La Mezza Maratona di Bonn
La Deutsche Post Marathon di Bonn in Germania si svolge ad aprile e comprende sia la maratona di 42K che la mezza di cui ci occuperemo in questo caso.
La scelta di correre una mezza maratona in questa località è fondamentalmente scaturita da due fattori, uno dovuto alla curiosità ed uno economico. La curiosità nasce dal fatto di visitare due interessanti realtà teutoniche quali Bonn, Capitale della Germania Ovest prima della riunificazione ed un anno dopo la caduta del muro di Berlino (che avvenne nel 1989) e Colonia dove vi si è quasi costretti a transitare in quanto è lì che è situato l’aeroporto di riferimento.
La distanza tra le due città è davvero breve e con efficienti collegamenti che permettono di dedicare un giorno del week end per visitare l’interessante Colonia bagnata dal fiume Reno che nel suo lunghissimo tratto navigabile scorre fino ed anche a Bonn, creando così un collegamento fluviale tra i due centri tedeschi.
Economicamente, accennavo nelle premesse, c’è la possibilità di trovare prezzi dei voli ridottissimi con le solite compagnie low cost dato che, almeno in questa occasione, l’evento sportivo non ha contribuito ad alzare le tariffe. Prenotare un biglietto aereo nel week end in cui si svolge una maratona di prestigio spesso significa sborsare un ingente quantitativo di denaro in più rispetto alla media.
La mezza maratona di Bonn, così come la maratona, non è internazionale e per di più si svolge in contemporanea con quella di Berlino che, per ovvi motivi, è la più ambita.
Non essendo internazionale la navigazione del sito ufficiale e la conseguente iscrizione per chi non parla o legge tedesco diventa abbastanza complicata ma, con l’aiuto delle tecnologie moderne, nulla è impossibile.
Pettorale e gadget si ritirano vicino il luogo stabilito per la partenza che avviene nei pressi dell’Università di Bonn. Le gare meritano di essere corse solo per il gusto di poter ritirare la t-shirt omaggio che è una delle più brutte casacche mai viste in circolazione e per questo motivo diventa di primaria importanza riuscire ad impossessarsene ed indossarla almeno una volta nella vita.
Chiaramente modesto anche lo stand dedicato agli articoli per corridori che nelle manifestazioni internazionali siamo abituati a vivere come vere e proprie fiere.
Ciò premesso l’ambiente che si respira è quello di una competizione paesana e spensierata con non moltissimi partecipanti, circa 1000, anche se al nastro della partenza non mancano atleti professionisti di buon livello. Il rischio per un amatore con tempi appena decenti, come nel mio caso, è di ritrovarsi proprio nelle primissime file con atleti che al via partono a razzo costringendoti a fare altrettanto per non essere travolto. Personalmente è stata la prima volta che anziché cercare di guadagnare posizioni ho indietreggiato per evitare di partire in prima fila con i professionisti o presunti tali dalle velocità esorbitanti. Ciò nonostante ai primi metri avevo un ritmo di 4,18 che neanche a vent’anni avrei tenuto.
Il percorso, se si è fortunati nel viverlo in una giornata primaverile soleggiata, è davvero bello.
Usciti dal centro cittadino si attraversa immediatamente il ponte sul Reno Kennedybrücke e ci si trova a correre sulla sponda opposta di Bonn, a Beuel, tra quartieri signorili, ci si immerge in un polmone verde, si scende un pezzo di superstrada per poi risalirlo, si pratica la pedonale che costeggia il Reno per poi riattraversare il ponte che ci porterà nuovamente al centro di Bonn. Curiosi i punti di ristoro che, oltre ai soliti maledetti bicchieri di plastica d’acqua impossibili da bere in corsa, presentano la bevanda energetica per eccellenza in Germania: la sacra birra. Assurdo.
Fatto sta che i ritmi della gara sono davvero buoni per chi è in cerca del suo personale.
L’affluenza di pubblico è presso che nullo fino alla zona del Parco Hofgarten dell’Università a circa 3K dall’arrivo dove invece le strade sono stracolme di curiosi e sostenitori che indubbiamente spingono gli atleti a dare il massimo fino all’arrivo allestito a Piazza Markt.
