Letto di sabbia

Mentre ti guardo aspetto.
Non so cosa, o meglio lo so perfettamente e non voglio pensarci.
Il tuo respiro è debole, le braccia distese ed immobili lungo il letto.
Ti vedo avvolta in lenzuola bianche, candide. Fastidiosamente profumate.
L’albero che vedo fuori dalla finestra si prepara ad affrontare un’altra torrida estate.
Si fa scuotere dal vento, muove la chioma e qualche foglia lo abbandona al suo viaggio.
Nel cortile alcune persone camminano con indifferenza.
Non posso far altro che starti accanto, seduto su questa sedia che cerca di essere la più scomoda possibile per deviare i miei pensieri.
Ho rivisto le immagini della nostra vita decine e decine di volte e non voglio cascarci ancora.
Per qualche minuto voglio liberarmi e liberarti dalle catene che ci legano a questa stanza asettica di cui siamo ospiti obbligati ed inermi.
Guardo i miei piedi e li immagino immersi nell’acqua trasparente. Mentre passeggio sul bagnasciuga di una spiaggia, immensa. Poi mi giro e ti cerco con lo sguardo.
Sei sdraiata su un letto di sabbia bianca. La mia pelle è sfiorata dal passaggio della brezza marina. Il suo soffio è un filo che mi lega a te per qualche istante. Che sarà per sempre.
I raggi di sole ci accarezzano lievi. Quella potente e strabiliante palla di fuoco ci guarda benevola. Anche la luna non vuole perdersi lo spettacolo e si fa timidamente notare in attesa di prendersi tutta la scena una volta che il sole sparirà tra le montagne. Ma ora la luce splende accecante e ci vorrà ancora tempo prima che si insinui sempre più affievolita tra gli anfratti dei canyon, tra le fessure di ogni roccia. Prima di decretare la fine del giorno calando maestosamente il sipario con un tramonto mozzafiato.
L’acqua si fa più alta ed un brivido mi scorre lungo la schiena. Mi guardi. La tua voce è troppo lontana per capire ciò che dici, osservo il movimento della tua bocca. Ancora qualche tentennamento e poi faccio ciò che mi dici. Un tuffo, poi alcune bracciate e subito la temperatura dell’acqua diventa piacevole. Immergo la testa. Sento i suoni ovattati del mare, vedo qualche pesce incuriosito a caccia di cibo. Riemergo. Che sensazione fantastica, che privilegio essere qui. Stavolta sono io a chiamarti ma sicuramente tu non mi puoi sentire. Come faccio a convincerti ad entrare in acqua? E’ così bello questo momento.
Poi ti alzi, cammini con passo sicuro verso di me. Sorridi e fai un piccolo sussulto appena l’acqua, spinta da un’onda, cerca di afferrarti un piede. Vi ritraete entrambi e poi vi cercate ancora. I tentativi proseguono finché dopo quel lungo corteggiamento decidi di lasciarti andare. E’ troppo tardi per dar voce al tuo pentimento ed il freddo che ti assale per qualche istante non è sufficiente a farti tonare indietro. Poi sparisci d’un tratto. Riemergi un istante dopo. Di quanti istanti è fatta la vita, penso guardandoti. Questi sono quelli da cogliere, da custodire gelosamente nella nostra memoria così sovraffollata di pensieri superflui.
Ci avviciniamo e ci abbracciamo. Diventiamo un’entità unica. Ci trasmettiamo sensazioni, ci difendiamo a vicenda.
Ti stringo fortissimo perché sento che questo attimo si sta esaurendo. Il sole comincia a calare. L’acqua diventa sempre più agitata e fredda. La brezza si è rinforzata ed è diventata vento. Anche le nuvole mi fanno capire che siamo ai tioli di coda.
Mi ritrovo seduto sulla mia scomoda sedia. Non c’è il mare, non c’è nessuna spiaggia.
Tu ci sei ancora per qualche istante. Sdraiata su un letto di sabbia bianca.
“Il sole può tramontare e risorgere; per noi quando la breve luce si spegne resta un’unica eterna notte da dormire”
Gaio Valerio Catullo
Nashville. Senza titolo

Se sapessi scrivere probabilmente racconterei la storia di una donna seduta in una tavola calda mentre sorseggia il suo caffè e legge una rivista al riparo dalla pioggia. Certo prendendo spunto da Tom’s diner, canzone di Susanne Vega. Nella sua ordinaria e semplice storia e con poche parole come solo i poeti sono capaci di fare, descrive preziosi gesti di gente comune. Chi scuote l’ombrello prima di entrare nel locale, chi si specchia nella vetrina alzandosi la gonna ed aggiustandosi le calze pensando di non essere vista dalla persona seduta dall’altra parte.
