vandalo e tante capre che lo usano come riparo. Molte spiagge sono poco frequentate ed interessanti punti d’attracco di barche a vela di passaggio.

Un laboratorio d’artisti, ecco cosa potrebbe essere e cos’è forse a giudicare da qualche insegna affissa su case isolate. La misticità ed il silenzio di questa isola schiva e riservata rispetto alle sue rumorose ed iperattive sorelle più illustri, la rendono luogo perfettocampana per scultori intenti a modellare opere di creta con le mani mosse dai liberi pensieri e ed il fruscio del vento o scrittori che a Tilos concedono il corpo e la sua statica presenza, ma non la mente, fluttuante in chissà quale altro luogo o palcoscenico frutto della fantasia. Magari semplici accordi di un brano che un musicista donerà alla stessa comunità che mai potrebbe cogliere l’aspetto embrionale dell’arte, spesso fiorente nel nulla, entusiasta nel glorificarne l’aspetto finale, svilito in stanze affollate.

Oppure ispirazione di un poeta, osservatore del mare e dei pescatori, dei gabbiani e delle onde che giorno dopo giorno cullano il mistero di quel profondo blu, che come inchiostro non cambia la sostanza ma entusiasma con nuove forme.

Questi spicchi di mondo, in fin dei conti, sono loro stessi poesia.

 

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Porto: bellezza tridimensionale

portCamminare tra i vicoli di Porto è insinuarsi tra le lettere, ingigantite e sotto forma di case e palazzi variopinti, di un romanzo d’avventura che spazia tra i primi del ‘500, quando le caravelle cominciavano a solcare gli Oceani con una certa frequenza ed il futuro prossimo, dove la città conoscerà un nuovo rinascimento.

Se altre realtà metropolitane ci incantano con paesaggi da cartolina, la spettacolare Porto, grazie ai suoi sali scendi, è modellata in prospettive tridimensionali che ci accerchiano con tutto lo splendore architettonico dal sapore colonialista.

specchioL’impronta mediterranea è riconoscibile nei vicoli dall’aspetto trascurato e dallo sguardo stanco e sincero delle persone che li popolano, tra gatti intraprendenti e qualche immondizia di troppo; case vecchie ed in taluni frangenti diroccate che come in un dopo guerra presentano alla porta vecchi mobili e cianfrusaglie pronti ad essere inglobati in impalcature che ne cancelleranno ogni stento e crepa per dar vita a nuovi lussureggianti alloggi per turisti.

tramGià, perché Porto vive uno slancio di ripresa notevole, pronta a ricamarsi un nuovo abito che possa favorire la ricrescita tanto voluta da tutta Europa. La città portoghese esibisce i suoi numerosi ponti tra cui lo spettacolare Dom Luis che ci regala punti di osservazione eccezionali per cogliere a pieno l’energia emanata dal centro urbano ed i riflessi del fiume Duero che attraversa ed ove tra le sue calme onde fluttuano imbarcazioni storiche che ancora espongono le botti del rinomato vino liquoroso che prende il nome dalla città e moderne chiatte adibite ad uso e consumo dei turisti. Locande e ristoranti spuntano numerosi nella Avenida de Diogo Leite che presenta altresì cantine-musei del vino Porto dai nomi rinomati e commerciali come Sandeman, ad esempio.

saobentoE’ attraversando il ponte Dom Luis in direzione centro città che ci si integra nello spirito cittadino culminando le impegnative passeggiate tra il mercato vicino alla caratteristica e non molto rassicurante stazione dei treni di Sao Bento, che comunque offre mezzi puliti e sicuri ai viaggiatori; al Palacio della Bolsa, la Torre Medievale, il Pelourinho e via scorrendo come a voltar pagina del nostro romanzo vivente ad ogni monumento, casa o persona incontrata.

Come nel caso di Pedrbluo Magalhães, giovane barbiere che oltre a svolgere il suo lavoro, si è concesso in un’intervista dove esprime le sue opinioni riguardo il Portogallo, le aspettative che ripone nella Comunità Europea e speranze future. Ci svelerà, tra le altre cose, di come l’umanità sia uno degli aspetti fondamentali a rendere Porto vivibile, unica e tutto sommato sicura. Pedro, nonostante sia originario di Lisbona, è innamorato della città in cui vive e lavora attualmente, in particolar modo del suo quartiere che, possiamo confermare, è davvero un luogo di riferimento per chi cerca la meta ideale per pensare di viverci in pianta stabile, ossia Matusinhos.