Tagliato il traguardo e ritirata la medaglia, pure questa di scarso appeal estetico, ci si addentra nel paddock riservato agli atleti dove rifocillarsi con prodotti locali e litri di birra nei numerosi chioschi sponsorizzati che per molti dei partecipanti locali pare essere il vero scopo dell’iscrizione.
In conclusione Bonn con la sua mezza maratona diventerà un piacevole ricordo ed un’esperienza da non perdere. Consigliata.
Bonn. L’ex bancario
Arrivai alla stazione dei treni di Bonn nel primo pomeriggio.
Dopo pochi minuti di cammino, trascinandomi dietro un piccolo trolley, raggiunsi l’abitazione di mio zio che si trovava nell’elegante Poppelsdorfer Allee. Le promesse che prima o poi sarei stato io a fargli visita caddero nel vuoto, dato che ci incontrammo sempre e solo nelle rare occasioni in cui si presentava nella nostra dimora di famiglia ad Aylesbury, in Inghilterra.
Questa era dunque la mia prima visita nella sua casa, ma lui non se ne sarebbe mai potuto compiacere dato che era morto una settimana prima del mio arrivo. Mi trovavo a Bonn, infatti, per presenziare alla lettura del testamento. Il giorno seguente avrei avuto un appuntamento dal notaio in Piazza Markt, a pochi metri dall’edificio Altes Rathaus, il regale municipio cittadino.
Raggiunto il numero indicato nell’indirizzo che corrispondeva ad una facoltosa casa bianca di tre piani, appoggiai il trolley sul marciapiede e suonai il campanello; ad aprirmi fu il domestico che da molti anni serviva diligentemente e fedelmente lo zio.
Lui era probabilmente l’unica persona alla quale permetteva confidenza, seppur nel rispetto dei ruoli. Come tutti gli uomini in carriera arrivati, d’altronde, anche mio zio era una persona molto diffidente. Più la professione gli concedeva soddisfazioni economiche di alto livello, più si distanziava dalla società e dai rapporti con le persone evidentemente interessate. La chiusura semi totale era avvenuta con il raggiungimento della pensione che aveva deciso di vivere in solitudine e serenità. Aveva chiuso i rapporti anche con i familiari, colpevoli a dir suo, di interessarsi più ai suoi averi che al suo essere. Il motivo del perché sarei stato il solo presente alla lettura del suo testamento fu anche questo. I suoi soldi avrebbero fatto comodo a chiunque, ma a me sinceramente non interessavano né prima, né mai.
Il domestico mi fece cortesemente salire le scale ed accomodare nella stanza degli ospiti che notai essere il doppio della casa che utilizzavo durante il periodo degli studi a Londra che però condividevo con altri due studenti.
Dai quadri appesi e dagli oggetti presenti era facilmente intuibile del perché fosse stato sempre molto pressato dalle attenzioni di parenti o conoscenti, pronti a mettere le mani sul suo patrimonio.
In quella stanza non mi trovavo assolutamente a disagio, ma preferì non perdere tempo per fare una breve visita della città. Il domestico, saputo che sarei uscito a fare una passeggiata al centro, mi consigliò alcuni posti da visitare. Lo fece con una sincera commozione proponendomi gli itinerari che amava percorrere lo zio. Le sue passeggiate non trascuravano le vie del centro, tra cui la bella Martins Platz e la cattedrale Bonner Munster che con i suoi alti campanili era un punto di riferimento, ma preferiva raggiungere il tranquillo Parco Hoffgarten dove è presente la Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universität Bonn. La città fiorita pareva quasi giustificare l’austera architettura teutonica abituata a climi rigidi piuttosto della giornata primaverile che favoriva la mia piacevole camminata esplorativa.
Poi lo scorrere dell’imponente Reno circondato da parchi, altre case, grattacieli e chiese.
Forse per questo motivo mio zio aveva scelto di trasferirsi in pianta stabile a Bonn. Era stato un corrispondente di filiale estero di banca per numerosi anni ed aveva vissuto in svariati luoghi. Durante le sue visite sono sempre rimasto affascinato dai suoi racconti che una volta profumavano di Parigi, altre di spezie di medio oriente e Cairo, altre ancora si tingevano di misteri, ambasciatori e guerre fredde a Berlino. Quando venne trasferito per il suo ultimo incarico a Bonn, questa era la capitale della Germania Ovest. La città era abitata da persone importanti; diplomatici, politici, faccendieri. Lui era uno di questi. Tra le sue mani sono passati documenti cui in pochi o forse nessuno saprà mai dell’esistenza. Transazioni finanziarie tra Stati ufficialmente nemici o tra individui apparentemente incompatibili. La sua banca gli aveva riconosciuto questa enorme capacità di inserimento in grosse commesse ed i capitali da lui investiti non avevano mai deluso le aspettative di nessuno.