Avessi questo dono prezioso, abbinato alla pazienza degli osservatori, chissà come descriverei bene la città di Nashville e con quale storia riuscirei ad appassionare i miei lettori. Snellendo i periodi da tanti inutili particolari, mi concentrerei sui protagonisti, descriverei i luoghi. Le loro vicende le narrerei così, come realmente accadute oppure con qualche ritocco di fantasia, come fossero pennellate di colore in un quadro dalle tinte scure. Il fiume Cumberland continuerebbe a scorrere ma con l’aggiunta delle parole giuste riuscirei a ridare luce alla forza della natura così spesso banalizzata dai nostri egoismi.
Nashville è città abituata ad esibire moderni menestrelli con il cappello da cowboy, cresciuti con la chitarra tra le mani soffianti aria e polvere nelle pulsanti armoniche. Il loro cammino di cantastorie è geneticamente solcato. Riassumono in pochi versi sentimenti che non riescono a contenere intere biblioteche.
Avessi questa abilità avvolgerei il lettore tra le luci soffuse di un locale mettendolo a sedere davanti ad un palco da dove potrebbe percepire la battuta del tempo scandita dallo stivale del cantante. Riuscirei ad essere romantico nel descrivere la bionda e bella ragazza al banco del bar mentre protesa in avanti con i suoi jeans attillati, le natiche sode e la tshirt scollata, si lascia trasportare dalle promesse poetiche della canzone e dal suo cantante preferito.
Quante cose potrei raccontare se solo ne avessi la capacità.
Come l’atmosfera contadina della leggendaria Grand Ole Opry House, luogo sacro in cui si sono esibiti e continuano a farlo i migliori talenti della musica country.
Un teatro in cui si riversano centinaia di persone come in una festa di paese. Richiamati dai loro idoli che per qualche ora canteranno e suoneranno novelle che si insinueranno nell’arida quotidianità rendendola soave e profumata. Se fossi uno scrittore mi soffermerei anche ad osservare le mani degli spettatori in attesa del overture attraverso la trasparenza della plastica di bicchieri riempiti di birra fino all’orlo che intanto scorre dalle spine come il fiume Cumberland. Magari inventerei il gioco vita dura, vita facile contrapponendo l’apparenza di mani tozze e callose a quelle più curate ed affusolate. Farei di ognuno rassegna dell’abbigliamento, delle scarpe e dell’atteggiamento. Non per giudicare, per descrivere.
Non credo basterebbe nemmeno questo a rendere i miei scritti interessanti, coinvolgenti. E’ l’inesistente che i poeti riescono a concretizzare in uno scarabocchio di lettere. Riescono a dare momentanea sostanza all’invisibile energia. I sentimenti. Ma come faccio a coglierli dentro a tutte quelle persone corazzate dentro camicie a quadri e lunghi abiti ricamati? Dai volti nascosti sotto ad ampi cappelli da cowboy o da appuntiti stivali in cuoio? Come faccio a perforare tutto quel tessuto ed insinuarmi tra i loro cuori? Ho tanta voglia di imparare, di conoscere il metodo per farlo, ma mi sembra tutto così inutile. Non saper scrivere è frustrante. Non riuscire ad espletare i propri sentimenti è frustrante.
Caro lettore, che dispiacere non esser stato in grado di descriverti Nashville. Di aver omesso protagonisti, luci, ombre, vento gelido, stivali giganti e chitarre appese, di non essere riuscito a farti sorseggiare una birra assieme a me al tavolo del Lucky Bastard Saloon con la vetrina affacciata sulla Broadway. Quanti versi strozzati che mi porterò dentro.
Così anziché aver scritto di Nashville ciò che avrei voluto, mi ritrovo con un’altra accozzaglia di parole senza titolo.
Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l’oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.
(Giovanni Pascoli)
Invenzioni

Il Prof. J.B. nacque a Lafayette il 2 marzo 1833.
La sua vita per lunghi anni fu monotona e solitaria.
Ogni mattina si recava nella sua scuola dove insegnava storia da quasi 40 anni.
In una di queste mattine del 1888, il Professore si presentò in aula come sempre e, dopo aver aperto il registro delle presenze, cominciò a fare il solito appello. Qualche alunno ricorda d’esser stato chiamato con un nome sbagliato quel giorno, così come per tutta la durata dell’anno scolastico. Ma c’era da capire, il professore era ormai vecchio e stanco. Era anche deluso di quello che fin’ora la vita gli aveva riservato.
Ai tempi dell’Università J.B. era forte e robusto, oltre che a scuola era considerato un primo della classe anche negli sport.
Egli praticava il calcio, nuoto, corsa, salto in alto ed in lungo e qualche volta si dilettava in qualche torneo di pindul pandul. Alto, moro, dal fisico scolpito, era un ragazzo molto ambito dalle sue coetanee e non.
Così, all’età di 20 anni s’innamorò perdutamente di C.O., una ragazzina di Youngsville che frequentava il suo stesso corso di letteratura presso l’Università di Lafayette. Anche per lei sbocciò l’amore ma per i due fu impossibile frequentarsi. I genitori di lei l’avrebbero voluta a fianco di un uomo dello spettacolo, possibilmente un pagliaccio, mentre i genitori di J.B. lo costringevano a studiare giorno e notte per diventare un professore stimato e ricercato come il padre W., direttore di una scuola elementare e come la madre S.T., insegnante di storia presso il liceo.