 

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Steve McCurry a Monza: fotografo d’anime

Il fotografo artista Steve McCurry espone le sue immagini in una mostra di altissimo livello a Monza presso l’altrettanto spettacolare Villa Reale, dal 30 ottobre 2014 al 6 aprile 2015. 20141208_111107I primi scatti professionali di Steve McCurry avvengono all’età 19 anni in qualità di reporter in un piccolo giornale in Pennsylvania e che nessuno, lui compreso, avrebbe immaginato si sarebbero evoluti fino a tal punto. La fantastica parabola ascendente deriva dal fatto che il successo professionale è accompagnato passo dopo passo da quello umano, lato che in ogni sua foto è imprescindibile, in alcuni tratti commovente. L’umiltà e la voglia di mettersi in gioco davanti alle persone ed alle situazioni che ha immortalato scatto dopo scatto durante i suoi innumerevoli reportage, sono stati indispensabili per raggiungere l’eccellenza. IMG-20141208-WA0009Nell’epoca del digitale in cui siamo inflazionati da foto di ogni genere e tipo, tra tanta puerilità e mediocrità presente sui social, è davvero gratificante perdersi nel mondo del McCurry che ci porta per mano, anzi, per occhio, non solo tra i mondi considerati meno fortunati e martoriati da guerre o povertà, ma tra le persone che li popolano, vivono e caratterizzano, facendo notare con discrezione e palpabile garbo i sentimenti contrastanti che essi portano nel cuore e nell’anima. Nelle sale espositive di Palazzo Reale le foto sono esposte senza criterio geografico o temporale ed è davvero piacevole ritrovarsi dall’Afganistan all’India, dallo Yemen al Brasile piuttosto che Giappone, da New York a Roma nel giro di pochi passi. Spaziando nel tempo che i più attenti collocheranno con esattezza storica senza l’ausilio delle targhette identificative (ovviamente presenti) dato che è sufficiente guardare con attenzione la grana della pellicola per distinguere quali furono scattate in Kodachrome da quelle più recenti, digitali. Un abisso tecnologico facilmente riconoscibile. IMG-20141208-WA0007Tra i tanti volti sconosciuti e veri protagonisti della mostra spicca quello stranoto di Robert De Niro, scelto per simboleggiare la città di New York ed immortalato nell’ultima pellicola kodachrome allora disponibile; foto sviluppata e stampata nell’ultimo piccolo laboratorio esistente al mondo che ancora trattava pellicole prima dell’inevitabile estinzione. Un omaggio di Steve McCurry a questa fantastica pellicola prima di concedersi definitivamente alla tecnologia digitale. IMG-20141208-WA0008Per dimostrare che niente è per caso e che Steve è un predestinato, un fuoriclasse del reportage fotografico, rimaniamo proprio a NY, dove nel 2001 in occasione di uno dei più tragici eventi mai accaduti ossia il crollo delle Twin Towers, dove oltre al fatto curioso che possedesse un ufficio con vista sul World Trade Center si aggiunge quello che ci fosse tornato proprio un giorno prima da un lungo viaggio, il 10 settembre; come se l’appuntamento con la documentazione di fatti epocali fosse stato scritto sulla sua agenda vitale e come se il destino aspettasse ogni volta quest’uomo per farsi immortalare un’ultima volta prima di cambiare corso alla storia. Davvero incredibile. 20141208_120740 D’altronde per essere delle persone uniche e speciali, dei fuoriclasse, non basta il talento, la volontà o qualche colpo di fortuna ma un concatenarsi di astri favorevoli ed avvenimenti che attimo dopo attimo si intreccino con la vita del prescelto in un eterna e formidabile unione di azioni e conseguenze esclusive ed irripetibili. 20141208_122610Oltre all’utilità delle audioguide indispensabili in alcune foto per svelare retroscena, significati ed anche prospettive, che per Steve McCurry saranno anche naturali ma per il comune visitatore sarebbero ardue da focalizzare, l’ausilio di brevi resoconti filmati in cui l’autore racconta vari aneddoti e storie da lui vissute risultano essere molto piacevoli ed altrettanto efficaci nello scopo di integrarci completamente con lo spirito dell’interprete e diventare a nostra volta, con una semplicità disarmante, protagonisti delle storie e luoghi riprodotti dal fotografo. 20141208_121924La lezione che ne deriva, indipendentemente se rivolta ad aspiranti fotografi, professionisti o meno è che con l’umiltà, la passione ed il rispetto verso il prossimo, il mondo ramificherà sotto i nostri piedi infinite strade verso il successo che, come in questo caso, faranno apparire quasi come dettaglio ininfluente la Nikon che ha tecnicamente eseguito lo scatto ma che senza l’ausilio di un grande spirito ad indirizzarla nel cogliere il momento ideale, altro non sarebbe che un prezioso ed inutile oggetto. 20141208_114152 Mostra assolutamente da non perdere. Bellissima. “Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te“.  (Steve McCurry) Instagram: @McCurryStudios 20141208_120838  20141208_121128