Mi venne da sorridere pensando ad una delle tante storie che amava raccontare; con anche una certa ostentazione e presuntuosità, pur celata da un raffinato sarcasmo che inevitabilmente coinvolgeva tutti in sonore risate.
Tra passi e pensieri avevo raggiunto anche la Beethoven Haus in Bonngasse 20 dove nacque il compositore. La confusione creata da una scolaresca francese mi fece desistere dal trattenermi o curiosare all’interno.
Tutto era finito, come la sua lucida limousine che riposava ormai da tempo nel garage della casa di Poppelsdorfer Allee o forse in quello dell’appartamento di Parigi che aveva conservato senza apparente motivo. D’altronde, come amava ripetere, non aveva bisogno di vendere nulla.
Così, la sua vita solitaria, si era conclusa senza nessun fremito o tragedie da cronaca; aveva vissuto ed operato all’ombra, si era spento senza sussulti. Nel suo stile.
Rimanevano di lui oggetti preziosi, testimonianze di sentiti ringraziamenti da parte di persone in affari o acquisti preziosi.
E, forse, il bel ricordo che avremmo conservato io ed il suo fedele domestico, le uniche persone che forse lo apprezzarono semplicemente per quello che era e non per quello che aveva.
Sulle orme di Saramago (viaggio tra padre e figlia)
https://www.youtube.com/watch?v=KFJctedH_ys
La nostra conversazione telefonica si è appena conclusa.
Nonostante i molti anni passati, mi sento frastornata dal sentimento di rabbia e d’amore che provo nei suoi confronti. Non riesco a spiegarlo a me stessa ora, figuriamoci da bambina quando vedevo scorrere la mia vita da inconsapevole mutilata d’affetto. Le mie rivoluzioni ormonali le ha dovute subire mia madre; scontri a muso duro, pianti ininterrotti e porte chiuse in faccia alla persona che portava sulle spalle ciò a cui lui aveva rinunciato. Per la musica, avevamo voluto credere entrambe; semplice irresponsabilità la realtà dei fatti.
Il tempo ricuce vecchie ferite, da galantuomo qual è arrotonda gli spigoli, annebbia i ricordi. Le rughe del viso sono file di eserciti arresi al nemico. Sempre più numerosi, evidenti; stremati e raggruppati su campi di battaglia di pelle rosea.
Da poco ho accettato tutto questo e da altrettanto tempo ho caricato nel mio pc le poche fotografie scattate di quando ero piccola. Sorridevano tutti e quasi non riconosco più nessuno di noi.
Mi intenerisce la foto dove lui mi tiene in braccio. L’indice della mia minuta mano sfiora il suo volto. Forse già allora avevo presagito che qualcosa sarebbe andato storto. L’indicavo con innocenza come a voler dire E’ lui. E’ colpa sua. L’interpretazione attuale toglie molto alla realtà di quello scatto. Una semplice famiglia abbracciata e vestita in modo buffo.
Ad ogni apparizione a casa ed alle sue infrequenti sortite si materializzava una specie di eroe. Era lui che più si avvicinava al mio mondo immaginario di giochi e castelli di fantasia. Al cospetto di mia madre, pratica e disillusa, lui portava poesia e musica. Lasciava una scia di polvere luminosa evanescente ad ogni suo, raro, passaggio. Quanto avrei voluto seguirlo nei suoi viaggi, nelle sue avventure. Farmi accompagnare alla scoperta del nostro mondo.
Sono emozionata e sorpresa nel doverci passare qualche giorno assieme. L’invito a seguirlo ad una sua esibizione in Portogallo è nato casualmente; invito intricato da anni in attesa che una mia sciocca domanda lo scardinasse facendolo volare come un palloncino nel cielo.