La distanza tra Lafayette e Youngsville fece il resto.
J.B. rimase solo fino a 58 anni, mentre si dice che la povera C.O. morì a 24 anni investita da un autobus di linea guidato da un autista ubriaco. (Si dice messicano)
Persi in seguito anche i genitori, anche loro investiti da un autobus di linea, si dedicò anima e corpo agli studi.
Viveva da solo nella buia casa ereditata dai compianti e passava ore intere a correggere i compiti nell’ampio salone dove tutto era rimasto identico per lunghi anni. Gli stessi mobili, gli stessi quadri, le stesse foto. Amava ascoltare musica classica di sovente e raramente invitava qualche studentessa nella sua abitazione per dare ripetizioni. Dicono fosse davvero bravo. Preferiva accogliere studentesse minorenni, le quali, dopo qualche lezione, passavano gli esami con voti stratosferici.
Una di queste rimase addirittura incinta durante degli studi di anatomia. Tutti gridarono al miracolo, in quanto la ragazza era vergine e single.
Il tempo intanto passava, il mondo si evolveva, cominciavano delle guerre e finivano delle altre.
Accanto a lui, la sera, davanti al camino, riposava la sua amata gatta Greta (in onore di Greta Garbo). Un gatto nero che più di una volta era scampata al peggio. Per ben due volte finì infatti investita dall’autobus di linea, ma ne uscì miracolosamente illesa.
In una di queste sere, mentre il professore rileggeva un suo scritto, avvenne la svolta.
Greta infatti miagolava ripetutamente fino al punto di infastidire il docente. Cercò di farla smettere dando lei del cibo, ma la gatta non ne volle sapere. Il professore allora la mise in una bacinella, con la speranza di farla addormentare. Nulla. Escogitò allora un altro sistema. Prese uno scatolone e ci ripose all’interno la bacinella con la gatta dentro. Poi chiuse.
I miagolii erano finiti.
J.B. però si preoccupò di tutto quel silenzio e volle accertarsi che la gatta si fosse effettivamente addormentata. Ritagliò allora nella scatola un foro abbastanza grande da poterne vedere l’interno e lo chiuse con una lastra di vetro per far si che il gatto non uscisse. Poi ripiegò la bacinella in verticale in modo tale da poter vedere il gatto.
Il gioco era fatto. Aveva scoperto un modo per isolare i miagolii del gatto, pur vedendolo dall’oblò ricavato nella scatola. Passarono i minuti, le ore e il professore si addormentò.
Il suo risveglio fu angosciante. Greta non dava segni di vita. Cercò di scuotere la scatola ma niente. Urlò forte e disperato il nome del gatto, ma ancora niente. Prese allora una caraffa d’acqua e la gettò all’interno dello scatolone.
La gatta si svegliò all’improvviso e dalla paura cominciò a correre come una forsennata cercando una via d’uscita. La scena che si presentò agli occhi del professore fu racapricciante: la gatta rinchiusa in una scatola che faceva roteare la bacinella come i criceti e lui inerme, che assisteva alla scena che gli si presentava nell’oblò.
Greta dalla paura lasciò uscire dal suo corpo qualche escremento e questo fu il lampo di genio.
Il professore si accorse che, nonostante tutto, la gatta era sempre più pulita. Giro dopo giro il nero di Greta era di un nero mai visto prima.
Ho inventato un lavagatti, pensò soddisfatto il vecchio professore. Pensò anche ad un nome da dare alla sua invenzione. Lavagatti era banale e scontato, ci voleva qualcosa di diverso. La sua Greta, la sua Greta Garbo, la sua meravigliosa attrice aveva ispirato tutto questo. Chiamò allora l’invenzione lava-attrice.
Il prof. J.B. cercò di brevettare l’idea, ma ricevette solo risate e derisioni anziché proposte di sviluppo e lavoro. Così fino alla fine dei suoi giorni, quando spirò in un bar vicino alla stazione degli autobus di linea di Lafayette. Correva il 1891 quando fu colpito da un infarto. Un presente, si dice messicano, avrebbe omesso di chiamare i soccorsi.
Solo anni dopo qualcuno si accorse che la scatola lava-attrice avrebbe cambiato le abitudini di milioni di persone. Non dovette far altro che sostituire i gatti con panni sporchi.
Si mormora sia stata proprio una delle ex allieve del professore a fare fortuna. Ulteriore indizio il fatto che riferendosi alla temperatura dell’acqua da mettere nello scatolone, la studentessa avrebbe dichiarato agli esperti: al professore piaceva a 90.
Infine l’errore nella trascrizione di lava-attrice che, omesse le doppie per ignoranza del responsabile brevetti, fu denominata lavatrice.
Non credo che la necessità sia la madre delle invenzioni – le invenzioni, a mio parere, nascono direttamente dall’inattività, probabilmente anche dall’ozio, forse addirittura da una certa pigrizia. Per risparmiarci fastidi.”
Agata Christie