Le nostre conversazioni sono fredde, distaccate. Ci scambiamo informazioni. Molte delle sue domande sono ripetitive. Quando si accerta delle condizioni di salute di mamma non credo lo faccia con pentimento. Forse è affetto, probabilmente abitudine. Non ha mai chiesto del mio compagno o della sua esistenza; come se le lancette del suo orologio si fossero fermate a quand’ero bambina.
Vivremo dei giorni strani, sicuramente interessanti, imprevedibili.
Suonerà a Casa da Musica a Porto, un enorme struttura futuristica a più piani che contiene diverse sale da concerto. Già lo immagino mentre appoggia la sua custodia ed apre con fare sicuro e rituale le clip usurate. Il vecchio legno che modella la sua splendida e lucente chitarra che estrarrà nuovamente è la dimostrazione della sua fedeltà. Tra la fuoriuscita di tante note la parola fedeltà sembra una forzatura di questo brano vissuto, invece è l’ottava sopra.
Mio padre è una coerente testa di cazzo, il titolo che leggo sullo spartito della mia vita.
Non ci sono stati molti abbracci tra me e lui. La sua chitarra era presente anche in quei rari momenti. Ricordo con piacere il calore del suo corpo mentre mi avvolgeva da tergo e posizionava le mie piccole mani sullo strumento, intento ad insegnarmi gli accordi. Una voce profonda e rassicurante accompagnava lo scorrere delle mie minuscole dita tra le metalliche corde di quel complicato arnese. Quante vesciche e quanto dolo
re.
Passeremo alcuni giorni a Porto e poi andremo a visitare Lisbona, mi ha detto. Nella capitale voglio visitare la Fondazione Saramago, l’unico sogno da adulta che metterò in valigia.
Il mio desiderio di riscoprire azioni infantili è annientato dal suo sorprendente entusiasmo e dal programma di viaggio. Colorato e surreale, come le nostre vite d’altro canto.
Mi ha parlato del piccolo agglomerato di case grigie con gli infissi blu chiamato Pidao. Collocato tra le montagne e nascosto timidamente tra esse al riparo del sole. Lo visiteremo di strada scendendo da nord verso il c
entro.
Ci sarà Sintra con i suoi castelli. Varcati i reticolati di cinta ci perderemo dentro giardini, corsi d’acqua, laghetti e fitta boscaglia formata da alberi centenari testimoni delle lunghe e riflessive passeggiate dei nobili feudatari la cui immensa ricchezza non sempre fu sufficiente a riempire incertezze e solitudini. Si dischiuderanno tra le nebbie i caldi e vivaci colori del Palacio da Pena, uno dei castelli più originali mai costruiti.
Approderemo nella capitale lusitana dopo aver percorso una ventina di chilometri brulicanti di antiche ville immerse in verdi parchi e vicoli inerpicanti fino ad approdare alla torre di Belem, ennesima meraviglia portoghese patrimonio dell’Unesco.
Guiderò io la macchina.
Rassegnata al fatto che ancora una volta sarà protagonista la musica; ad inframmezzare le nostre poche parole.
Magari quelle mai dette tra padre e figlia.
Se non sei mai stato odiato da tuo figlio, non sei mai stato genitore.
Bette Davis
Lisbona. Sostiene Pereira
Accartoccio l’incommestibile della mia colazione e lo butto.
Noto quanto sia davvero spropositato il materiale di scarto intanto che il cestino straborda.
Sono avvolto da un alone di stranezza ed incredulità, affrontare un viaggio adesso forse non è la cosa migliore da fare.
La porta si chiude dietro me, una mandata di chiave, la seconda e sono già sulle scale.
Si spegne la luce sui pochi miei averi e certezze che lascio dentro il mio appartamento. Cala il buio anche sul comodino ed il libro che vi è appoggiato sopra. Sotto la lieve patina di polvere sulla copertina si legge Sostiene Pereira.
Tabucchi inventa e descrive la storia di un protagonista mediocre, giornalista timoroso e passivo di ciò che accade in una Lisbona sotto assedio dittatoriale. E’ ambientato nel 1938.
Magari è causa di quel libro se la meta del viaggio è la capitale lusitana.
Arrivato, tra gli innumerevoli sali scendi e binari del tram ordinatamente adagiati sull’asfalto che li ricoprono, soffro un’aria irrespirabile. Penso sia dovuto al fatto che le case sono costruite una attaccata all’altra. Sembrano franate da una montagna e raggruppate ai bordi dell’Oceano in balia di un infinito istante prima di scivolarci dentro. Un affascinante ammasso colorato.
Chi mi ospita nella capitale è sicuro del fatto che la coltre di smog sia dovuta ai nuovi ambiziosi lavori di riqualifica del centro e dall’immane fatica che devono sostenere i mezzi per inerpicarsi tra le vie di Lisbona.
Mi sembra strano rivedere F dopo tanto tempo. Eravamo rimasti in contatto, sporadico, grazie alla semplificazione tecnologica. In altri tempi una semplicissima leccata al francobollo sarebbe risultata fatale al nostro rapporto.
Non mi colloca nella mia situazione attuale se ci troviamo a mangiare una nata in un rinomato locale in Praça dos Restauradores. Bellissima e ricca zona del centro costruita volutamente dopo il terribile terremoto del 1755 che distrusse tutta la città tranne qualche raro edificio. Mentre ci incamminiamo con goffaggine infantile mi pulisco la mano dagli ultimi residui di crema pasticcera, ripieno generoso della terza nata che ho ingerito. Forse non è il momento più adatto per specchiarmi nelle vetrine dell’Avenida Liberdade. Provo un sentimento più solidale rispetto al pover uomo che chiede l’elemosina a pochi passi dai negozi Burberry e Louis Vuitton, che alla agghindata signora che precede il bellman intento ad aprirle la splendente porta del Tivoli.
Ci avviciniamo al Parque Eduardo VII. Nell’attraversare l’Avenida Liberdade le mie vie respiratorie hanno goduto di una tregua, ora che siamo seduti al parco ricomincio a respirare. A spezzarmi dinuovo il fiato è la vista panoramica della città.
Ci raccontiamo pagine sparse delle nostre vite ed associo la mia alla Lisbona martoriata dal terremoto. Dentro di me solo macerie e nessuna visione di viali o parchi costruiti per siglare la rinascita. Troppo presto. D’altronde, mi spiega pazientemente F, ci vollero cent’anni prima che il francese Marchese di Pombal diede il via alla costruzione della Avenida Liberdade.
Condizionato dalle descrizioni mi aspettavo una città più poetica. Magari più artistica. Eppure F è emigrato dall’Italia decenni or sono per impiantare lì il suo studio di pittura. Ero tra quelli che all’epoca lo sottostimava mentre mi concentravo a primeggiare nella competizione del consumismo più sfrenato. Rispetto ai suoi epocali detrattori mi sento meschino e vigliacco. Mi nascondevo dietro persone che dichiaravano con cattiveria, ma in prima linea, il disprezzo nei suoi confronti. Usavo un fasullo sentimento d’amicizia per fargli pesare la mia presunta superiorità. Era alternativo, a modo suo unico e così lo vedo anche adesso mentre con disinvoltura continua a spiegarmi ogni angolo della sua città adottiva guardando fuori dalle finestre del tram 26. Per lui la libertà è qualcosa di naturale. E’ cresciuto libero. La riscoperta di questa libertà mi destabilizza.
Scendiamo dal tram 26. Il percorso è stato sorprendente ed ha svelato la parte più tradizionale di Lisbona. Sento di indossare un sorrisino da ebete mentre osservo il cartello di avviso nel vagone; informa i passeggeri del pericolo di borseggiatori. Non è l’insegna che mi fa sorridere bensì il confronto tra l’accorgimento protettivo adottato dal mezzo pubblico per evitare spiacevoli furti di modesti valori e la totale noncuranza con cui avevo portato al lastrico intere famiglie senza il benché minimo avviso.
Distolgo lo sguardo dall’intenso azzurro di occhi di donna che colgo nel ordinato intreccio di colori di uno dei quadri dipinti da F. Non riesco a farmi distrarre da niente e vengo completamente coinvolto dalle opere esposte. La mia glaciale scalata al successo aveva chiuso ogni spiraglio all’idea che quel ragazzo senza ambizioni potesse affinare la sua tecnica fino addirittura consentirgli di vivere di arte.
Non sono tutte sue le opere.
Mi racconta che lo studio è frequentato da altri due artisti con i quali ha un rapporto professionale duraturo e fraterno. Ama ospitare ragazzi talentuosi desiderosi di esprimere le loro idee attraverso l’arte. Per partecipare alle sessioni artistiche hanno l’obbligo di pagare una retta che consiste nel portare con sé qualche lattina di birra, qualcosa da mangiare e qualche amico musicista. Spesso impiegano più tempo a discutere, bere e suonare che a dipingere.
Il quartiere storico do
ve ci troviamo si chiama Alfama e non ha un aspetto rassicurante. Per accedere al suo studio siamo entrati da una finestra affacciata sulla strada riadattata all’uso di porta. Viene oscurata per qualche secondo al frequente passaggio del tram.
Nel frattempo si è fatta sera e decide che oggi è un giorno troppo speciale da passare chiusi nel suo laboratorio. Armeggia gli interruttori ed usciamo da una porta secondaria. Si spengono le luci dietro a noi. Attraversiamo l’ampia ed ordinata stanza adiacente dove prevale il colore neutro grigio delle pareti. Le sculture esposte nelle teche hanno uno spot di luce ed una targhetta con la schematica descrizione. Anche l’arte per sopravvivere necessita di una parte meno nobile, commerciale. Penso.
Tra le portate del menù che stiamo consultando su una piccola lavagnetta nel caratteristico locale dove ci troviamo permane ancora dell’imbarazzo. Le ridotte dimensioni della stanza obbligano gli avventori a sedere gomito a gomito anche tra sconosciuti. Diversità compresse in pochi metri quadrati.
Tutto sommato avrei desiderio di parlare di me e di cosa stava accadendo ad F, ma non trovo lo slancio per farlo. Penso alla faccia che farebbe la mia giovane sconosciuta vicina di panca se sentisse e capisse chi sono veramente. La cena invece scorre veloce tra la curiosità d’aver indovinato il cibo ordinato e le scritte sui muri, riesumazioni adolescenziali e commenti sugli altri commensali.
L’indaffarata e cordiale signora che si muove agilmente tra le barriere umane del suo ristorante si appoggia al nostro tavolo e conteggia velocemente su un piccolo block notes quello che dobbiamo lasciare. Intravedo la cifra, onesta, ma non ho il tempo di pagare. Vengo trattenuto da F che scambiando sorrisi e parole portoghesi incomprensibili con l’affabile locandiera salda abilmente il conto. Ringrazio F ma lo obbligo a continuare la serata altrove a mie spese.
I vicoli che attraversiamo sono riflessi nelle pozzanghere d’acqua che l’abbondante piovuta pomeridiana ha lasciato dietro sé.
A Lisbona la musica rimbalza tra le pareti dei muri delle case e trova la sua massima dimensione nei locali di Fado.
Sono un broker, fallito come le persone che ho strascinato dentro la follia economica di cui mi assetavo. Non conosco amicizia e sincerità ma solo il lusso dell’inanimato e rapporti pretenziosi ed occasionali. Il suono violento e sordo delle due porte che mi sono state chiuse in faccia in questi ultimi giorni rimbombano continuamente in me. E’ il vuoto che ho dentro alimenta l’eco di questo dolore che pare infinito. Ero e sono drogato di numeri, economia, soldi. Di niente.
Di locali assordanti e ristoranti di prestigio, abiti cuciti su misura, donne a cottimo e polvere bianca. Mal di testa e bruciore agli occhi. Occhi arrossati dall’alcool e dal monitor del mio laptop. Investimenti incoscienti e proposte indecenti nell’emozionante sali scendi della Borsa. Roller Coaster su cui ho volutamente, irresponsabilmente, egoisticamente stipato gente in ogni spazio del treno.
Follia alimentata da persone dalle mani ruvide, camminate stanche, sguardi fiduciosi.
Ho rovinato loro. Ho rovinato me.
Arrivano i nostri drink e non ho seguito nulla della descrizione di F riguardante il Fado. Era assorto nei miei pensieri. Pensieri che continuo a nascondergli.
Nella sala si accende una luce rossa. Segnala l’arrivo del gruppo che da lì a pochi istanti si esibirà per l’intima platea.
Porto il bicchiere alla bocca e Cristiana Águas comincia a cantare.
Ascolteremo questi canti e lascerò Lisbona. Penso.
Domani caricherò il mio pesante fardello e tornerò da dove sono arrivato.
Da dove non c’è domani.










